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giovedì 16 ottobre 2008

Hanno ragione loro

Purtroppo, la cosiddetta “riforma” della scuola ha una ragione profonda. Mi riferisco assieme alla 133 sull’Università, al “decreto Gelmini” che riguarda la scuola dell’obbligo e alla recente uscita della Lega di introdurre le “classi ponte” per i bambini stranieri. Paradossalmente, la riduzione dell’orario scolastico, il taglio drastico e trasversale delle risorse senza alcuna considerazione per le effettive esigenze delle scuole e degli studenti, corrisponde a un’effettiva razionalizzazione dei costi e benefici da parte dello Stato.
Lo Stato non è ovviamente un sistema autonomo, ma l’insieme delle pratiche sociali organizzate attorno a specifici campi di forza. Per capire quel che vuole fare la Gelmini (e questo Governo) bisogna chiedersi a cosa serva la scuola pubblica, e perché sia nata come servizio universale. Lo Stato non ha bisogno né desiderio di essere buono, e quel che gli serve è mettere in moto servizi che lo mantengano in vita possibilmente rafforzandolo. Quando nacque l’idea di “scuola dell’obbligo” la definizione già ne chiariva lo scopo: non si trattava di dare maggior libertà ai cittadini, ma un ulteriore dovere, da rispettare per il bene pubblico. Andare a scuola, nella seconda metà dell’Ottocento, in uno Stato di recente formazione frammentato per usi linguistici, tradizioni culturali e composizione sociale, voleva dire imparare i rudimenti di una cittadinanza condivisa. Questa condivisione era essenziale al funzionamento delle strutture dello Stato. Un operaio anche semplice, necessario poniamo per stendere binari e traversine (indispensabili all’uniformazione strutturale del paese, dato che senza un sistema di comunicazioni omogeneo uno Stato non è tale, cfr. le strade consolari dei Romani) doveva essere in grado di lavorare dove ce ne fosse bisogno, parimenti in Piemonte, Abruzzo o Calabria. Se quell’operaio aveva fatto almeno la seconda elementare aveva se non altro imparato a capire una serie di comandi di base in lingua italiana, e quindi poteva essere utilizzato su tutto il territorio nazionale. La migrazione interna (pensate che la seconda città italiana per numero di Calabresi è Torino) si poteva realizzare con maggior efficacia se una parvenza di koinè linguistica andava a colmare i gap dialettali. Un operaio specializzato o un impiegato dovevano essere in grado di leggere i manuali di istruzione delle loro attrezzature o delle loro pratiche burocratiche, e per questo lo Stato era disposto a investire nell’insegnamento.
Avere cittadini con un certo grado di omogeneità culturale era indispensabile, un investimento costoso ma il cui ritorno era evidente. Naturalmente la rapida separazione dei percorsi scolastici (scuole medie contro scuole di avviamento al lavoro) serviva a mantenere nitida la distinzione tra le classi e a garantire la loro relativa impermeabilità (si diventava operai da famiglie contadine, o insegnanti da piccoli bottegai, ma non si diventava medici da contadini o notai da impiegati). Eppure il sistema pubblico, l’istruzione concepita come “obbligo” e come “dovere” ha prodotto una nuova coscienza sociale, per cui l’istruzione è stata considerata un “valore in sé”. Si pensi, ad esempio, come una visione del tutto distorta di questa idea di educazione (sempre più ideologicamente distaccata dal sistema della produzione) abbia ridotto nel secondo dopoguerra l’istruzione universitaria di molte Facoltà a un insieme di nozioni spesso prive di senso e prive soprattutto di qualunque legame con la realtà sociale del paese, ma questo è un altro discorso.
Fino a quando ha retto il sistema fordista, lo Stato aveva la necessità di investire decentemente nell’istruzione per garantirsi quel livello di funzionalità strutturale (industria e servizi) indispensabile al suo funzionamento “moderno”.
Poi è arrivata la crisi del modello delle merci e della struttura lavorativa di base. E questo ha cambiato il rapporto tra Stato e istruzione.
Da qualche decennio i cittadini italiani sono italianizzati dai mezzi di comunicazione di massa (in primis dalla televisione) e quindi imparano la koinè nazionale senza bisogno di andare a scuola. La strutturazione del lavoro è tale che non ha più senso concepire la scuola come una piattaforma operativa sulla quale si andranno a innestare le diverse professionalità. Per rispondere a un call center non serve più che un’istruzione minima, visto che il compito è elementare e un grado di istruzione maggiore potrebbe risvegliare arcaiche “coscienze di classe”. Il sistema della stratificazione etnica del lavoro (per cui i muratori sono romeni, le badanti ucraine, i braccianti nigeriani, gli spacciatori albanesi o marocchini, i pizzaioli egiziani, e così via) funziona molto meglio se questi soggetti sono deboli, privi di diritti e facilmente ricattabili: a loro l’istruzione non serve o al massimo si propone qualcosa di “differenziato” per educarli fin da piccoli alla loro condizione di bacino etnico di forza lavoro.
Diventa invece imperativo, dato il decrescere delle risorse, mantenere e anzi rafforzare le barriere di classe. Ecco che la scuola pubblica può diventare lo spazio dell’istruzione minima da offrire ipocritamente a quelle che una volta si chiamavano “classi strumentali” e che oggi includono anche buona parte del “ceto medio”. Per i professionisti, gli affaristi e le clientele politiche in grado di arricchirsi, invece, si aprono scuole a pagamento dove viene mantenuto uno standard elevato e soprattutto non si teme di istillare una “coscienza di classe” che è ovviamente coscienza di appartenere a un’élite.
In questo quadro, la scuola pubblica non è un investimento sul futuro dei cittadini, ma una perdita secca, una scocciatura, una mesta sopravvivenza di un rituale sociale antico, in cui ancora si credeva che fosse possibile dare pari opportunità a tutti i cittadini e che poi sarebbe stata la disposizione di ognuno a produrre una gerarchia sociale. Finita l’epoca della democrazia intesa come pari opportunità, si apre una feudalizzazione della struttura sociale, e in questo processo la scuola diventa un campo di battaglia.
Io ho due figlie, una di sette anni e una di due mesi. Che scuola faranno ancora non lo so. La prima è in seconda elementare, e ha scansato per un pelo (un anno scolastico) il massacro del maestro unico. La seconda invece arriverà in una scuola ormai disossata, e io certo con il mio stipendio di 1150 euro (che diventeranno 1400) non avrò certo modo di mandarle alla scuola privata. Ecco che tutti gli sforzi dei miei genitori (primi diplomati delle loro genealogie) si esauriranno con me (primo laureato) e io dovrò combattere sperando che esista ancora un’università dove mandare mie figlie.
Non voglio parlare qui dei tagli all’Università, una schifezza senza senso che non tiene in alcun conto del merito e che anzi salvaguarda i privilegi della casta professorale, quella che manda in cattedra parenti e amici, di questo dirò un’altra volta. Voglio qui urlare tutta la mia rabbia per la cecità dei nostri governanti, macchine idiote e miopi in mano a una concezione folle dell’Economia. Questo Stato sta per essere spazzato via (quanto a ricchezza economica e benessere) da Stati che hanno capito che la crisi del sistema classico di produzione dei cittadini “uniformi” si supera non rinunciando al sistema dell’istruzione pubblica, ma investendo ancora di più perché dobbiamo produrre nuovi tipi di cittadini, più attenti, più consapevoli, più in grado di capire la velocità con cui cambia il mondo. Il mito del maestro unico (e lo si vede dalle baggianate mitologiche con cui si accompagna: il grembiule, il voto in condotta, l’educazione civica) va bene per far contenti tutti quelli che, spaventati dalla rapidità dei mutamenti in corso, chiudono gli occhi e si ricordano dei bei tempi andati, quando le cose erano semplici e il pane si cucinava in casa. Invece di aguzzare la vista per capire meglio quel che succede, vogliono farci chiudere gli occhi, sperando che in questo modo la distruzione culturale ed economica a cui stiamo andando incontro sarà meno dolorosa. Se avessi un briciolo di fede chiederei a Dio di perdonarli “perché non sanno quello che fanno”, ma di fede non ne ho e non posso perdonare questa casta di insipienti che invece di portare il nostro paese verso un futuro fatto di prospettive e grandi visioni sociali lo sta sprofondando verso un tempo vergognoso di ristagno sociale e di miseria culturale.