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domenica 28 giugno 2009

Terminologia di parentela


A questo mi ci ha fatto pensare il mio amico e collega Bjorn Thomassen.
Una delle cose che faccio sempre studiare nel corso introduttivo di antropologia culturale è la “terminologia della parentela”, vale a dire i diversi modi con cui le diverse culture nominano le varie figure parentali. Ci sono in effetti delle regolarità per cui, senza entrare nei dettagli, alcune culture hanno un unico termine per padre, fratello del padre e fratello della madre, mentre altre (come la nostra) hanno un termine per padre e un altro in comune per fratello del padre e fratello della madre (vale a dire “zio”). Ci sono invece culture che hanno un unico termine per “padre” e “fratello del padre”, ma distinguono bene queste figure dal “fratello della madre”, mentre altre ancora hanno un nome diverso per ogni posizione parentale.
Le diverse terminologie sono quindi raggruppabili in una tipologia abbastanza ristretta, e normalmente le variazioni sono correlate al sistema di parentela e ai modelli matrimoniali prevalenti.
Il nostro sistema di terminologia prevede quindi un nucleo centrale (padre, madre, fratello, sorella) circondato da “zii” e “cugini” che si collocano simmetricamente dal lato paterno e da quello materno, circondati a loro volta da “nonni”, “prozii” e “secondi cugini”.
Nel nostro sistema terminologico è sempre più evidente un “buco” che non sappiamo come colmare, e che dipende da un mutamento nelle relazioni parentali che la terminologia non ha ancora “coperto”. Mi riferisco alla nuova figura parentale del “secondo parter” di persona che abbia già dei figli. Esempio: io sono separato e ho una figlia (Rebecca) dal mio precedente matrimonio. Ora convivo con la mia attuale compagna, Valeria, dalla quale ho una seconda figlia, Amanda. Rebecca passa con la mia nuova famiglia circa la metà del suo tempo, e quindi ha instaurato un rapporto autonomo con Valeria, la mia compagna. Ma mentre io sono suo padre, e Amanda è sua sorella (mezza sorella, ma nessuno la corregge quando dice che Amanda è sua sorella e basta), chi è Valeria per Rebecca? Di converso, chi è Rebecca per Valeria? La loro relazione deve sempre passare attraverso di me (Valeria è la “compagna di papà”, Rebecca è la “figlia del mio compagno”) o attraverso Amanda (Valeria è “la mamma di Amanda”, Rebecca è la “sorella di Amanda”) ma non c’è un termine per indicare il nuovo partner del genitore o per indicare i figli del proprio attuale partner. I termini patrigno/matrigna e figliastro/figliastra non si usano (sono praticamente confinato ai personaggi delle favole) e comunque sono riservati a quei casi in cui il genitore naturale sia morto, e quindi “rimpiazzato” in via definitiva. Ma sempre più spesso i figli hanno sia due genitori che due nuovi partner dei genitori, e né i bambini (Valeria è la mia X) né gli adulti (Rebecca è la mia Y) hanno un termine per indicarli.
Oltre a un inevitabile ritardo per una relazione sociale che esiste in Italia da trent’anni, credo che l’assenza del nome indichi anche una parziale tabuizzazione della relazione: in effetti, la nostra cultura fa fatica ad accettare il fatto che si possa istaurare un rapporto autonomo tra bambini e partner dei genitori biologici, svelando quindi un’ideologia profondamente naturalista dei rapporti di cura tra adulti e bambini. La cultura, non trovando la parola per questa relazione, ci sta dicendo che trova quella relazione imbarazzante, evidentemente perché implicitamente svela la natura profondamente sociale (non-naturale) del rapporto tra genitori e figli.