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giovedì 15 ottobre 2009

Demoché?

Pare che così (Demoché?) abbia risposto l’allora onorevole (forse era ministro, non so, non sono mai riuscito a seguirne le gesta) Vittorio Sgarbi quando gli chiesero qualcosa a proposito delle sorti della demoetnoantropologia. Ora, son d’accordo, il nome è orrendo, se non assurdo, ma è un retaggio di un’epoca in cui toccava trovare equilibri con il bilancino e la tripartizione demo- etno- antro- era necessaria per evitare affossamenti di cattedre. Ora, che con la ex riforma le cattedre non esistono più (non dovrebbero esistere più, diciamo) si potrebbe soprassedere e ammettere che stiamo parlando dell’antropologia culturale italiana, e del lavoro degli antropologi culturali in Italia.
Ho già raccontato qui le curiose vicende dell’ICDE, l’Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (volevo mettere un link al sito, ma viene fuori questo), inopinatamente affidato da regolamento alla direzione di uno storico dell’arte, e su Facebook avevamo fatto un po’ di casino fino a vincere quella battaglia.
Pensavamo che la soppressione della figura del funzionario antropologo allora fosse stata una questione ad personam, ma evidentemente ci sbagliavamo.
Il Ministero dei Beni Culturali (Mibac) ha siglato un accordo di intesa con i sindacati per razionalizzare i suoi profili professionali. È successo che per la terza area (non chiedetemi di preciso cosa sia, ma ha a che fare con la funzione di “capo”) sono stati individuati i seguenti profili:

1. FUNZIONARIO ARCHEOLOGO
2. FUNZIONARIO ARCHITETTO
3. FUNZIONARIO ARCHIVISTA
4. FUNZIONARIO BIBLIOTECARIO
5. FUNZIONARIO INGEGNERE
6. FUNZIONARIO STORICO DELL’ARTE
7. FUNZIONARIO RESTAURATORE
8. FUNZIONARIO INFORMATICO
9. FUNZIONARIO DIAGNOSTA
10. FUNZIONARIO AMMINISTRATIVO
11. FUNZIONARIO PER LE TECNOLOGIE
12. FUNZIONARIO COMUNICATORE E PER LA DIDATTICA
13. FUNZIONARIO SCIENTIFICO

Oibò! dentro il Ministero per i Beni e le Attività Culturali NON c’è posto per gli antropologi culturali, mentre ce ne sarà per gli ingegneri, gli architetti e i funzionari scientifici! Che cervelloni al Ministero! Come se al ministero per la Difesa ci fossero Funzionari Pizzaioli (del resto anche i soldati mangiano pizza) ma non ci fosse il Funzionario Militare.
In pratica, i vecchi “profili” esistenti sono stati convertiti in “funzionario x”, tranne che il vecchio profilo di demoetnoantropologo che è stato letteralmente assorbito da quello di “funzionario storico dell’arte”.
La situazione è tanto più paradossale in quanto proprio un anno fa era partita la prima Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, che sarebbe dovuta servire proprio per formare quella figura di “funzionario antropologo” che invece non è mai stata fatta nascere, cannibalizzata dagli storici dell’arte.
Eppure, così, a spanne, tutti dovrebbero aver chiara la differenza tra un bene artistico e un bene culturale, tra un quadro e una festa religiosa, tra una statua e una processione, tra un mosaico e una filastrocca, tra un coro gregoriano e un canto popolare, tra un arazzo e un vestito tradizionale. Niente, non riesce proprio a entrargli in testa, a quelli del Ministero, che i beni artistici sono una cosa (e hanno bisogno di storici dell’arte) e i beni culturali sono un’altra (e hanno bisogno di antropologi).
Potete immaginare come si sentano gli antropologi in generale e in particolare gli studenti della Scuola di Specializzazione di Perugia, che infatti hanno scritto una lettera aperta al Ministro che pubblico volentieri, come piccolo segno della mia solidarietà nei loro confronti. Poco più di un anno fa avevo consigliato a una mia brava laureata di iscriversi alla Scuola, che sapevo seria e che vedevo un’ottima opportunità di formazione per una figura amministrativa emergente. Ecco, forse sono io che proprio porto sfiga, o forse al Ministero qualche solerte funzionario che stila i regolamenti e le bozze di accordo sindacale deve essere stato bocciato più volte all’esame di antropologia culturale, per avercela così tanto e così insensatamente con noi.
Forza ragazzi. Io dico che è una scemenza, e come quella dell’ICDE dovrà rientrare. In cambio, sarebbe ora che pensassimo a cambiare nome ufficiale, lasciando alla storia lo scioglilingua demoetnoantropologi e accettando di chiamarci come ci chiamano tutti: antropologi culturali.

Roma, 13 ottobre 2009
Lettera aperta al Ministro per i Beni e la Attività Culturali Sen. Sandro Bondi
Chi Le scrive sono i ventidue iscritti alla Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici istituita dall’Università degli Studi di Perugia nell’anno accademico 2008/2009 in collaborazione con le Università di Siena e di Firenze sulla base di un decreto del Ministero dell’Università (Decreto Ministeriale 31 gennaio 2006 "Riassetto delle Scuole di specializzazione nel settore della tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale"). La Scuola, la prima in Italia, oltre a rappresentare un percorso di altra formazione è stata attivata nella prospettiva di un inserimento degli antropologi specialisti del patrimonio nel campo della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale demoetnoantropologico al quale fa riferimento il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, un documento molto ispirato dall’antropologia culturale sui temi delle identità, della pluralità dei soggetti e del ruolo delle popolazioni nella definizione del patrimonio e del paesaggio).
Abbiamo studiato per un anno, svolgendo attività di laboratorio, ricerche e tirocini su temi che vanno dalla musica popolare all’expografia, dalla legislazione al management dei beni culturali. Abbiamo elaborato dossier di ricerca, riflettuto sul dibattito internazionale che si è sviluppato attorno al tema del patrimonio culturale, incontrato Soprintendenti, e abbiamo avuto netta la percezione del fatto che ci sia bisogno nelle regioni, nei comuni, nel Ministero per i Beni e le Attività Culturali delle competenze per le quali ci stiamo formando.
Competenze quanto mai specifiche e preziose perché legate alla vita della gente, alla varietà delle culture ancora viva nell’Italia moderna, adeguate e fruttuose nello studio delle nuove migrazioni, che rivestono una forte utilità sociale sul piano dell’integrazione, e infine che possono favorire nuovi modi di fruizione del territorio.
Nessuno di noi è giovanissimo. Molti hanno alle spalle un curriculum di studi molto ricco, fatto di dottorati di ricerca e di master. Alcuni hanno già fatto esperienze di musei, di attività culturale nella società civile e nel servizio pubblico. Se ci siamo iscritti a questo corso è perché pensavamo che lo Stato avesse bisogno del sapere di cui siamo portatori e soprattutto del nostro lavoro. I nostri docenti, e anche la direttrice dell’Istituto Centrale per le Demoetnoantropologia, ci hanno ricordato che rappresentiamo una esperienza nuova e avanzata di tutela del patrimonio, originale anche rispetto agli altri paesi dell’Occidente. Nelle lezioni è stato evidenziato inoltre il ruolo nuovo dell’UNESCO e dei patrimoni immateriali, temi sui quali è anche nata una nuova legislazione regionale (aperta dalla Regione Lombardia).
Non c’era dunque motivo di credere che la professionalità dei demoetnantropologi potesse essere messa in forse: a noi sembrava confermata dalle realtà del territorio, dotata di forte spessore nel passato, di competenze plurali legate anche ai temi del turismo e della pluralità culturale, al nuovo ruolo educativo dei musei. Malgrado la continua svalutazione al quale il nostro profilo scientifico è sottoposto, rimaniamo fermi nella convinzione che ci sia effettiva domanda sociale del nostro lavoro, che l’antropologo possa svolgere un ruolo determinante all’interno delle dinamiche e delle problematiche della società contemporanea (come nel caso della mediazione culturale).
Ciononostante leggiamo ora, all’interno di documenti ancora non del tutto deliberati presso il MIBAC, che una parte dell’amministrazione pubblica (che consideravamo il nostro punto di riferimento e la nostra potenziale casa futura), è in procinto di annullare questa evidenza e sovverte, con un gesto di pesante dequalificazione, la prospettiva di nuova professionalità in futura disoccupazione. A seguito di una formazione specifica, accademicamente valida tanto quella degli storici dell’arte e degli archeologi, a noi sarebbero ancora una volta preclusi campi di occupazione a loro lasciati aperti, ma di cui siamo noi a detenere competenze e professionalità.
Con la presente desideriamo, quindi, testimoniarLe le ragioni per cui siamo convinti che il nostro profilo demoetnoantropologico non può essere abolito, né collocato sotto l’egida della storia dell’arte e ribadire le motivazioni per cui l’Italia, lo Stato e il Ministero hanno bisogno di noi.
Consapevoli del forte spirito di servizio con il quale partecipiamo al corso di specializzazione (a costo di pesanti sacrifici in denaro, tempo e spostamenti da tutta l’Italia) possiamo rendere evidente anche grazie a questo anno di ricerche in varie parti del territorio nazionale, l’errore che si rischia di fare. A danno del Paese, e non solo nostro.
Chiediamo dunque che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali si adoperi per il definitivo annullamento della ingiusta riorganizzazione che cancella il nostro profilo professionale dall’organigramma del MIBAC accorpandolo a quello degli storici dell’arte.