2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 19 ottobre 2009

Leggere per credere

L'antropologia italiana è meno noiosa di quanto potreste pensare. Intanto c'è da registrare che la proposta ministeriale di fare sparire la figura dell'antropologo culturale dalle qualifiche dirigenziali sta scatenando un putiferio da parte di tutti i settori dell'antropologia: università, associazioni e musei, per una volta uniti, stanno bombardando il Mibac di lettere in cui contestano l'assurdità di questa ipotesi di assorbimento degli antropologi da parte degli storici dell'arte. Anzi, vi invito a firmare la petizione online, sperando di essere veramente in tanti.
Ma la cosa bella, per me, è che comincia ad emergere il valore profondamente politico della nostra disciplina, il che dovrebbe (il condizionale è d'obbligo visti i tempi e vista la callosità della categoria) attrarre l'attenzione del mondo giornalistico.
Riporto una lettera bellissima, che riassume la rabbia della frustrazione che viviamo incastonandola dentro la rilevanza contemporanea della nostra disciplina. Fabio Mugnaini è uno che si incazza, ma come potete vedere si incazza con una precisione da far invidia. Leggete, soprattutto se non siete antropologi, per capire quanto vale quello che facciamo. (Il fatto che la lettera sia rivolta al "Signor Lerner" per me è il segno più commovente di quanto siamo proprio fuori dai giochi della comunicazione "che conta"). Insomma, se sei un giornalista e leggi qui sotto, non fare finta di non aver capito cosa TI stiamo chiedendo!
NB: Le enfasi nel testo che segue sono mie, pv

Signor Lerner,
buongiorno, non so se sia questo l'indirizzo giusto, ma provo, così come ho fatto in altri casi, a farle pervenire il rumore di una tempesta che sta montando in un settore della formazione scientifica e della politica culturale del nostro paese. Non sarà questione con cui riempire piazze, o prime pagine di giornali, ma non è irrilevante né senza effetti durevoli.
L'antropologia è uno dei settori della formazione universitaria cui il nostro paese dovrebbe attingere per comprendere e gestire i fenomeni più scottanti su cui si agitano politici e si inquietano i cittadini. Dalle questioni del multiculturalismo, alla vocazione multietnica della nazione italiana, al peso dei dialetti e delle culture locali nella formazione di base, al ripristino di corretti rapporti politico economici con i paesi in via di sviluppo, alla necessità di politiche della riproduzione assistita e di tutela alle varie forme di famiglia, ai rapporti tra medicina, salute e benessere individuale o sociale, ai patrimoni culturali costituiti dalle tradizioni popolari: non sto facendo un elenco a vanvera, sto solo citando a memoria alcuni dei programmi d'esame, degli argomenti di tesi di laurea e di dottorato, e di libri e saggi prodotti dagli antropologi "maturi", di cui si sostanzia un settore delle scienze sociali che dovrebbe godere in questo momento storico di sostegni e di considerazione adeguati al carattere di "urgenza" della questioni che lo sostanziano. Ed invece, come spesso succede, in un tempo di tagli come questo, i segnali vanno in direzione contraria.
Richiamo la sua attenzione solo su tre fatti, distanziati nel tempo, ma sulla stessa linea.
1) Non ancora due anni fa, il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari - vetusta istituzione vivacizzata negli ultimi decenni da un team di funzionari antropologicamente formati, che sosteneva una direzione affidata a un funzionario ministeriale storico dell'arte, viene trasformato in Istituto Centrale per la Demo-etnoantropologia; operazione da grandeur istituzionale che, però, per garantire la continuità alla direttrice, consegna a norma di statuto, la direzione dell'Istituto (vago sentore coloniale) ad uno "storico dell'arte". Come a dire che chiunque volesse in futuro aspirare a dirigere un istituto che gestirà fondi e iniziative di ricerca in materia di etno-antropologia, dovrà sapere di tutt'altro e potrà anche essere ignorante in materia di museologia, di storia delle tradizioni popolari, di antropologie regionali, tematiche, ecc..
2) Qualche mese fa comincia a circolare una bozza dei nuovi licei promessi o sognati dal ministro Gelmini; ce n'è uno che fa riferimento alle scienze sociali e nel nostro panorama di materie umanistiche fermo alla riforma Gentile o quasi, entrano due materie: scienze sociali e scienze sociali e metodologie della ricerca sociale; se si va a vedere quali sono le competenze che si richiedono ai futuri insegnanti, si scopre che la bozza identifica solamente filosofi e pedagogisti, come se nel nostro paese l'antropologia e la sociologia non fossero conosciute né insegnate. I nostri studenti, che intravedono nello sbocco dell'insegnamento pubblico un fine - e non solamente una sistemazione - altrettanto gratificante degli orizzonti alternativi della ricerca e dell'intervento nella cooperazione e nelle politiche sociali, si preoccupano ma la bozza scompare nelle sabbie mobili dei lavori preparatori del decreto che non arriva, e quindi tutto torna a tacere.
3) Di pochi giorni fa, invece, la notizia che il Ministero dei Beni culturali, che da anni ha aggiunto i beni "demo-etnoantropologici" al patrimonio dei beni culturali da tutelare, sta proponendo ai propri addetti una bozza di riorganizzazione interna, dove, per risparmiare su qualche profilo, si propone che le figure dei "funzionari storici dell'arte" e dei "funzionari demo-etnoantropologi" confluiscano in una unica categoria, che si chiama, ovviamente, " funzionario storico dell'arte". Ovvero sarà di nuovo un esperto di grafica o di preraffaelliti a dover decidere di politiche di tutela di musei del lavoro e della cultura locale, di patrimoni di musica popolare, di teatro popolare, di biografie e archivi di storie di vita, di musei dell'emigrazione, di mercati, di processioni e rituali da documentare e tutelare anche dalle storpiature di una industria aggressiva come quella del turismo...
Gli operatori delle centinaia di musei della cultura popolare attivi (e non solo aperti) nel nostro paese, vedono mortificata una professionalità desiderata, coltivata e ampiamente convalidata anche alla luce della comparazione con esperienze internazionali. Se la bozza diventa norma e se l'esempio centrale si diffonde nelle periferie, nessuno spazio di lavoro istituzionalmente riconoscoiuto sarà disponibile per gli antropologi; mentre gli storici dell'arte - in buona parte nobilmente schierati con noi e contro questa assurda equiparazione - si vedranno mortificati in una supplenza non sostenuta da competenze scientifiche e professionali.
In questo momento la bozza non è ancora stata adottata formalmente, ma i nostri studenti sono particolarmente allarmati - e gran parte della comunità di studiosi con loro - perché vedono in questo un temibilissimo precedente per la cancellazione di qualunque progresso nel riconoscimento pubblico di una professione che è premiata in modo inversamente proporzionale alla sua utilità.
Dagli studenti dei nostri corsi di laurea (diverse decine in tutta Italia), dai pochi dottorati di ricerca sopravvissuti ai tagli ed a creative mutazioni epistemologiche, dalla prima Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici che è stata varata lo scorso anno a Perugia, con il viatico e la tutela del Ministero e della direttrice dell'Istituto Centrale per la demoetnoantropologia, stanno giungendo lettere e documenti che troveranno molte difficoltà a penetrare la parete della stampa.
Io mi auguro che questo suo spazio di forum pubblico possa almeno dare la notizia di quanto sta succedendo: il governo che d'estate blatera di competenze in materie di culture locali, dialetti e tradizioni come "requisito" per l'accesso alla docenza nelle scuole pubbliche, il governo che affida ad un ministero specifico la promozione del turismo alimentato in larga parte dai patrimoni della cultura locale popolare, feste, cibo e musica in primo luogo, è poi lo stesso che autorizza il suo ministro per i Beni culturali ad assumere decisioni che strangolano l'unico settore in cui ricerca universitaria, formazione universitaria, politiche locali, industria della cultura e del turismo sostenibile, avrebbero potuto e dovuto confluire sinergicamente, come altri amerebbero dire. Spero anche che si possa dire come a me e a molti di noi, docenti e studenti del settore antropologico, appare chiaramente che tutti i mancati riconoscimenti, o i disconoscimenti sostanziali come quelli che ho elencato sopra, sono motivati dal fatto che l'antropologia italiana si è qualificata come una disciplina che produce un sapere critico, sempre più frontalmente opposto a politiche sociali e culturali di segno autoritario, razzista, neonazionalista e volgarmente mercantilista, e che anche quando da antropologi, ci si occupa di temi apparentemente neutrali come la ricetta della ribollita, non si può tacere il fatto che la conoscenza delle culture dei nostri "altri", sia che vengono da lontano sia che vengano dal nostro passato recente, semina dubbi e alimenta alternative alla deriva che ci viene proposta come futuro.
Se crede di poter sintetizzare quanto esposto, ne faccia l'uso che crede; se vuole approfondire il tema posso mandarle in copia i testi dei documenti che stanno partendo per il Ministero e alcuni link ai siti di associazioni di settore: non lo faccio adesso per non riempire una cassetta di posta di cui ho già ampiamente abusato.
La ringrazio, intanto, per l'attenzione
Fabio Mugnaini
Corso di Laurea Specialistica in
Antropologia Culturale ed Etnologia dell'Università di Siena