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mercoledì 4 novembre 2009

Pensieri de-strutturati sulla morte di Claude Lévi-Strauss


Non lo sentivo da mesi, il mio amico ed ex allievo Elia Romanelli. Ma ieri mi ha chiamato per la morte di Lévi-Strauss, gli è sembrato un gesto necessario, sono stato il primo a insegnargli un po' di antropologia e Lévi-Strauss era morto, come se tra le due cose vi fosse un legame necessario ed evidente.
Non ho saputo dirgli nulla di sensato, gli ho chiesto invece di lui, del suo lavoro di regista, e gli ho raccontato delle mie ricerche, di come va la famiglia. Poi ho pensato che avrei voluto dirgli questo.
Dovrei dire qualcosa, ma non riesco a organizzare un discorso anche solo abbozzato.
Era l’antropologo più famoso al mondo, in Italia forse l’unico antropologo famoso (a parte Augé divenuto di moda più come tuttologo, mi pare), comunque l’unico antropologo che faceva debolmente luccicare l’occhio dei giornalisti delle redazioni culturali. Per me ha significato l’antropologia tout court fino alla fine degli anni Ottanta, quando ho scoperto Geertz.
Per me ha significato l’effimera illusione che “formale” coincidesse con “scientifico”.
Per me è stato l’ultimo antropologo dell’Ottocento (sua definizione) a morire curiosamente nel Terzo Millennio.
Per me è stato la verginità intellettuale, la convinzione che si potesse studiare l’Altro senza farsene sostanzialmente intaccare, ma limitandosi ad osservarlo come un insetto in formalina.
Ci ha illuso che l’antropologia potesse essere una disciplina “semplice” come l’intendeva lui, fatta di prescrizioni operative, di cose da scegliere e combinare. Ci ha illuso che la conoscenza fosse un esercizio solitario, e non un processo relazionale.
Uno dei cervelli più acuminati del Novecento, terrorizzato dal lavoro che avrebbe dovuto fare, direi. Di lui ricordo un ricordo di un amico francese, che nei primi anni Novanta ancora lo vedeva zoppicare nella biblioteca dell’Ecole. Ricordo il ricordo di Sperber, che non frequentò i suoi corsi per protesta, per poi pentirsene. E allora ricordo il ricordo/citazione di Clifford, mi pare da New York pre e post-figurativa: l’indiano con le penne in testa e la penna Parker per prendere appunti nella biblioteca di New York durante la seconda guerra mondiale, che lui, collezionista di stampe di ritratti di pellirosse, aveva frainteso come una sopravvivenza di un passato in via di sparizione, mentre era il vivissimo prodromo di un mondo meticcio di là da venire ma di cui, se avesse avuto un po’ meno paura dei suoi oggetti di studio, avrebbe dovuto cogliere i vagiti.
Per tutti, è stato il punto fermo delle nostre critiche degli ultimi trent’anni. Non siamo post-strutturalisti, siamo post-lévistraussiani, perché è sostanzialmente contro di lui che abbiamo scritto, almeno dal 1986 in avanti.
Io ero stregato dalle strutture, dall’operatore totemico che sembrava un diamante, e poi ho letto “Il cristallo e la fiamma” di Calvino, e assieme alla lettura di Geertz quel diamante mi si è sbriciolato in mano.
Mi è rimasto il gioco euristico di sparare opposizioni quando non capisco una cosa che cerco di studiare, e spesso mi vengono fuori associazioni che funzionano e mi fanno capire meglio.
Mi è rimasta tutta la mia distanza per il suo sguardo da lontano, che non capisco più, che trovo orrendamente disinteressato agli uomini vivi. Mi è rimasto lo sbigottimento per il suo elogio dell’etnocentrismo con la sua visione delle culture come vagoni di treni separati, e tutta la distanza che voglio mettere tra quell’immagine e la mia concezione delle culture e del modo di studiarle.
Mi è rimasta la voglia intellettuale di uccidere il Buddha, ogni volta che l’incontro, che è quello che spero di insegnare ai miei studenti.