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domenica 29 ottobre 2017

Antropologia culturale #12 e #13

26 e 27 10 2017. Un solo testo per due lezioni metodologiche (prima parte e seconda parte), in cui abbiamo cercato di raccontare come si fa ricerca etnografica. Se la cultura è quel sistema complesso di segni che abbiamo finora sommariamente definito, e se l’epistemologia della disciplina impone un approccio teorico di tipo ermeneutico, in concreto questo in cosa si risolve? Cosa succede veramente quando l’antropologa o l’antropologo deve condurre una ricerca mettendo a frutto la sua professionalità? Per che tipo di dati raccolti siamo pagati?
Abbiamo letto quindi La politica del campo di J-P Olivier de Sardan, e presentato quello che a mia conoscenza è il testo introduttivo migliore per capire cosa si fa, sul serio, una volta che si conduce una ricerca sul campo. Il punto di partenza è non commettere l’errore di cercare solo quel che già si conosce, ed accettare il fatto che sul campo c’è un sacco di spazio per la SERENDIPITÀ, vale a dire quella strana qualità della vita umana, per cui cercando una cosa ne troviamo poi molte altre a cui non stavamo minimamente pensando. Per cogliere questo punto, abbiamo parlato di questo test, che potete fare come esercizio introduttivo. Dove semplicemente contare quanti passaggi fanno i giocatori con la maglia bianca. Contate bene, mi raccomando.
Come sintesi della lezione (durante la quale ho ripreso diversi punti esemplificativi dalla mia ricerca in Macedonia occidentale greca, di cui diremo in dettaglio nelle due lezioni finali), riporto di seguito una parte degli appunti che avevo steso anni fa per una lezione a un gruppo di dottorandi di storia, nella porzione dove riassumo proprio i concetti di base di Olivier de Sardan, più una rapida introduzione sul ruolo dell’INTIMITÀ nella ricerca etnografica, di cui non abbiamo avuto modo di parlare direttamente ma che credo sia importante sottolineare.

1. Intimità e etnografia

L’antropologo che fa ricerca sul campo si trova a dover considerare come strumento di lavoro quel che per altri studiosi dell’uomo spesso è considerato un ostacolo alla correttezza della ricerca, e cioè l’intimità con le persone dalle quali cerca di ottenere la materia prima del suo lavoro. Mentre un sociologo, uno storico, ma anche uno psicologo o uno psicoanalista valutano con estrema cautela l’eventualità di provare qualche forma di attaccamento emotivo per i propri interlocutori (o per i propri documenti), per l’antropologo questa condizione di contatto profondo non solo non viene esclusa, ma è anzi attivamente ricercata: solo grazie alla “confidenza” con i propri informatori, infatti, potrà sperare di fornire una rappresentazione adeguata del “punto di vista del nativo”. Vered Amit-Talai (1999, p. 2) riassume questa particolarità della ricerca etnografica in modo efficace:
Una delle peculiarità dell’osservazione partecipante intesa come ricerca etnografica è il modo in cui il/la ricercatore/trice e le sue personali relazioni fungono da vettori privilegiati per l’elicitazione dei dati e per la loro comprensione. Sicuramente non esiste altra forma di indagine scientifica in cui i rapporti di intimità e familiarità tra ricercatore e soggetto indagato siano considerati un così fondamentale strumento di indagine, invece che un effetto collaterale intrusivo o addirittura un impedimento alla ricerca.
A questa citazione possiamo contrapporre, con un pizzico di retorica contrastiva, la preoccupazione di una storica, Annette Wieviorka che, ponendosi direttamente il problema della rilevanza del testimone nella ricostruzione storica, sembra preoccupata proprio di non perdere il passo con l’obiettivo fondamentale della sua disciplina:
Come costruire allora un discorso storico coerente se ad esso si contrappone costantemente un’altra verità, quella delle memorie individuali? Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al rigore quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena pubblica? (Wieviorka 1999).
Ovviamente, non pretendo che questa opposizione schematica sia sistematica (ci sono antropologi che si pongono il problema di come superare la “seduzione etnografica”, e ci sono storici del tutto convinti della necessità di un contatto più profondo con la questione “esperienziale” della ricerca) ma rimane il fatto che la tensione tra distanza critica e identificazione empatica con la fonte sembra spingere la storia verso la prima, e l’antropologia verso la seconda. In realtà, posta in questi termini ipersemplificanti, l’opposizione è del tutto artificiale e fuorviante (cfr. Dei 2005, pp. 41-42), dato che rischia di banalizzare lo spinoso problema dello statuto ontologico delle rappresentazioni (che sono i dati principali e dell’antropologo e dello storico). Ma in questa sede non voglio occuparmi del rapporto tra realtà, verità e scienze umane, quanto piuttosto di un tema collaterale, e cioè l’interazione tra produzione etnografica e rappresentazioni dell’identità. Il problema che mi pongo, quindi, può essere formulato con due domande dirette:
1) cosa succede alle “fonti” una volta che sono state raccolte o trattate dall’etnografo?
2) cosa succede all’etnografo una volta che inizia a trattare certe fonti?
Proprio perché una risposta a queste domande deve problematizzare il “luogo” di produzione del sapere “intimo” dell’antropologia, per poter articolare una risposta, presenterò alcune considerazioni preliminari sui “dati” antropologici, per poi passare a due esempi tratti dalla mia esperienza di ricercatore [non li presento qui, erano esempi fatti per la lezione agli storici].

2. Il dato antropologico

La ricerca antropologica si basa sul quattro forme di produzione dei dati, che tra loro interagiscono costantemente.
1. l’osservazione partecipante
2. i colloqui
3. le procedure di censimento
4. la raccolta di fonti scritte (nelle quali includo qualunque forma di “scrittura” intesa come memoria extrasomatica, per cui tra le fonti “scritte” vanno considerati anche filmati su pellicola o su nastro magnetico e tutti i tipi di “file” audiovisivi oggi disponibili).
Vediamo in dettaglio ognuna di queste quattro forme.

2.1 osservazione partecipante

Lo strumento fondamentale del lavoro dell’antropologo nel produrre dati con questa forma è il taccuino. Secondo Olivier de Sardan (2007, p. 34), il taccuino “è il luogo dove si opera la conversione dell’osservazione partecipante in dati trattabili ulteriormente”. Il ricercatore, immerso nel contesto della sua ricerca, osserva, ascolta e interagisce costantemente e il taccuino degli appunti sedimenta i corpus che saranno poi trattati nella fase di elaborazione. Come lo storico ha gli archivi nei quali produce i suoi corpus, così l’antropologo ha il taccuino di campo, che gli consente di registrare quel che ritiene importante per conservarne una traccia. Non affronto in questa sede la questione dello statuto epistemologico di questi corpus, ma mi limito a osservare come l’antropologia culturale abbia da lungo tempo superato il paradigma rigidamente positivista secondo cui i dati sarebbero “pezzi di realtà”, pur mantenendo un sano approccio empirista che le consente di non cadere nella fallacia soggettivista per cui i dati altro non sarebbero che costruzioni idiosincratiche dell’osservatore (Olivier de Sardan 2009, p. 32). Insomma, il taccuino su cui registrare impressioni e annotazioni è uno strumento fondamentale per trasformare in dati le osservazioni.
Eppure l’osservazione partecipante non si limita a produrre dati su carta (o su file), dato che una parte rilevante del sapere degli antropologi si sedimenta attraverso l’impregnazione, cioè il meccanismo di familiarizzazione implicita, non acquisita per via formale, della cultura locale. Leonardo Piasere (2009, p. 75) la chiama “conoscenza incorporata dell’esperienza etnografica” e per esemplificarla racconta un curioso episodio accaduto durante un convegno che univa esperti di zingari e antropologi esperti di altri campi di ricerca. Alla battuta di un collega “zingarologo” risero solo gli antropologi esperti di zingari, perché
gli antropologi ‘generalisti’, pur conoscendo l’etnografia scritta degli zingari, dimostrarono di non sapere quando si ride in un accampamento zingaro. Nessuno di noi antropologi degli zingari ha mai spiegato ‘di che cosa ridono gli zingari’ e forse nessuno ha mai focalizzato la sua attenzione su questo, eppure la nostra pratica condivisa ci portò in quell’occasione, quasi per un meccanismo di stimolo-risposta, a ridere perché ‘sapevamo’ che in quelle situazioni dagli zingari si ride. Avevamo incorporato una conoscenza che non era stata travasata nei nostri scritti (Piasere 2009, p. 75).
Il punto teorico rilevante di questa dimensione della ricerca sul campo è l’esigenza, da parte del ricercatore sul campo, di superare il logocentrismo per riconoscere che tra le sue fonti di conoscenza molte sono di tipo extralingustico. Così riassume questo punto Judith Okely:
Gli antropologi, immersi per prolungati periodi in un’altra cultura o nella propria in quanto osservatori partecipanti, imparano non solo attraverso l’orale o il trascritto, ma attraverso tutti i sensi, attraverso il movimento, attraverso i loro corpi e l’intero essere, in una pratica totale. Noi usiamo questa conoscenza per dare senso, letteralmente, al materiale annotato. Scrivere è ben più della ‘pura cerebralizzazione’ che qualcuno ha detto essere. Le note prese sul campo possono essere niente di più che un congegno che fa scattare memorie incorporate e quindi inconsce (Okely 1992, p. 76).

2.2 i colloqui

Costituiscono in effetti una parte rilevante dei “taccuini” gli appunti presi da conversazioni che il ricercatore produce intenzionalmente dato che molti aspetti della cultura studiata non sono “osservabili” né in senso letterale né figurato.
Consulenza e racconto sono i due estremi tra cui si collocano i colloqui condotti. L’intento del colloquio deve essere quello di avvicinarsi più possibile alle forme spontanee della conversazione secondo la cultura locale, e quindi il più lontano possibile dall’interrogatorio. La guida al colloquio tende a una lista di domande, mentre il canovaccio di colloquio seleziona una serie di temi che si vogliono sviluppare durante il colloquio.
La caratteristica fondamentale del colloquio antropologico è la sua natura ricorsiva, per cui una riposta può suscitare nuove domande o rendere pertinenti in modo nuovo vecchie domande. Naturalmente, la ricorsività di inscrive bene in un’altra caratteristica del colloquio antropologico, che è la dimensione diacronica. Lo stesso informatore può diventare soggetto di numerosi colloqui, per mettere a punto diversi aspetti dell’indagine in diversi momenti. Anche in questo senso il colloquio antropologico si differenzia dall’intervista giornalistica e dal questionario sociologico.

2.3 Le procedure di censimento

Proprio per la natura sfuggente del suo oggetto, spesso l’antropologo si aggancia a procedure di censimento, il cui intento è fornire un corpus di dati quanto più “completo” possibile. Una tipica procedura di censimento degli antropologi è la ricostruzione degli alberi genealogici o le strutture matrimoniali. I censimenti sono dati -etic contrapposti ai dai derivati dagli enunciati degli indigeni, che sono invece dati -emic.

2.4 fonti scritte

Sono almeno di tre tipi per gli antropologi
1. fonti propedeutiche alla ricerca sul campo. Sono paragonabili alle fonti secondarie degli storici,ovviamente.
2. fonti integrate nel campo, come diari, lettere, quaderni e pubblicistica locale. A queste si devono aggiungere le fonti audiovisive locali.
3. corpus autonomi come stampa e archivi esistenti, nonché tutto il materiale audiovisivo disponibile online.
Queste forme di produzione del dato antropologico vanno sottoposte a quella che Olivier de Sardan chiama “politica del campo”, basata su alcuni punti fermi.
Triangolazione semplice (che ricostruisce la realtà degli eventi indagati) e quella complessa, che consente invece l’individuazione dei gruppi strategici rispetto al tema indagato.
Iterazione nel senso concreto di produzione non lineare di informazioni (tizio mi manda caio che mi manda da sempronio che mi rimanda da tizio) e nel senso teoretico di costante modifica dei temi dell’indagine in base ai dati raccolti. L’esempio di un sondaggio in una via (dal numero 1 al numero 100) e della rete dei contatti (tizio è amico mio, poi vai da caio, che ti manderà da sempronio) dell’etnografo che tende a riprodurre la realtà sociale.
Esplicitazione interpretativa nel diario di campo come spazio del dialogo anche teorico (memoing vs data collection vs coding)
Saturazione per stabilire quando la ricerca “finisce”.
Il gruppo sociale testimone.
Gli informatori privilegiati.
Individuazione dei fattori di disturbo: l’incliccaggio, il monopolio delle fonti, la rappresentatività del gruppo testimone, e la soggettività del ricercatore
Testi citati
Amit-Talai, Vered, 1999, “Introduction. Constructing the Field”, in Amit-Talai, Vered, a cura di, Constructing Field: Ethnographic Fieldwork in Contemporary World, Florence, KY, Routledge.
Dei, Fabio, 2005, "Introduzione. Poetiche e politiche del ricordo", in P. Clemente e F. Dei, a cura di, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifascisce in Toscana, Roma, Carocci.
Okely, Judith, 1992, “Anthropology and Autobiography: Participatory Experience and Embodied Knowledge”, in J. Okely, H. Callaway (a cura di), Anthropology and Autobiography, ASA Monographs 29, London and New York, Routledge, pp. l-28.
Olivier de Sardan, Jean-Pierre, 2009, “La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 27-63.
Piasere, Leonardo, 2009, “L’etnografia come esperienza”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 65-95.
Wieviorka, Annette, 1999, L'era del testimone, trad. it. Milano, Raffaello Cortina editore.

Q1. Dopo aver letto attentamente il testo di Oliver de Sardan, simulate di essere un anziano antropologo/una anziana antropologa che racconta a un gruppo di giovani studenti come ha condotto la sua prima ricerca sul campo. Metodo, tecniche e problemi incontrati.