Ringrazio Teatina e Gopk per i loro commenti al post precedente. Resto sempre un po’ perplesso a interloquire con anonimi, dato che vengo da una cultura della responsabilità per cui chi parla si presenta con il suo nome e cognome, ma capisco che per altri l’anonimato non ha le connotazioni negative che ha per me, ed è solo un modo per sentirsi più a proprio agio nell’esprimere le proprie idee. Mi lascia comunque da pensare quanto dev’essere percepita tesa (e lontana dal mio egocentrismo illuminista) una vita che non ha voglia di esporsi in prima persona.
Quanto al merito, ammetto che propendo nettamente per la posizione di Gopk. Non tanto per i rispettivi contenuti, di Teatina e Gopk, ma quasi esclusivamente per una questione di stile, che come si sa in politica coincide con il contenuto (risentirsi il pezzo di lezione su “politica come negoziazione per il significato”). Come insegnante, trovo arricchente la possibilità di comunicare con gli studenti (miei?) anche andando fuori tema. L’antropologia culturale è una disciplina onnivora che tende a soffrire vagamente di un delirio di onnipotenza, quindi non ci sono temi su cui non crede di avere qualcosa da dire. Non ho ancora capito se questo sia un bene o un male, ma è così, certamente.
Mi pare che le due posizioni incarnino bene il dilemma antropologico: fino a che punto sono tenuto a capire l’altro, dove finisce legittimamente il mio sforzo? Certo Teatina, se cita Oriana Fallaci come sua autrice preferita (e se espone un tetro Mussolini nella testata del suo blog, responsabile delle leggi razziali del 1938) esibisce una potente passione nazionale che io sento come pericolosa a livello individuale, dato che nasconde dietro la forza (la rabbia l’orgoglio, quelle cose lì, tutte dure e tutte d’un pezzo) la complicatezza dei rapporti tra gli individui. Mi pare insomma un modo per rificcarci ognuno dentro i “nostri” treni, costruendoli quando non esistono più da un pezzo (se mai sono esistiti). Come ho detto a lezione, se non sappiamo dove sta l’altro non riusciamo a triangolare la nostra posizione, ma per sapere dove veramente sta l’altro forse il cannone non è uno strumento particolarmente raffinato. Io all’Eurabia non credo. Perché non vedo l’Europa (mi dite come faccio a non tenere distinti Alex Langer e Umberto Bossi, Giuliano Ferrara e Adriano Sofri, solo per rimanere dalle parti mie?) e non vedo l’Arabia come entità culturale e politica compatta sotto la bandiera dell’Islam. Certo, il fondamentalismo islamico mi terrorizza (raggiunge il suo scopo, per così dire) ma anche quello indù (avete presente cos’hanno fatto nel 1992 in India?) e quello cristiano (ancor più nelle varianti proposte dagli atei devoti come Giuliano Ferrara) e quindi la mia battaglia è perché rimanga aperto uno spazio di comunicazione. Certo, non posso comunicare con uno imbottito di tritolo che si fa saltare in mezzo a un mercato, meglio un cecchino o un check point per avere a che fare con personaggi simili, ma per quanto possibile credo che l’unica cosa sensata da fare, oggi, è provare a comunicare con l’altro. Non solo nella speranza di capire come la pensa, ma anche con la speranza di fargli capire come la penso io. Ho abbastanza fiducia nelle mie idee e sono ancora abbastanza imbevuto di razionalismo illuminista da credere che, se potessi parlarci con un po’ di calma, riuscirei a distogliere più di un fanatico (di qualunque religione o credo politico) dai suoi propositi. Come sono convinto che tirandogli solo bombe la mia capacità persuasiva verrebbe duramente incrinata… Non punto al buonismo a tutti i costi. Penso ai miei figli e al mio compito di lasciar loro in eredità un mondo migliore di quello che ho ricevuto, un mondo in cui sia possibile andare in giro senza terrore.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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martedì 19 febbraio 2008
giovedì 7 febbraio 2008
Il metodo Wiesel
Io sto con Israele. Questo l’ho detto chiaramente in diverse occasioni e ho argomentato la mia scelta: Israele è l’unico stato al mondo di cui attualmente si discute in termini di “legittimità” e “diritto all’esistenza”, e l’unico argomento sollevato a sostegno del dubbio sul fatto che Israele abbia tutti i crismi per continuare ad esistere è quello che si tratterebbe di uno stato artificiale, creato dalla volontà politica e non da un’effettiva corrispondenza tra popolazione e territorio. Ora, questo argomento è insostenibile in quanto tutti gli stati condividono questa medesima natura artificiale. Non esistono stati naturali, in cui il legame tra popolazione e territorio preceda il dibattito politico e la scelta politica, quindi quel che vale per Israele deve valere per qualunque altro stato. Eppure no, la discussione sulla sua legittimità vale solo per Israele. L’effetto paradossale di questo approccio è che naturalizza tutti gli altri stati: se credo veramente che solo Israele sia “artificiale” sto dicendo che gli altri Stati sono naturali: l’antisionismo come nazionalismo degli stupidi, verrebbe da dire.
Ma qualche ignorante dei fatti storici a questo punto ribatte che la critica a Israele muove dal fatto che la nascita di Israele avrebbe soffocato le legittime aspirazioni del popolo palestinese ad avere un suo stato. Si tratta di un’affermazione semplicemente falsa. La risoluzione dell’ONU n. 181 del 29 novembre 1947 prevedeva la nascita contemporanea di uno stato di Israele e di uno stato di Palestina, lasciando Gerusalemme (e Betlemme) città internazionali. Sono stati i paesi arabi (in primis Egitto, Giordania e Siria) a non accettare questa risoluzione e a scatenare la guerra del 1948.
Non sto dicendo che sono d’accordo con la politica israeliana dal 1948 in poi. In molti casi il mio dissenso è stato totale: i territori occupati con la guerra del 67 andavano restituiti in toto appena cessate le ostilità militari. Non si doveva procedere all’insediamento in quelle zone dei coloni. Tutti i confini dovevano tornare quelli dell’originaria risoluzione ONU. La politica di molti governi israeliani verso i cittadini arabi dei territori occupati è stata vergognosamente discriminatoria. Molti politici e militari israeliani si sono macchiati di vero razzismo e alcuni avrebbero dovuto essere processati per crimini contro l’umanità.
Se è per questo, sono in totale disaccordo anche con i giudizi e le prassi di moltissimi politici italiani. Ma non per questo metto in dubbio la legittimità dello stato italiano ad esistere (idem per Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna; per quel che mi riguarda: penso che le nazioni e i loro diritti sullo scacchiere internazionale vadano separati dagli stati e dalle loro pratiche politiche).
Quindi, ribadisco, io sto con Israele. La sua esistenza non ha argomenti per essere messa in discussione. Sono altresì convinto che si debba tornare alla risoluzione del 47 e creare uno stato palestinese pienamente sovrano. Non credo però che la soluzione sia “due popoli, due stati”: avendo lavorato nei Balcani e in Irlanda credo di poter dire con una certa sicurezza che il peggio delle violenze si concretizza proprio quando gli stati si convincono della fattibilità di realizzare stati etnicamente “puri”. Come Israele non è uno stato confessionale e ha centinaia di migliaia di cittadini arabi di religione musulmana, così spero che la Palestina indipendente sia uno stato in cui non è obbligatorio essere riconosciuti come arabi o come musulmani per avere diritto di cittadinanza.
Premesso questo, credo che la proposta di boicottare il prossimo Salone di Libro di Torino, colpevole di aver assegnato a Israele il ruolo di ospite d’onore, vada presa per quel che è: una proposta politica cui va data una risposta politica. Boicottare una manifestazione culturale, infatti, non significa impedire a chicchessia di parlare (questo si chiama fascismo), ma piuttosto sottrarre la propria presenza al confronto. Se alcuni gruppuscoli internazional-piemontesi hanno deciso di boicottare il Salone del Libro, mi pare una loro scelta legittima, fino a quando il verbo indica che loro non saranno presenti, non certo che intendono impedire agli scrittori israeliani di parlare al Lingotto. A questo boicottaggio non mi sembra utile rispondere (come fa Magdi Allam sul CdS del 4 febbraio) con un ulteriore boicottaggio, questa volta di quanti negano per Israele il diritto di esistere. Sarebbe più sensato andare a vedere le carte in mano dell’avversario, e chiamare a una pubblica partecipazione al Lingotto: venite al Salone del Libro, partecipate ai dibattiti, riconoscete legittimità agli interlocutori israeliani. Alla fine della Fiera, si potrebbero trarre le somme e stabilire quale iniziativa ha avuto più successo.
Si tratta cioè di applicare un po’ di rigore logico e di distinguere il diritto all’espressione (sempre garantito a tutti, in qualunque caso) dal mio obbligo di espormi a quell’espressione come uditorio. Lo chiamo “metodo Wiesel” perché questa è la strategia, come ho già raccontato, adottata dal premio Nobel con i negazionisti: invece di impedire loro di parlare, Wiesel si rifiuta di concedersi come interlocutore, ben sapendo che una delle qualità necessarie di ogni identità è la categorizzazione esterna (cioè il riconoscimento da parte degli altri, l’altra essendo l’autoidentificazione esterna, cioè l’affermazione ad alta voce della propria identità). Allora, di fronte a una posizione che considera inaccettabile, il “metodo Wiesel” non impedisce la presa pubblica di quella posizione, ma cerca di sottrarle spazio di legittimità escludendosi come interlocutore (non parlatemi di Aventino, per favore: i rapporti di forza sono tutt’altro che scontati, quando il boicottaggio riguarda il sistema dei media, non certo la rappresentanza parlamentare e l’esercizio del voto).
Pensate a come si sarebbe potuta svolgere tutta la querelle “papa alla Sapienza” se invece di sbracare di fronte a venti lanugginosi fuoricorso che avevano “occupato” il Rettorato conquistandosi il diritto a “manifestare” (attivando così il riflesso del martire in Vaticano) il Rettore avesse tenuto duro su questo punto: il papa viene, e parla. E chi non lo vuole fa un gesto clamoroso: quando inizia a parlare si alza e se ne va dall’aula magna, per tornare solo a fine discorso, quando avrebbero dovuto parlare altri soggetti, considerati dai protestatari più legittimati ad esprimersi in quella sede. E niente altoparlanti, megafoni, urla e schiamazzi. Niente nel senso che come Rettore non permetto che si soffochi una voce urlandole sopra.
Il metodo Wiesel consente a ognuno (ripeto, ognuno: per quel che mi riguarda anche i peggiori razzisti, nazisti, fanatici e intolleranti hanno diritto di parola, per dire le peggiori schifezze, se ne sentono l’urgenza) di esprimersi, ma consente a ognuno di non sentirsi obbligato con la propria presenza di uditore a prestare legittimità a quel dire. Un po’ di sano libero mercato delle idee: metti in piazza quel che vuoi, ma se non hai un numero sufficiente di acquirenti la tua voce rimarrà sempre flebile.
A me non fa paura un gruppetto di venti fessacchiotti piemontesi che sbraitano contro la legittimità di Israele ad esistere. Mi spaventa molto di più che la cassa di risonanza dei mass media consenta loro di produrre effetti politici infinitamente maggiori al loro peso reale. Ben venga quindi il boicottaggio, ma questo non dovrebbe mettere a rischio la presenza di Israele a Torino, semmai compattare il senso civico e la voglia di partecipare di quanti credono che lo stato di Israele abbia il diritto di esistere, e i suoi migliori intellettuali e cittadini (Oz, Grossman, Yehoshua, scrittori che da sempre si battono contro le ingiustizie della politica israeliana e per la nascita di uno stato palestinese) tutto il diritto di esprimere le loro idee. Senza che nessuno si arroghi la petulante spocchia di mettere in discussione il loro passaporto.