Nel pezzo su Pandora (here you can read an English summary) raccontavo che alcune recensioni hanno criticato Avatar per il suo paternalismo: i Na'vi non sarebbero in grado di salvarsi da soli, senza l'ennesimo aiuto da parte dell'Uomo Bianco. Peccato, dicevo, che quel tipo di critiche non tenga conto dei dislivelli di potere esistenti, per cui può effettivamente capitare che uno abbia bisogno dell'aiuto di un altro, senza che questo sia automaticamente una forma di sottomissione, ma piuttosto la realistica considerazione del sistema di potere in atto.
Qui potete vedere come vanno le cose nella realtà. Il gruppo indiano dei Dongria Kondh, minacciato da una multinazionale della lavorazione della bauxite (proprietario di maggioranza è il miliardario indiano Anil Agarwal), ha chiesto aiuto a James Cameron per vincere la battaglia contro l'apertura di una miniera a cielo aperto che sventrerebbe Nyamgiri, la loro montagna sacra.
Ora, qui non siamo di fronte alle fantasticherie razzistoidi di un regista bianco, ma di fronte alla richiesta di una popolazione indigena indiana che cerca di salvaguardare l'ecosistema da cui dipende la propria sopravvivenza fisica e culturale, e per farlo si rivolge proprio a quel regista accusato (da eminenti critici bianchi) di essere un cripto-razzista: diciamo che ce n'è per far venire il mal di testa a molti cultori della correttezza politica e dell'impegno postcoloniale...
Per me, che mi occupo di antropologia dei media e cerco di non dimenticare mai come la tecnologia non abbia necessariamente una predilezione per i bianchi occidentali ma si lasci volentieri usare nelle più disparate parti del mondo, è duplicemente importante che i Dongria Kondh da un lato si siano appellati a un guru di Hollywood perché sentono che il suo film "parla di loro", e dall'altro siano soggetti di un documentario (filmato da quelli di Survivor) in cui la consapevolezza del ruolo della comunicazione visiva è fortissima. Durante il filmato si vedono spesso i protagonisti indigeni dare indicazioni ("ecco, filma questo, filma tutto") oppure esprimere una forte "coscienza mediatica" ("abbiamo bisogno di filmati come questo!"). E chiudono il loro appello a Cameron con una frase che non potrebbe essere più chiara, e più sintomatica del potenziale democratico della comunicazione visiva:
Noi abbiamo visto il suo film – ora lei guardi il nostro:
http://www.survival.it/film/mine
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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giovedì 18 febbraio 2010
venerdì 5 febbraio 2010
Fieldwork a Pandora
Ho scritto un articolo sul consumo di Avatar, cercando di mostrare come l'antropologia dei media abbia qualcosa di interessante da dire sul tema del consumo globale dei prodotti dell'industria dell'intrattenimento. Ne è uscito un saggio credo godibile come lettura, ma non privo di qualche velleità teorica. Non lo posto qui direttamente perché sono 17 pagine, mi sembrerebbe veramente chiedere troppo. Chi vuole se lo può scaricare dai miei google docs. Se mi fate sapere che ve ne pare vi sarei grato.
Rapporto immigrazione a Roma
SCHEDA ORM.pdf (Oggetto application/pdf)
La Caritas Diocesana di Roma ha presentato il sesto rapporto dell'Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Il primo paragrafo della sintesi si titola "Roma una città globale", particolarmente interessante per il mio corso di Urban & Global Rome al Trinity College - Rome Campus.
La Caritas Diocesana di Roma ha presentato il sesto rapporto dell'Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Il primo paragrafo della sintesi si titola "Roma una città globale", particolarmente interessante per il mio corso di Urban & Global Rome al Trinity College - Rome Campus.
Pietralaltra
La vita grama di chi vive a Pietralata e la passione di un gruppuscolo di simpatici picchiatelli che spera ancora che l’impegno sociale sia un mezzo e un obiettivo della politica vera sono raccontate in questo blog collettivo di ControinformAzione a cui partecipo. Leggete e partecipate, dite la vostra, fatevi sentire da altre periferie, non solo romane.
Quando non serve la pompa magna
Lei è JK Rowling, l'autrice di Harry Potter, e questo è il discorso che ha tenuto per le lauree di Harvard, il 5 giugno 2008.
E' un discorso ispirato, dove racconta che il fallimento può portare dei benefici, e dove racconta il ruolo dell'immaginazione nella sua vita (prima di scrivere i romanzi che l'hanno resa famosa).
Ma a me fanno impressione due cose:
1. C'è un'arte anglosassone del discorso che abbiamo completamente perduto (se mai l'abbiamo avuta). Prima di arrivare alla parte intensa e commovente, il pubblico viene catturato e introdotto al tema con una serie fulminante di battute, e il riso segna anche la fine dell'orazione. Insomma, non si improvvisa un discorso del genere, lo si medita a tavolino, lo si scrive, ci si lavora. E' un'arte bellissima ma presuppone la passione per l'artigianato: forse è troppo per le menti italiche.
2. Non posso non comparare la cura per la dimensione rituale dell'accademia americana (e anglosassone in generale) con la sciatteria dei nostri atenei, con cerimonie di inizio anno stantie, presentazioni senza alcuna preparazione, prolusioni il più delle volte di una pesantezza insostenibile. L'Università dovrebbe essere anche un luogo dove si forma e consolida un senso di appartenenza, dove si creano legami non solo per caso, ma perché l'istituzione ci tiene a tessere una sua rete sociale. In Italia ho visto tante università, ma non le ho mai viste lavorare in questa direzione, nel produrre comunità e struttura sociale tra quanti le vivono. Peccato.
E' un discorso ispirato, dove racconta che il fallimento può portare dei benefici, e dove racconta il ruolo dell'immaginazione nella sua vita (prima di scrivere i romanzi che l'hanno resa famosa).
Ma a me fanno impressione due cose:
1. C'è un'arte anglosassone del discorso che abbiamo completamente perduto (se mai l'abbiamo avuta). Prima di arrivare alla parte intensa e commovente, il pubblico viene catturato e introdotto al tema con una serie fulminante di battute, e il riso segna anche la fine dell'orazione. Insomma, non si improvvisa un discorso del genere, lo si medita a tavolino, lo si scrive, ci si lavora. E' un'arte bellissima ma presuppone la passione per l'artigianato: forse è troppo per le menti italiche.
2. Non posso non comparare la cura per la dimensione rituale dell'accademia americana (e anglosassone in generale) con la sciatteria dei nostri atenei, con cerimonie di inizio anno stantie, presentazioni senza alcuna preparazione, prolusioni il più delle volte di una pesantezza insostenibile. L'Università dovrebbe essere anche un luogo dove si forma e consolida un senso di appartenenza, dove si creano legami non solo per caso, ma perché l'istituzione ci tiene a tessere una sua rete sociale. In Italia ho visto tante università, ma non le ho mai viste lavorare in questa direzione, nel produrre comunità e struttura sociale tra quanti le vivono. Peccato.