Visto il recente tracollo economico, la Grecia si appresta a diventare nuovamente terra di vacanze a costi contenuti, anche per noi italiani. Cosa quindi di meglio che un corso dove imparare a fingersi un poco greci? Domani domenica 15 maggio, alle ore 15.30 (puntaulissimi) condurrò un laboratorio nell'ambito del ROMA SKILL SHARE, un bellissimo progretto dove chi sa fare qualcosa mette a disposizione degli altri il suo sapere per condividerlo. Oggi Amanda ha imparato a fare le olive ascolane e anche a fare una tartaruga di creta! Io ho preso parte (solo all'inizio poi sono dovuto scappare) al laboratorio su come camminare a Roma (guidato da Lorenzo Romito e Giulia Fiocca, di Primavera Romana e Beppe Taviani, di Insieme per l'Aniene).
Insomma, domani venite e imparate a cucinare le polpette greche (con melanzane), a fare lo tzatziki (salsa di yogurt e cetriolo con aglio) e a bere tsipouro come si deve! Mentre imparate queste arti culinarie vi insegnerò anche alcuni elementi base di greco moderno, in modo che possiate spacciarvi per connazionali dei vostri ospiti ed essere trattati con tutti i riguardi! Alla fine del laboratorio, spero, amerete anche voi la Grecia quanto la amo io, oppure la detesterete un po' di meno!
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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sabato 14 maggio 2011
giovedì 12 maggio 2011
Corpo icona ombra
Ieri Valeria (34 anni) ha fatto una video-chiamata tramite skype a un’amica che ora vive a Milano. Ha assistito (e partecipato) alla telefonata anche Amanda (33 mesi) che ha una profonda simpatia per quest’amica di mamma. Sono entrato nello stanza-studio dove si stava svolgendo la scena per annunciare che la cena era pronta e quando Amanda mi ha visto ha puntato il suo ditino verso lo schermo, per farmi vedere il riquadro (contenuto nel riquadro maggiore dove si vedeva l’amica a Milano) da cui spuntavano l’immagine sua e della madre. Mi devo essere avvicinato abbastanza da entrare nel campo della telecamera, tant’è che Amanda mi ha visto sul monitor e ha detto: “Ih, guarda, c’è anche l’ombra di papà. C’è l’ombra di Amanda e anche di papà!”
Amanda assimila la sua ombra all’immagine di sé in diretta. Mentre le foto o le diverse riprese in cui si vede all’opera sono riconosciute come proiezione “totale” di sé (Mi fai vedere la foto? Mi fai vedere il film? Amanda gioca, Amanda balla), la proiezione in simultanea sul monitor è percepita come un’ombra. Cos’è un’ombra? Dal punto di vista di Amanda, mi pare di poter dire, un’ombra è un doppio indebolito del sé nel momento in cui esiste. L’immagine può essere registrata e archiviata, e quindi riprodotta nella sua interezza, mentre l’ombra è una specie di versione fiacca di noi stessi, una versione disossata, mi verrebbe da dire.
C’è il fondamento di un pensiero mito-logico, in questo piccolo aneddoto: abbiamo tutti un corpo ulteriore, un corpo vagamente più sbiadito, che vediamo nelle ombre. Questo corpo-doppio accompagna tutte le cose, non solo gli esseri umani, ed è diverso dalla rappresentazione, dall’icona degli oggetti, perché l’icona normalmente è scollegata dall’oggetto, può essere da lui allontanata, permane anche quando l’oggetto non c’è più, vive una sua vita autonoma, mentre l’ombra-doppio di cui sto parlando, che ci accompagna da ancor prima che fossimo in grado di produrre icone, dipende direttamente dal nostro corpo e dalla materia degli oggetti di cui è ombra. Oltre che nell’ombra, vediamo questo doppio anche quando non mettiamo bene a fuoco una cosa, come quando fissiamo un oggetto ma stiamo per addormentarci e allora sfugge al controllo della nostra messa a fuoco. A quel punto, non vediamo più l’oggetto “reale” ma il suo doppio sbiadito. Non si tratta di alcunché di magico o di esoterico, vedere ombre e vedere questi oggetti sfocati nel dormiveglia è un’esperienza comune che abbiamo iniziato a fare molto piccoli. A due anni i bambini hanno una completa e quasi banale esperienza di questo modo di vedere la realtà, distinguendo “le cose” non solo dalle loro “icone”, ma anche dalle loro “ombre”. L’ombra è sfuggente ma anche certa, non è una fantasticheria ma ha la curiosa qualità di essere una realtà empirica priva di corporeità, pur se dipendente dalla fisicità dei corpi da cui promana. Non si tocca, pur essendo percepita dai nostri sensi senza ambiguità, l’ombra non ha corpo, cioè non subisce il decadimento della materia.
La mia ipotesi è che questa entità di cui sto scrivendo e di cui così poco spesso ragioniamo, anche se nella nostra infanzia l’abbiamo sperimentata con la stessa vividezza con cui possiamo sperimentare la luce solare o il freddo della neve, sia tornata a farsi strada prepotentemente nei nostri immaginari pubblici. Centinaia di milioni di utenti di Facebook che “si vedono” online mi pare facciano la stessa associazione mito-logica che ha fatto Amanda vedendo la sua “ombra” nel monitor. Quel che vediamo non è ovviamente il nostro corpo reale, ma non è neppure una “semplice” icona autonomizzabile. Su Fb proiettiamo veramente la nostra ombra: quella parte di noi che dipende da noi qui e ora, che non potrebbe esistere scollegata da noi. Non abbiamo mai saputo bene dove collocare quell’ombra nella nostra vita, quel suo essere parte di noi ma anche priva di noi, quel suo essere noi senza che noi ci siamo. L’assenza di materialità della nostra ombra è sempre stata il suo fascino e la sua condanna: ci ha illuso che potessimo esistere oltre il nostro corpo, che ci sia un “io” che non ha bisogno della fisicità, ma la sua natura eterea ce l’ha anche resa ingestibile. Possiamo giocare con le ombre facendo finta che siano altro, ma non possiamo giocarle in quanto tali. Solo Peter Pan può vedere la sua ombra che si stacca, e può vedere Gwendy che gliela ricuce. Per tutta la vita ci siamo portati dietro quest’anima pendula e appiccicosa senza saperci bene cosa fare. Ora Fb ci ha liberati, possiamo giocare la nostra ombra in modi mai pensati prima. Rimane attaccata a noi, senza di noi non è nulla, senza di noi non c’è, ma il nostro profilo (silouette!) su Fb rende giustizia alla nostre aspirazioni infantili più profonde: vivere senza corpo, ma vivere “sul serio”.
Amanda assimila la sua ombra all’immagine di sé in diretta. Mentre le foto o le diverse riprese in cui si vede all’opera sono riconosciute come proiezione “totale” di sé (Mi fai vedere la foto? Mi fai vedere il film? Amanda gioca, Amanda balla), la proiezione in simultanea sul monitor è percepita come un’ombra. Cos’è un’ombra? Dal punto di vista di Amanda, mi pare di poter dire, un’ombra è un doppio indebolito del sé nel momento in cui esiste. L’immagine può essere registrata e archiviata, e quindi riprodotta nella sua interezza, mentre l’ombra è una specie di versione fiacca di noi stessi, una versione disossata, mi verrebbe da dire.
C’è il fondamento di un pensiero mito-logico, in questo piccolo aneddoto: abbiamo tutti un corpo ulteriore, un corpo vagamente più sbiadito, che vediamo nelle ombre. Questo corpo-doppio accompagna tutte le cose, non solo gli esseri umani, ed è diverso dalla rappresentazione, dall’icona degli oggetti, perché l’icona normalmente è scollegata dall’oggetto, può essere da lui allontanata, permane anche quando l’oggetto non c’è più, vive una sua vita autonoma, mentre l’ombra-doppio di cui sto parlando, che ci accompagna da ancor prima che fossimo in grado di produrre icone, dipende direttamente dal nostro corpo e dalla materia degli oggetti di cui è ombra. Oltre che nell’ombra, vediamo questo doppio anche quando non mettiamo bene a fuoco una cosa, come quando fissiamo un oggetto ma stiamo per addormentarci e allora sfugge al controllo della nostra messa a fuoco. A quel punto, non vediamo più l’oggetto “reale” ma il suo doppio sbiadito. Non si tratta di alcunché di magico o di esoterico, vedere ombre e vedere questi oggetti sfocati nel dormiveglia è un’esperienza comune che abbiamo iniziato a fare molto piccoli. A due anni i bambini hanno una completa e quasi banale esperienza di questo modo di vedere la realtà, distinguendo “le cose” non solo dalle loro “icone”, ma anche dalle loro “ombre”. L’ombra è sfuggente ma anche certa, non è una fantasticheria ma ha la curiosa qualità di essere una realtà empirica priva di corporeità, pur se dipendente dalla fisicità dei corpi da cui promana. Non si tocca, pur essendo percepita dai nostri sensi senza ambiguità, l’ombra non ha corpo, cioè non subisce il decadimento della materia.
La mia ipotesi è che questa entità di cui sto scrivendo e di cui così poco spesso ragioniamo, anche se nella nostra infanzia l’abbiamo sperimentata con la stessa vividezza con cui possiamo sperimentare la luce solare o il freddo della neve, sia tornata a farsi strada prepotentemente nei nostri immaginari pubblici. Centinaia di milioni di utenti di Facebook che “si vedono” online mi pare facciano la stessa associazione mito-logica che ha fatto Amanda vedendo la sua “ombra” nel monitor. Quel che vediamo non è ovviamente il nostro corpo reale, ma non è neppure una “semplice” icona autonomizzabile. Su Fb proiettiamo veramente la nostra ombra: quella parte di noi che dipende da noi qui e ora, che non potrebbe esistere scollegata da noi. Non abbiamo mai saputo bene dove collocare quell’ombra nella nostra vita, quel suo essere parte di noi ma anche priva di noi, quel suo essere noi senza che noi ci siamo. L’assenza di materialità della nostra ombra è sempre stata il suo fascino e la sua condanna: ci ha illuso che potessimo esistere oltre il nostro corpo, che ci sia un “io” che non ha bisogno della fisicità, ma la sua natura eterea ce l’ha anche resa ingestibile. Possiamo giocare con le ombre facendo finta che siano altro, ma non possiamo giocarle in quanto tali. Solo Peter Pan può vedere la sua ombra che si stacca, e può vedere Gwendy che gliela ricuce. Per tutta la vita ci siamo portati dietro quest’anima pendula e appiccicosa senza saperci bene cosa fare. Ora Fb ci ha liberati, possiamo giocare la nostra ombra in modi mai pensati prima. Rimane attaccata a noi, senza di noi non è nulla, senza di noi non c’è, ma il nostro profilo (silouette!) su Fb rende giustizia alla nostre aspirazioni infantili più profonde: vivere senza corpo, ma vivere “sul serio”.
Onore, vergogna e nuovi media
Domani sono ai colloqui di Sensibilia a raccontare di come gli antropologi hanno parlato dell'onore e della vergogna e delle conseguenze del mondo della comunicazione elettronica nella produzione di un sistema "svergognato" di relazioni sociali.
Si passa dai beduini Awlad Ali ai troll della Rete, dai Kabyle d'Algeria a Facebook.
Dalle 10.30 a Villa Mondragone, via Frascati 51, Monte Porzio Catone (RM)
Si passa dai beduini Awlad Ali ai troll della Rete, dai Kabyle d'Algeria a Facebook.
Dalle 10.30 a Villa Mondragone, via Frascati 51, Monte Porzio Catone (RM)
martedì 3 maggio 2011
Il pudore coatto di Facebook
Peppino Ortoleva, introducendo le sue illuminanti riflessioni su come la “società dell’informazione” abbia prodotto un modello culturale “svergognato”, in cui la parola d’onore non ha più senso e il pudore dell’atto sessuale e del corpo in generale non ha più luogo, individua una fulminante sintesi morale del senso della pornografia:
E’ in questa chiave, d’altra parte, che possiamo comprendere anche l’aspetto più rassicurante per il singolo utente [...] del consumo di pornografia: l’esperienza in cui la più disincarnata delle merci, l’informazione, prende il posto di uno dei più intimamente rischiosi tra gli atti personali, il rapporto erotico (Il secolo dei media, il Saggiatore, Milano, 2009, p. 134, enfasi aggiunta da me).
La metafora dell’amicizia dentro Fb andrebbe presa per quel che è: la relazione fisica che intercorre comunque tra due amici e in generale tra due persone che interagiscono (al di là, cioè molto prima, del “rapporto erotico”), che nel social network viene ricondotta a più miti consigli, ammansita dentro l’informazione che ognuno di noi decide (o pensa di decidere) di rendere disponibile.
In termini rigorosamente cibernetici (vale a dire di informazioni quantificabili) il corpo è una macchina del tutto fuori controllo, che letteralmente “perde” informazioni da tutte le parti. La pelle, gli occhi, i muscoli facciali, la postura, il tono di voce, l’odore che emaniamo: tutto questo ci disvela continuamente. Il corpo è quel coglione che non sa tenere un segreto molto prima di essere nudo in un letto. Il corpo la dice lunga anche quando noi vorremmo farla breve.
- Ciao come stai? (Madonna che colorito, deve avere minimo un cancro)
- Che hai fatto lì sopra? (Dio che puzza)
- Niente, una botta (Dio che buon odore che ha)
- Guarda come ti stanno bene i capelli (Guarda come perde i capelli)
- Ti trovo in forma (non mi ero mai reso conto che avesse caviglie così sottili)
- Ti vedo un po’ giù (quando si gira sul profilo sinistro si vede un ciuffo di peli che gli escono dalla narice, che orrore)
- Aspetta che raccolgo la penna (si accorgerà che sono ingrassato?)
- Prego passi pure (guarda che culo)
- Ce l’ha biglietti dell’ATAC? (guarda che orecchie strane/che occhi belli/ che mani sgraziate/ che X connotato in modo Y)
Ognuno di noi può continuare per ore a simulare battute come queste, che danno forma a qualunque conversazione, e che ci costringono ad ammettere che non siamo veramente padroni di quel che comunichiamo se non in parte.
Facebook, allora, prende su di sé l’incarico di ridarci un onore, per quanto posticcio; di farci provare un po’ di pudore illudendoci che quell’assenza corporale stia per un suo controllo da parte nostra. Siamo incapaci, cioè dentro di noi il nostro corpo non si capacita, non ci sta, travalica per forza, deborda, spruzza e schizza ben prima del piacere sessuale e allora, intimoriti dalla mancanza di controllo, tremebondi per quella spudoratezza dei nostri corpi (che tutto il resto del sistema delle merci ci dice invece di esporre, di rendere appetibili e sessualmente aggressivi) invece di provare a farci i conti in maniera umana (ok, sono qui, non sono Clooney e la tartaruga l’ho lasciata allo zoo, ma esisto e ho questo e questo da dire e da fare) preferiamo rimuovere il problema alla radice, creando una nuova forma di comunicazione che sembra fisica quanto più elimina il corpo vero dalla scena effettiva.
Certo, lo so bene che oltre a Facebook c’è la vita offline, e che anche volendo non possiamo rinunciare a “fratello asino” (come Francesco d’Assisi chiamava il corpo) ma trovo triste e preoccupante che un numero sempre maggiore delle nostre relazioni possa passare per uno strumento che intenzionalmente soffoca la voce e riduce il resto del corpo a un’effigie innocua, a una foto postata, magari dopo un ritocchino con Fotoshop.
PS Posto queste righe sul mio blog. Se le leggete attraverso Facebook, fate finta che ve le abbia lette di fronte a voi, uno per uno.
Facebook, allora, prende su di sé l’incarico di ridarci un onore, per quanto posticcio; di farci provare un po’ di pudore illudendoci che quell’assenza corporale stia per un suo controllo da parte nostra. Siamo incapaci, cioè dentro di noi il nostro corpo non si capacita, non ci sta, travalica per forza, deborda, spruzza e schizza ben prima del piacere sessuale e allora, intimoriti dalla mancanza di controllo, tremebondi per quella spudoratezza dei nostri corpi (che tutto il resto del sistema delle merci ci dice invece di esporre, di rendere appetibili e sessualmente aggressivi) invece di provare a farci i conti in maniera umana (ok, sono qui, non sono Clooney e la tartaruga l’ho lasciata allo zoo, ma esisto e ho questo e questo da dire e da fare) preferiamo rimuovere il problema alla radice, creando una nuova forma di comunicazione che sembra fisica quanto più elimina il corpo vero dalla scena effettiva.
Certo, lo so bene che oltre a Facebook c’è la vita offline, e che anche volendo non possiamo rinunciare a “fratello asino” (come Francesco d’Assisi chiamava il corpo) ma trovo triste e preoccupante che un numero sempre maggiore delle nostre relazioni possa passare per uno strumento che intenzionalmente soffoca la voce e riduce il resto del corpo a un’effigie innocua, a una foto postata, magari dopo un ritocchino con Fotoshop.
PS Posto queste righe sul mio blog. Se le leggete attraverso Facebook, fate finta che ve le abbia lette di fronte a voi, uno per uno.