La mia introduzione allo spettacolo "Gente de barrio", che si tiene a Rebibbia lunedì 25 settembre 2017.
Raccontare quel che succede
dietro le mura di un carcere è sempre difficile. Da fuori le aspettative sono
sempre poche, e in effetti che cosa mai dovrebbe “succedere” in un luogo che
per definizione è marcato dall’attesa, dalla sospensione? Non ci si aspetta
molto, guardando al carcere da fuori, ma basta affacciarsi un momento per
imbattersi invece in un’umanità in fermento, incapace di aspettare e rinunciare
alla vita.
È anche vero che di “attività” e
“iniziative” ormai molte carceri traboccano. C’è sempre un’anima pia che fa un
corso di yoga o esperanto, qualche gruppo di volontari attivissimi nel compito
di rendere attivi i detenuti. Ma queste benemerite iniziative nulla hanno a che
fare con quel che succede a volte, quando le persone detenute danno corpo alle loro aspirazioni e ai loro progetti, dentro un’istituzione che
sembra deputata invece a frustrare in modo pazientemente sistematico proprio
ogni umano rigurgito di iniziativa individuale.
Bene, questa è una di quelle
volte. Chi come Noi non è solo un’associazione culturale, è un patto di
umanità, un progetto di resistenza e resilienza umana. Se ti piacciono le
feste, i club e la night culture e
sei un libero cittadino, forse sarai considerato un eccentrico, i tuoi tatuaggi
scriveranno sul tuo corpo il tuo dandysmo un po’ retrò; ma se fai le stesse
scelte culturali da dentro le mura di un carcere, e ti fai crescere venti
centimetri di barba hypster che ti costa un sacco di tempo mantenere in ordine,
e ti viene in mente che potresti anche metter su un gruppo musicale, e poi neppure
quello ti basta e cominci a ragionare in grande, e pensi a una compagnia
teatrale, ad allestire spettacoli in cui coinvolgi decine di altri detenuti ma
ti rivolgi a tutto il mondo fuori; se nel tuo cervello Bukowski chiacchiera con
Picasso, la beat generation non è mai morta e la trasgressione come
oltrepassamento della frontiera è sempre pronta a scintillare come ipotesi,
allora sei proprio uno strano tipo di animale, non sei solo un eccentrico un
po’ fru-fru. Perché tenere in piedi il baraccone della tua identità quando tutto il resto lì attorno, tra guardie e
compagni, ti porterebbe da altre parti, ti porterebbe a startene al massimo al
calduccio imbozzolato in un angolo, a non fare nulla?
Non si tratta, quindi, di parlare
nuovamente di “Uno Spettacolo Teatrale” a Rebibbia, ma di qualcosa di più
denso, più colloso nel suo appicciarsi ai nostri pensieri, di qualcosa che
pretende un’interpretazione profonda. Cosa significa per settimane e mesi
scavare tra i libri, e poi stendere parole sulla carta e sul video, provando e
riprovando, e poi allestire una sala musica in reparto, coinvolgere le persone,
ore e ore di prove, trovare una misura tra quel che vorresti fare (tutto) e
quel che probabilmente ti lasceranno fare (molto poco, pochissimo)? Perché
sbattersi con quel livello di intensità?
Come antropologo, sono sempre
attratto dalla dimensione simbolica del reale sociale ma riconosco anche che
tale dimensione si coagula attorno ad alcuni oggetti più che ad altri, e sicuramente
Chi come Noi è un catalizzatore potente di simboli, una macchina fattrice di
segni. Partiamo dal progetto in corso, ad esempio, Gente de barrio. Un gruppo di detenuti si pone in cammino cercando
negli interstizi dell’urbano la condizione minima per una vita libera. Sembra
uno scherzo, come quando, più di due anni fa, con Carlo e Mauro organizzammo un
intervento per una giornata del “Festival delle letterature di viaggio” che si
teneva a Rebibbia (“di viaggio”, a Rebibbia? Sembrava uno scherzo di cattivo
gusto).
Quindi un gruppetto decisamente
cosmopolita di detenuti si imbarca metaforicamente in un giro delle metropoli,
chiedendosi se la civitas lasci
ancora spazio alla communitas. Quest’anno
Carlo e Mauro hanno dunque lavorato sull’idea di città, un tema che mi è caro
anche professionalmente. Gente de barrio
sono loro, le persone detenute, e ovviamente siamo noi, poveri uomini che ci
illudiamo di essere liberi. Da oltre le mura, il gruppo di “Chi come Noi” si è
spinto in giro per il mondo, alla disperata ricerca di uno spazio urbano dove
la libertà non sia assente o un bene a disponibilità limitata. La disperazione
viene non dall’impulso alla ricerca (quella è anzi accesa dal miglior utopismo)
ma dal rientro a casa con poco, dopo tanto girovagare. Ci sono centri storici,
quartieri popolari, passaggi e passeggi, ma quella libertà auspicata proprio
non si trova.
Alla fine del pellegrinaggio
urbano, Carlo e Mauro devono riconoscere che la libertà è uno stato mentale,
non geografico, una disposizione dell’anima, non delle cose nello spazio, e
ammetterete che questa banalità retorica assume tutt’altro valore se
pronunciata da chi ha un problema vero con la Libertà, e non si può
accontentare di discettarne sul piano allegorico.
Ma Chi come Noi non è un progetto
intellettuale, è prima di tutto un contesto culturale, dove il conoscere è
orientato al fare. Conoscere non basta, se quel sapere non diventa azione, e se
quell’azione non è a sua volta espansa oltre gli ideatori per farsi gruppo,
combinazione di corpi.
Gli antropologi chiamano questo
processo performativo “strutturazione rituale”. Una sequenza di azioni
pubbliche che modificano lo status dei partecipanti. Da oltre un secolo,
inoltre, sappiamo che i riti di passaggio si organizzano attorno a tre momenti
riconoscibili: c’è la fase della separazione, dove gli iniziandi vengono
rimossi dal flusso della vita quotidiana; segue la fase liminare, dove ha luogo il vero rituale di trasformazione; e il
tutto i conclude con la fase della riaggregazione, dove gli iniziati sono
reintegrati nel flusso della vita quotidiana con il loro nuovo status acquisito.
Nelle iniziative culturali di Chi
come Noi questo triplice movimento è come incastonato in una struttura più
ampia, che ovviamente è quella del carcere. Il carcere, di suo, separa, ma il
buio della noia galeotta, della piattezza dei giorni tutti uguali, viene
squarciato dalla Festa, dal momento performativo. In attesa di una reintegrazione
che è solo, nulla di più, sul serio, che il recupero di un tempo liberato, lo
spazio liminare del carcere si espande oltre misura, trabocca su sé stesso. La
liminarietà diventa una condizione magmatica in cui le differenze nitide
vengono meno: i detenuti diventano artisti, e viceversa. I “civili” nello
spazio dell’Area Verde si confondono coi detenuti, la prosa e la poesia sfumano
una nell’altra, gli spettatori e gli attori occupano gli stessi spazi, la luce
e il buio si sostengono a vicenda senza mai de-finirsi del tutto.
Negli spettacoli allestiti da
Carlo e Mauro questa dimensione liminare è fortissima, io dico anzi che prende
piede nonostante Carlo e Mauro, si
apre spazio a forza. So che li fa ridere questo mio blaterare antropologico, ma
dentro il loro stile di performance un antropologo ci vede per forza una
dimensione sacerdotale. Victor Turner, un grande antropologo britannico,
scrisse nel 1982, alla fine della sua carriera e della sua vita, un saggio
titolato Dal rito al teatro, in cui
discuteva la rilevanza (la “serietà”) del gioco per gli esseri umani. Possiamo
dire che Gente de barrio (e tutta
l’attività di Chi come Noi) è un’incarnazione di quella riflessione, quasi
raffigurata nel suo passaggio ulteriore, dal teatro al rito. Vedere uno spettacolo
di Carlo e Mauro non è mai un assistere oltre la quarta parete, ma è giocoforza
un entrare oltre. Tocca fare la fila all’ingresso, prima ancora si sono
depositati i propri dati, e spesso anche le proprie borse, costa arrivare fin
dentro le mura del carcere. Ma se ne esce lasciandosi attraversare da un rito
comunitario, si viene imbrattati da uno spazio liminare che non dà scampo alla
purezza e ai suoi cantori. Tutti assieme, tutti impuri, detenuti e civili,
attori e spettatori, si ragiona sul nostro stare assieme, sul senso di
quell’essere, per un momento almeno, un gruppo che parla con una voce sola.