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domenica 12 gennaio 2020

L'uso pubblico dell'antropologia (Ernesto Galli della Loggia, Lévi-Strauss e il concetto di cultura)


Riporto qui di seguito una lettera che ho pensato per i miei colleghi e le mie colleghe antropologhe. Visto che è molto lunga, i paragrafi sono titolati in

brevi riassunti con questo font e colore

che si possono leggere al posto dello sviluppo integrale.

Care colleghe, cari colleghi,

Perché scrivo questa lettera: per rispondere a quanto detto da Ernesto Galli della Loggia sul Cds del 10 gennaio 2020.

vi scrivo a seguito del breve editoriale del professor Ernesto Galli della Loggia apparso sul CdS in data 10 gennaio 2020. Non entrerò, almeno all’inizio di questo mio intervento, nel merito se l’etnocentrismo che ci fa schifare i nigeriani “a causa del loro modo di fare”, i bengalesi per il fastidio “dall’odore del cibo cucinato” o i rom per essere “sgradevolmente” nostri vicini di casa si debba o non si debba considerare razzismo (ho però l’impressione che Occam avrebbe gioco facile, se davvero entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem).

GdL nel suo editoriale legittima l’etnocentrismo distinguendolo dal razzismo, ma il modo in cui lo fa è tramite l’assunzione di un concetto del tutto erroneo di “cultura”

Da antropologo professionista, sono però particolarmente preoccupato del modo in cui un peraltro fine intellettuale come il professor Galli della Loggia si trovi a impiegare il concetto di cultura, proprio visto che è lui stesso ad ammettere che “Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura”. Se le parole ci impongono certe conseguenze di pensiero e di azione, a me pare che GdL sia completamente fuori strada, dato che da un lato ammette la complicatezza del concetto in linea di principio, ma poi nel suo rapido argomentare riduce “la cultura” a una macchietta senza alcun valore euristico.

La cosa grave in questa legittimazione è che il concetto di cultura che usa viene preso da un testo del 1988 di Claude Lévi-Strauss, famosissimo antropologo allora ultra-ottantenne.

Il dramma, per noi antropologi, è che questo lavoro di banalizzazione del concetto da parte di GdL è possibile facendo appello alla voce (per quanto senile) dell’antropologo (ahimè) tuttora più famoso nella sfera pubblica italiana, vale a dire quel Claude Lévi-Strauss che negli anni Sessanta del secolo scorso (vale a dire sessanta anni fa, dico: sessanta) era in grado con le sue riflessioni straordinarie e senza precedenti sul modo di pensare dei “selvaggi” di imporre la nostra disciplina all’attenzione della filosofia, della semiotica, degli studi letterari, dell’ermeneutica e financo della filosofia politica. Temo che risalga a quell’epoca la frequentazione degli studi antropologici da parte dell’allora studente universitario GdL, e in effetti è un tratto comune di quella generazione far coincidere l’antropologia con lo strutturalismo e lo strutturalismo con Lévi-Strauss (Lacan arriverà dopo, per quelli a cui arriverà).

Lévi-Strauss era stato molto creativo tra gli anni Cinquanta e Settanta, ma poi si era progressivamente arroccato su posizioni politiche reazionarie pur mantenendo presso il pubblico non specialista il prestigio che gli veniva dalla prima fase della sua carriera.

Lèvi-Strauss è stato un autore così prolifico e così longevo (morto ultracentenario nel 2009) che ha fatto in tempo a incarnare in sé e nella sua scrittura le vette del pensiero occidentale prebellico e la crisi morale e cognitiva del pensiero occidentale postbellico e postcoloniale. Il vecchio Lévi-Strauss, quello ormai santificato nell’icona del professore dell’École pratique des hautes études che andava ogni mattina a prendere solitari appunti in biblioteca con il suo quaderno fitto di note sotto il braccio, non ha mai accettato la forza dirompente del giovane Lévi-Strauss (quello di Tristi tropici, della Forme elementari della parentela e della trilogia mito-logica, vere vette del pensiero occidentale e, direi, umano tout court) e si è poco alla volta rincantucciato in un conservatorismo imbarazzante, che gli veniva benevolmente concesso, almeno in Francia, per la grandiosità di quel che aveva pensato e scritto fino agli anni Settanta. Un po’ come è successo con altri personaggi pubblici, a Lévi-Strauss si dava parola (senza prestargli veramente ascolto) lasciandolo alla deriva del suo pensare sempre meno originale e sempre più imbarazzante. So che molti non condivideranno questa dicotomizzazione del grande francese (insistendo che il suo conservatorismo già era evidente già da Tristi tropici; o che la sua vena innovativa e insofferente del senso comune persiste fin negli ultimi scritti, divenendo solo più evidente) ma vi prego di accettare questa mia semplificazione (il Lévi-Strauss che piange sulle macerie dell’occidentalizzazione negli anni Cinquanta fa un effetto ben diverso dall’elitista che molti anni dopo disprezza senza troppi infingimenti gli immigrati in Francia, comunque la si pensi) per il mio argomentare, che posso così sintetizzare: l’aura ultra-autorevole che Lévi-Strauss si era giustamente guadagnata a cavallo dei Sessanta permane (“isteresi dell’habitus”, sintetizzerebbe Bourdieu) anche quando lo strutturalismo giunge epistemologicamente alla frutta, e quell’autorevolezza tracima sulle opere e le parole dagli anni Ottanta in poi, parole e opere che sono invece piene di corbellerie intellettuali.

Il testo di L-S citato da GdL in effetti è solo una ripresa di concetti che l’antropologo francese aveva già ampiamente presentato in un suo libro del 1983, Lo sguardo da lontano.

La conversazione con l’allora trentacinquenne Didier Eribon che GdL usa come fonte è un sintomo del provincialismo con cui l’editoria e il mondo intellettuale italiano già trattava l’antropologia, dato che venne urgentemente tradotta nello stesso anno di pubblicazione dell’originale francese (1988), per Rizzoli, senza che se ne comprenda il motivo intellettuale, dato che l’allora già ottantenne Lévi-Strauss aveva sul tema poco da aggiungere a quanto aveva detto compiutamente in un libro del 1983, Lo sguardo da lontano, tradotto da Primo Levi nel 1984 per Einaudi.

GdL attribuisce quindi a un testo minore di un autore decadente un prestigio eccessivo rispetto allo sviluppo dell’antropologia culturale contemporanea.

Insomma, GdL prende come fonte della sua giustificazione dell’etnocentrismo un piccolo esercizio di furbizia editoriale (che immagino Eribon abbia saputo sfruttare per la sua carriera accademica), introdotto nel frusto panorama del dibattito antropologico italiano solo per assecondare la miopia del nostro mondo antropologico e di quello editoriale assieme. Essendo “il nome” (cioè l’unico nome che gli editori sapevano di poter imporre all’attenzione degli uffici stampa dei giornali, allora fulcro della popolarizzazione culturale), Lévi-Strauss andava bene per tutte le stagioni, qualunque cosa avesse detto, e comunque l’avesse detta.

Il testo originario da cui deriva questa concezione nefasta della cultura (che finisce per legittimare l’etnocentrismo), vale a dire Lo sguardo da lontano, era stato già ampiamente criticato in un saggio dell’antropologo americano Clifford Geertz pubblicato nel 1986 e intitolato Gli usi della diversità.

Il provincialismo, come si sa, è una brutta bestia in ogni caso, ma diventa un mostro patetico se impugnato come strumento conoscitivo dalla disciplina che si occupa professionalmente della diversità, e anche in questo caso la lezione è confermata: mentre in Italia, nel 1988 si perdevano tempo e denari a tradurre la minestra riscaldata di un vecchio maître à penser ormai privo di qualunque scintilla intellettuale, dall’altra parte dell’Atlantico, due anni prima, nel 1986, un certo Clifford Geertz (ancora pochissimo noto in Italia, dato che la sua clamorosa raccolta di saggi del 1973 era stata tradotta dal Mulino solo nel 1987) si era preso la briga di fare i conti con il testo di Lévi-Strauss del 1983, quello Sguardo da lontano che già dal titolo marcava la postura conservatrice del pensatore francese.
Nel saggio “Gli usi della diversità” (tradotto in italiano in due riviste prima di confluire nel bellissimo Antropologia e filosofia, una raccolta che nella pur meritevole traduzione del Mulino ha perso la forza drammatica del titolo originale, Available light), Geertz si confronta proprio con il Lévi-Strauss dello Sguardo da lontano per scardinare la concezione di “cultura” che il francese aveva impiegato, concezione che è esattamente la stessa impiegata implicitamente, inavvertitamente quasi, da Ernesto Galli della Loggia e che è la ragione fondamentale della fallacia del suo argomentare para-politico. Ecco i passaggi in cui GdL impiega il termine “cultura”:

GdL nel suo editoriale usa sempre una concezione del tutto “reificata” e antropomorfa di cultura, seguendo la cattiva lezione di L-S. Ciò significa che “cultura” è pensata come se corrispondesse a una cosa reale, dotata addirittura di stati d’animo e di sentimenti.

1. Per Lévi-Strauss il razzismo è «l’ostilità attiva» di una cultura verso un’altra, volta a «distruggerla o semplicemente ad opprimerla» sulla base di…

2. Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, «che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita.

3. …se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale…

4. …un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria.

5. …quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che…

6. Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura.

7. …la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario

Si tratta, in tutti i casi, di concezioni reificate della cultura e, tranne la 6, implicano un utilizzo completamente fuorviante del glorioso concetto che sta alla base della nostra disciplina. In pratica, ogni cultura è vista come un oggetto specifico, dotato di una sua natura interna e di suoi confini esterni, come un bicchiere, una scarpa, una porta, un portafogli. Questi oggetti si dispongono nello spazio estensivamente e ciascuno di essi non solo è “posseduto” da alcuni e “non posseduto” da altri ma ha contemporaneamente la curiosa caratteristica di avere stati d’animo e sentimenti autonomi, al punto che “una cultura” può “provare ostilità” per un’altra oppure alcune culture possono “rispettarsi” o sentire diversi “livelli di affinità”.

Questa idea di cultura dotata di realtà quasi fisica e quasi soggettiva è raffigurata da L-S nell’immagine delle “culture come treni” che corrono su binari diversi. Ognuno di noi, dice L-S, sta dentro la sua cultura come fosse un vagone di un treno, e guarda dal finestrino con poco interesse a treni che corrono in senso inverso al suo, e che lo distraggono dalle sue meditazioni e dalla sua creatività. Al massimo può provare un po’ di interesse per i treni che corrono nella sua stessa direzione e dentro cui può sbirciare con più possibilità di scorgere qualcosa di sensato.

Per esemplificare al meglio questa concezione Lévi-Strauss nel libro del 1983 propone forse la metafora più perniciosa che un antropologo abbia mai elaborato per sintetizzare l’oggetto della sua disciplina, e cioè la scellerata metafora dei treni.
Ognuno di noi, dice Lévi-Strauss, è come un passeggero dentro il suo treno/cultura, intento a guardare il mondo dal finestrino dalla prospettiva che gli è concessa dalla direzione specifica del suo treno. Se per caso sul binario parallelo per qualche tratto si affianca un treno che va nella stessa direzione e a una velocità paragonabile, ecco che possiamo affacciarci oltre il margine di quell’altro finestrino, magari sbirciare rapidamente, incuriosirci, e forse, addirittura, scambiare uno sguardo furtivo con la persona che occupa quello scompartimento. Ma il più delle volte, insiste Lévi-Strauss, i treni altri viaggiano in direzione opposta alla nostra, a velocità quindi negativa che non può che suscitare disagio. Questi treni/culture che si muovono in direzione opposta sono la maggior parte dei convogli in circolazione, e noi “ne ricaviamo soltanto un’immagine confusa e fugace [tipo: modi di fare nigeriani, odori bangladesi, vicini di casa addirittura rom], a stento identificabile, per lo più ridotta a un puro oscuramento momentaneo del nostro campo visivo, che non ci fornisce alcuna informazione su quanto avviene ma ci irrita soltanto, perché interrompe la placida contemplazione del paesaggio che fa da sfondo ai nostri sogni a occhi aperti”.
Immagino che GdL si senta perfettamente a suo agio dentro questa concezione della cultura e in effetti la lista delle occorrenze di “cultura” nel suo editoriale riportata più sopra conferma questa sensazione. La “presenza” di una cultura diversa dalla propria è solo un vagone altrui che inopinatamente confligge con il proprio, e il “dato culturale-identitario” che la politica (di destra, dice lui, ma io proverei ad allargare l’orizzonte visivo) è pronta a sfruttare è proprio questa concezione spaziale dell’identità, con le metafore del “casa propria” e “casa altrui” che altro non sono che la versione sedentarizzata dei treni di Lévi-Strauss: luoghi compatti e distinti.

Il problema della metafora dei treni è che implica due qualità che le culture non hanno affatto, vale a dire la distinzione nitida tra i diversi soggetti (due treni sono molto più distinti di quanto non lo siano mai due culture) e la compattezza interna: il treno di L-S sembra molto più omogeneo come composizione di quanto non siano in realtà i treni reali e le culture reali. Le culture non sono fatte solo da intellettuali maschi, colti, borghesi e raffinati come sono L-S e GdL (quella è semmai la vecchia nozione di cultura come sapere delle élites), e sono composte dal sapere di diverse classi, di diverse estrazioni, di diverse tradizioni: sul treno di L-S, insomma, ci sono un sacco di diversità interne. Le culture non sono internamente omogene, come non sono nettamente distinte le une dalle altre.

Ecco, la compattezza interna (maschi anziani e solitari, intenti a sognare ad occhi aperti) e la distinzione (i binari devono essere separati pena il disastro) sono proprio le due caratteristiche che le culture studiate dagli antropologi non hanno e non possono avere. Per quanto ci sia un discorso culturale che istituisce confini semiotici (dopo Ethnic groups andboundaries ci siamo rassegnati alla natura semiotica del confine culturale, vale a dire non oggettiva né oggettivabile) oggi l’antropologia culturale non vede più le culture come entità separate e nettamente distinte, ma dispone “il culturale” in un continuo che non è meno significativo né meno distintivo per il fatto che, oggettivamente, non consente la tracciatura di confini oggettivi nitidi. Ogni individuo dispone di porzioni di quella che lui considera “la sua cultura” ma contemporaneamente dispone di porzioni di culture “altre”, senza eccezioni.
La permeabilità inevitabile dei confini culturali non è concepita nel modello culturale propugnato da GdL e purtroppo ereditato dalla cattiva metafora dei treni. Se GdL può preoccuparsi che “la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria” ciò è possibile solo a patto di pensare “la propria” come un blocco uniforme quantificabile e passibile di “invasione”. Ma, tanto per dire, si può essere italiani e musulmani? A quali condizioni essere musulmani istituisce “la presenza di una cultura diversa”? Se sono nato e cresciuto in Italia, figlio di italiani purosangue da tempo immemore, parlo perfettamente italiano e conosco perfettamente “la cultura italiana” (qualunque cosa significhi) ma, poniamo, mi sono convertito all’Islam, o al Buddhismo o qualche nuovo movimento religioso, questo istituisce “la presenza di una cultura diversa”? Sì, no, perché? Sembra che ci si possa definire “un ateo a diciotto carati, perfino un mangiapreti” eppure includere questo nell’identità italiana (o europea), esattamente come farebbe qualunque cattolico fervente (cioè l’opposto di un mangiapreti). Quindi si può essere profondamente atei o profondamente credenti eppure appartenere alla medesima cultura. Perché allora un musulmano istituirebbe una “presenza culturale diversa”? Questione di “tradizione”? Quando inizia una tradizione? Se si tratta di stabilire chi è arrivato per primo, allora fanno bene i neo-musulmani spagnoli che riscoprono la loro “vera tradizione religiosa” occultata dalle Reconquista cattolica del Quindicesimo secolo? Se invece di vedere “le culture” come pacchetti compatti e addirittura senzienti di pratiche e valori cominciamo a sciogliere quell’intrico nelle sue componenti (le lingue naturali che parlo, i linguaggi specialistici che ho appreso, quel che ritengo bello, quel che mi attrae organoletticamente, le mie idee politiche, le mie idee sull’aldilà, ciò che mi disgusta, ciò che mi eccita, eccetera, eccetera eccetera) ecco che “le culture” magicamente smettono di avere opinioni, di provare sentimenti o di essere attratte o indifferenti, e ci troviamo con gruppi, sottogruppi, classi, frazioni di classe, e soprattutto individui, e trovare confini e binari diventa un’operazione assurda, semplicemente perché non ci sono treni culturali che su quei binari dovrebbero correre. Tra i miei studenti ci sono giovani coi dreadlock e altri coi tatuaggi, alcuni portano piercing altri girano solo in giacca e cravatta, alcune ragazze portano il hijab e altre si vestono come figlie dei fiori nel terzo millennio. Io, veramente, non ho modo di stabilire “la loro cultura” (cioè, secondo Lévi-Strauss e GdL, la loro nazionalità o origine etno-nazionale) guardando a questi tratti, perché i tratti culturali non sono ereditati come il colore gli occhi o la microcitemia, ma hanno la pessima abitudine (per chi pensa alle culture come treni) di essere insieme ondivaghi e appiccicosi, di spostarsi cioè con una rapidità che non ha paragone nel sistema della natura. Se GdL vede le culture come entità separate e si preoccupa perché altre culture non condividono la sua ciò avviene solo perché, come Lévi-Strauss, GdL si illude che la sua privata, personale competenza coincida con la cultura del paese cui appartiene legalmente. In quando intellettuale maschio, borghese, liberale e conservatore (tutti tratti con cui mi identifico pure io, ci mancherebbe) GdL si illude che “la cultura italiana” coincida col suo pensare e vedere, e quindi per lui (mangiapreti ma lettore di Croce, ça va sans dire) un musulmano diventa “uno che non condivide la nostra cultura” equivalente alla “presenza di una cultura diversa”.

L-S (e GdL che a lui si affida) si illude che le culture siano distinte tra loro e omogenee all’interno perché cade vittima del “nazionalismo metodologico”, vale a dire di un antico ma ancora in parte persistente pregiudizio delle scienze sociali, che credono che gli aggregati normali che studiano siano compatti al loro interno e nettamente distinti dall’esterno.

Questo errore prospettico (illudersi che sia possibile trovare un dentro e un fuori oggettivo delle culture, come fossero spazi confinati) dipende da molteplici fattori ma qui mi limiterò a indicarne uno solo, che GdF dovrebbe conoscere bene, vale a dire il “nazionalismometodologico”, con il che si definisce la stranissima (ma spiegabilissima in termini storici) tendenza dell’analisi sociale a considerare pregiudizialmente i propri oggetti collettivi di studio (le nazioni, i gruppi etnici, ma anche le classi) distinti in modo molto più netto di quanto non lo siano nella realtà dei fatti.
Il nazionalismo metodologico occulta poi il secondo, mastodontico, errore che la “metafora dei treni” (cioè la concezione reificata della cultura) porta con sé, è cioè l'illusione della compattezza interna delle culture a partire dalla generalizzazione di un caso singolo, tipicamente quello di chi parla; errore che possiamo vedere sia nelle parole di Lévi-Strauss, sia in quelle dell’editoriale di GdL. Rileggete per un momento le parole con cui il francese descrive il proprio treno: è un treno vuoto, o perlomeno è vuoto lo scompartimento dove lui si trova. Il grande studioso è assorto, un po’ contempla il paesaggio e un po’ quella contemplazione del paesaggio lo fa sognare a occhi aperti, gli tiene attiva la creatività, vera dote delle culture secondo lui, che un’eccessiva commistione induce a spegnere nella banalità della condivisione. E rivedete come GdL ammette che le culture siano una cosa da maneggiare con cura: lo fa con l’immagine di sé stesso, ateo a diciotto carati, tuttavia sgomento di fronte all’incendio di Notre Dame de Paris. Bellissime immagini, non è vero? In entrambi i casi intellettuali maschi avanti con gli anni ponzano solitari sulle sorti della “loro cultura”.

In realtà, “le culture” sono sempre state uno spazio di confronto della diversità e pretendere di farle coincidere con la prospettiva univoca di qualche loro rappresentante specifico è semplicemente sbagliato. Le culture non esistono come corpi compatti, armonici e omogenei e la ricerca empirica ci dice che ogni individuo “contiene” tratti di diverse culture e che ogni cultura è necessariamente composta da diverse tradizioni. Le uniche culture “pure” sono le culture morte.

Peccato che questa concezione di cultura altro non sia che la versione aggiornata all’individualismo tardo-capitalista della Cultura delle élite contro cui si era sviluppato il concetto antropologico di cultura, che è invece un bene non solo condiviso, ma frammentato, misto, e al suo interno sempre variopinto e contraddittorio. Se mai esistesse un treno della cultura francese, il povero pensatore assorto dovrebbe essere pronto a condividere i sedili con sportivi come Zinedine Zidane, artisti machisti come Johnny Hallyday, rapper omosessuali come Eddy de Pretto, con i tanti italiani naturalizzati, con i gilet gialli e con mille altre sfaccettature rumorose e spesso in tensione dell’identità e dell’appartenenza francese. Non ci sono treni che se ne vanno placidamente, compattamente e armoniosamente verso il loro destino e quel che abbiamo piuttosto sono trains de vie cacofonici e pacchiani, pieni di gente che parla a voce alta, ascolta musica a volume fastidioso e mangia sbrodolandosi, ma certo non si preoccupa del fastidio che può arrecare al grande pensatore assorto nel loro compartimento. E se il pensatore è assorto di fronte a una cattedrale in fiamme di cui non condivide più il senso (ma che pretende ancora gli appartenga come eredità culturale) sappia che dovrà condividere quelle sue profonde riflessioni con neo-tradizionalisti di ogni sorta, teocons e fondamentalisti cattolici e islamici che sbraitano perché non c’è più la buona religione di una volta e signora mia dove siamo andati a finire.

La posizione di GfL legittima quindi un comportamento insano come il pregiudizio sulla falsa premessa che sarebbe “naturale”. Mi domando se i medici applicassero alle malattie lo stesso principio, che andrebbero cioè accettate perché “sono naturali”…

Ecco dunque che l’etnocentrismo, difeso da GdL brandendo un consunto Lévi-Strauss, si può legittimare solo a patto di trattenere una concezione della cultura come oggetto fisicamente delimitato e fondato su un sistema operativo rigidamente proprietario condiviso interamente e solo dai “membri di quella cultura”. Peccato che né l’una né l’altra di queste premesse necessarie (le culture sono nettamente separate tra loro e prevalentemente omogenee al loro interno) superi il vaglio della ricerca empirica.
Il professor Galli della Loggia ha compiuto quindi una battaglia politicamente e culturalmente di retroguardia, fornendo apparenti pezze di appoggio “scientifiche” (il “grande nome”: vorrete mica liquidare come “conservatore” il maggior antropologo del Novecento?) a una visione del mondo assai piccina. Provare fastidio per “il modo di fare” i nigeriani (ma veramente, che modo di fare è?), per come puzza la cucina bangladese o per avere la sfortuna di un vicino di casa rom sono tutti atteggiamenti comuni e diffusi, nel nostro paese sempre più comuni e sempre più diffusi, così come sono diffusi e comuni il meteorismo e l’alitosi tra coloro che non possono permettersi una dieta sana. Ma un conto è accorgersi di un problema, prenderne atto insomma, un altro è trasformare quel problema in un vanto perché “cosa c’è di più naturale?”.

Ma il motivo vero per cui scrivo questa lettera è che noi antropologi e antropologhe italiani dobbiamo ammettere che se perfino intellettuali raffinati usano così male il concetto di cultura ciò è prima di tutto una nostra responsabilità: non siamo ancora in grado di comunicare all’opinione pubblica la rilevanza della prospettiva antropologica per una vera costruzione della cittadinanza nel mondo complesso in cui siamo immersi.

Ma l’atteggiamento di GdL è anche il sintomo del fallimento comunicativo della nostra disciplina. GdL è un intellettuale coi fiocchi, con una lunga carriera universitaria e di commentatore pubblico. Se si è sentito legittimato a citare un testo del tutto superato della nostra riflessione scientifica, e su quella base rendere accettabile e condivisibile in quanto “naturale” il disprezzo per la diversità, è perché non ha altre competenze in proposito, e questo è solo colpa nostra, non certo sua, visto che è uno studioso della politica e non un antropologo culturale. Dobbiamo quanto prima recuperare (o forse inventare) un ruolo per le scienze sociali nella costruzione della cittadinanza attiva e consapevole; l’antropologia culturale deve trovare spazio nella sfera pubblica e abbiamo il dovere di popolarizzare una concezione di cultura assai più complessa di quella che sembra oggi disponibile anche all’attuale classe dirigente.
Nell’uso pubblico della nostra disciplina dobbiamo far sentire la nostra voce, ricordare a tutti pubblicamente che una nozione reificata di cultura è scientificamente errata e moralmente insostenibile, dato che legittima non certo il razzismo, ma una pratica molto più banale e pervasiva, vale a dire il sospetto sistematico e il pregiudizio. E dentro una società il sospetto reciproco dilava e slabbra il tessuto sociale come nient’altro. Se vogliamo che la nostra società sopravviva è importante che tutti, non solo GdL, capiscano che è la capacità di produrre relazioni, non la specificità di questo o quel contenuto culturale, che genera umanità e che consente ai gruppi umani di riprodursi nel tempo. Cambiando, come è giusto. Cambiando, come è bello.