L’altro giorno ero in fila in farmacia – di quelle file lunghe, lente, perfette per esercitare la virtù della pazienza passiva – quando una signora, con passo felpato e sguardo assente, ha pensato bene di saltare tre persone e piazzarsi davanti a me. L’ha fatto con la naturalezza di chi si sente mimeticamente innocente. Allora mi sono schiarito la voce, le ho sorriso, e ho chiesto se avesse per caso pagato un biglietto invisibile per l’ingresso VIP. Lei è arrossita, ha detto che aveva una ricetta “urgente”, e ha fatto tre passi indietro. Nessuna scena, nessun applauso. Solo un piccolo caso di third-party punishment applicato al quotidiano.
Già,
perché non sempre sono i diretti interessati a far valere le regole. Succede
allo stadio, quando il pubblico fischia un tuffo teatrale; succede online,
quando un commento infame scatena un’ondata di sarcasmo; succede ogni volta che
qualcuno – pur non essendo direttamente colpito – si prende la briga di
far rispettare una norma sociale violata. È come se in ciascuno di noi abitasse
un piccolo giudice morale, che si attiva non per interesse personale, ma
per salvaguardare un ordine condiviso.
Secondo
l’antropologia evoluzionistica, questa tendenza ha radici profonde. In un
famoso studio comparativo coordinato da Jean Ensminger e Joseph Henrich (Experimenting
with Social Norms, 2014), è stato dimostrato che la predisposizione a
punire le violazioni sociali anche quando non ne ricaviamo alcun vantaggio
diretto è sorprendentemente diffusa in culture diverse. Non è solo
moralismo: è un meccanismo adattivo. La third-party punishment
disincentiva i comportamenti antisociali e crea un ambiente più prevedibile,
più equo, più abitabile. In altre parole, paga non punire per sé, ma per
il mondo in cui si vuole vivere.
Naturalmente,
ogni buon dispositivo umano ha un rovescio. La stessa spinta che ci fa
correggere la signora in farmacia può diventare – se alimentata male – una
miccia per l’odio travestito da giustizia. Un paio di like, uno screenshot, e
si passa dall’etica condivisa alla gogna virale. L’indignazione, quando
diventa professione, si trasforma in linciaggio moralistico. E il
piacere di “mettere a posto” qualcuno diventa dipendenza da indignazione.
Eppure
qualcosa, nella scena della farmacia, continua a sembrarmi buono. Quel gesto
minuscolo, quella messa in scena di una norma non scritta, mi pare racconti un
desiderio semplice: vivere in un mondo abitabile anche per chi non sa
difendersi da solo. Che poi è, in fondo, la promessa di ogni patto sociale:
non lasciare che siano solo i forti a dettare le regole.
E
qui arriva il punto più scomodo per certi palati progressisti: l’azione –
tranne che per Robinson Crusoe – non è mai davvero individuale. Viviamo in
relazioni, non in assoli. E questo pone problemi teorici prima che morali
a quanti credono che il proprio sentire basti a legittimare l’agire. I limiti
del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio, e il linguaggio – signora
mia – nasce da una relazione, non da una sensazione privata. Ogni desiderio,
ogni sdegno, ogni bisogno, è l’intersezione di sguardi,
non il vagito puro di una coscienza isolata.
Non
sarà mai la nostra righteousness (quella presunzione autocertificata di
essere nel giusto) né tantomeno il nostro entitlement (la pretesa di
aver diritto a tutto ciò che sentiamo) a fondare ciò che è legittimo fare. Né
in fila in farmacia, né in una marcia contro il sionismo mascherata da
lotta per i diritti.
La
verità è che il sistema – pur con tutte le sue storture – resta l’unica
protezione per chi non sa alzare la voce, per chi non ha la prontezza
verbale o la sfacciataggine muscolare dei piccolo-borghesi indignati. Le regole
non sono catene, ma protesi morali per i più vulnerabili. Smontarle in
nome di una libertà astratta o di una giustizia “sentita” è un atto di anarchismo
narcisistico, che non emancipa nessuno ma rende solo più fragili quelli che
non hanno i mezzi per difendersi da soli.
Se
la third-party punishment ci renda più giusti o semplicemente più
tranquilli, non lo so. Ma so che nessuno diventa giusto da solo, e che non
si protegge un mondo condiviso seguendo solo l’urgenza del proprio cuore.