Mancur Olson, cercando di spiegare oltre quarant’anni fa la Logica dell’azione collettiva, affronta la questione dei beni pubblici, beni cioè il cui godimento dovrebbe essere a disposizione di tutti (le strade, l’istruzione, per fare due esempi). Senza farla lunga, Olson dice che in un sistema razionale (in cui cioè ogni individuo pensa immediatamente al proprio tornaconto) l’azione collettiva che produce beni pubblici è impraticabile. Sintetizzando: in un sistema razionale i beni pubblici non dovrebbero essere prodotti. Per due ragioni.
La prima è dovuta alla natura stessa del bene prodotto. Un bene collettivo (un parco pubblico, un’università, una strada asfaltata) per essere tale presuppone necessariamente lo sforzo di molti. Allora l’individuo “razionale” pensa: “Be’, visto che già sono molti a pensarci, perché mi ci dovrei impegnare io? Che contribuisca o meno farà poca differenza!”, e quindi tende, in quanto individuo razionale, a non contribuire, sperando di usufruire gratis del bene (che è per definizione godibile da tutti, anche da quelli che non hanno contribuito alla sua realizzazione.).
La seconda ragione dipende dalla scala dell’utenza. Quanto più un bene è “affollato”, tanto meno sarà utile collettivamente, cessando di essere un bene pubblico (una spiaggia libera con migliaia di bagnanti accalcati cessa la sua funzione pubblica di produttrice di relax; un’autostrada intasata da sovraffollamento cessa la sua funzione pubblica di collegamento rapido). “Quindi” – dice sempre l’individuo razionale – “meno siamo meglio stiamo. Meno il bene è funzionale, meno sarà usato, quindi più sarà funzionale!”. E così non partecipa alla produzione del bene per ridurre il numero dei potenziali fruitori.
Se quindi tutti si comportassero razionalmente, i beni pubblici non verrebbero mai realizzati. Ora, non so se questa teoria è giusta, ma se Olson ha ragione nella premessa, ha ragione anche nella conseguenza: visto che “razionalmente” i beni pubblici non sono producibili, e che la storia invece ci dimostra che possono essere prodotti, allora la motivazione che tiene in piedi la produzione e il mantenimento dei beni pubblici dev’essere di altro ordine.
Olson dice che l’azione collettiva può essere spiegata solo in due modi:
a. con la coercizione (il bastone) per cui il singolo teme una punizione se non partecipa.
b. con qualche forma di incentivo al singolo (la carota) che viene spinto al suo tornaconto personale dalla convinzione che se partecipa ottiene un premio.
Pensavo, così, tra le altre cose, che uno dei problemi fondamentali dell’Università italiana è quello di essere un bene pubblico senza bastone e senza carota. Non c’è nessuna forma di coercizione per imporre certi standard nella didattica, nella ricerca e nella gestione; e non esiste nessuna forma di incentivo che spinga i singoli a contribuire.
Detto altrimenti: non credo che l’Università possa migliorare fin quando propone a molti stipendi minimi (nessun incentivo) e controlli assenti (nessuna coercizione). È inevitabile che in questo quadro la tendenza sia quella prevista da Olson, e cioè: “Lasciamola fare a qualcun altro”, qualunque cosa sia la cosa da fare.
Io non voglio uno stipendio di 1.000 euro al mese per il resto della vita senza che nessuno verifichi come e se lavoro. Voglio uno stipendio di 4.000 al mese per un semestre. E come me tutti gli altri. E poi il contratto per altri sei mesi lo ottengono i “migliori”, valutati come si valutano i docenti in tutti gli atenei civili (pubblicazioni e didattica). Datemi questo, e poi ne riparliamo di crisi dell’Università.