È da leggere con attenzione la lettera alle famiglie scritta dal cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, su “Famiglia e società” . Notevoli soprattutto alcuni passaggi a proposito del calo demografico italiano:
si assottiglierà la trasmissione del nostro patrimonio culturale, proprio quando si diffonderanno altre culture portate dagli immigrati.
Come capita spesso agli enunciati più intimi del quadro culturale che li ha generati, anche questo ha l’apparenza di un’ovvietà, indipendentemente dal giudizio morale che vi associamo. Sembra insomma una specie di premessa fattuale al discorso politico, uno squarcio oggettivo sulla realtà di fatto per accordarci sul tema in discussione e provvedere di conseguenza alle necessarie scelte. Ci sarà, ovviamente, chi deprecherà quello stato di fatto e tenterà resistenze di varia natura; chi considererà lo stato di cose sostanzialmente inevitabile, proponendo un lavorio sociale teso alla sua accettazione indolore: chi, infine, lo celebrerà come un potenziale beneficio, auspicando provvedimenti atti ad accelerare la sua compiuta realizzazione.
In tutto questo, i più rischierebbero di non accorgersi che quel semplice enunciato descrittivo sta a tutti gli effetti costituendo una realtà sociale secondo un corpus di tratti “descrittivi” tutt’altro che scontati o condivisibili, appena si passi alla loro disamina.
Analiticamente, il testo è scomponibile nei seguenti enunciati semplici:
1. Esiste un calo demografico in Italia
2. Questo calo causerà un assottigliamento della trasmissione del patrimonio culturale (italiano?)
3. Questo patrimonio culturale (italiano?) è proprietà dell’enunciante (il cardinal Antonelli) e dei destinatari della lettera, dato che viene aggettivato “nostro”.
4. L’assottigliamento del patrimonio culturale avverrà mentre si diffonderanno altre culture portate dagli immigrati.
Quel che si dice in 2 è in palese contraddizione con quel che sappiamo sulla trasmissione del sapere culturale. Diversamente infatti dal sapere di tipo biologico, incorporato nel nostro patrimonio genetico e trasmissibile solo con la riproduzione, il sapere di tipo culturale è sostanzialmente indipendente dalla riproduzione e avviene entro il lento processo di socializzazione che accompagna gli esseri umani per tutta la loro vita.
Indipendentemente cioè da chi sia stato l’inventore o da chi si consideri il titolare di un qualunque sapere culturale, esso può essere trasmesso a chiunque, tant’è vero che le culture umane costruiscono molto spesso barriere di accesso a determinate forme di sapere, che si vogliono mantenere esoteriche in quanto intenzionalmente limitate nella trasmissione. La cultura, insomma, è una malattia tendenzialmente epidemica, che di suo tende a circolare ben al di là del cerchio originario della sua produzione. Quel che sappiamo sulla diffusione planetaria di pratiche sicuramente inventate in un certo luogo e in un certo tempo ci conferma circa la rapidità potenziale della trasmissione culturale, e la pari rapidità del deperimento del messaggio culturale trasmesso, che implica la sostanziale necessità di iterarlo costantemente. Diversamente infatti dal sapere biologico (che tende alla persistenza e che solitamente non muta nel corso della vita di un soggetto) il sapere culturale può variare profondamente nel corso di una vita umana. Per esempio, la percentuale massima di melanina concentrata nella pelle rimane stabile nel corso di tutta la vita, mentre il giudizio su cosa sia una “buona musica” può variare al di là di qualunque ragionevole previsione.
Se insomma non vi è relazione diretta tra riproduzione biologica e sapere culturale (ho lavorato a lungo in un paese, la Grecia, in questo problema è particolarmente sentito) non ha alcun senso collegare il calo demografico con l’assottigliamento della trasmissione del nostro patrimonio culturale. Una cultura non si assottiglia – né si estingue, se è per questo – con il calo demografico dei suoi portatori, per il duplice motivo che è possibile trasmetterla facilmente a non portatori, e che è comunque assai dubbio che si possano individuare i “portatori effettivi” di una cultura, tanto più quando si parla di vasti conglomerati come le cosiddette culture nazionali. Se in Valtellina smettono di fare figli e si estinguono, sparisce la cultura valtellinese o quella italiana? Se tutti i veneti di colpo diventassero sterili e alla prossima generazione la polenta smettesse di essere considerata un alimento decente, sarebbe scomparso un pezzo della cultura veneta, di quella italiana o di quella “padana”? E anche se morisse senza lasciare eredi l’ultimo discendente “biologico” di Dante (o Petrarca, o Manzoni, o Calvino) questo implicherebbe un assottigliamento della trasmissione del nostro patrimonio culturale? Non credo che molti sarebbero disposti a rispondere di sì ad alcuna di queste domande. La cultura italiana (qualunque cosa il termine significhi) si estinguerà nel momento in cui smetterà di essere insegnata e appresa, non quando smetteranno di fare figli i possessori (qualunque cosa il termine significhi) di quella cultura.
Pare quindi evidente che la prospettiva del cardinal Antonelli ha senso solo a una condizione: considerare la “famiglia di orientamento” (quella in cui si è nati) come il vero e unico luogo dell’inculturazione (che è l’ingresso in un quadro culturale). Se fosse così, se veramente dentro la famiglia che ci ha messo al mondo subissimo una sorta di imprinting culturale, allora il senso del discorso del cardinale potrebbe emergere nella sua chiarezza.
Dobbiamo quindi dedurre che, quali che siano le intenzioni esplicite, il discorso ha certo la necessaria intenzione di veicolare la natura inevitabile e immutabile della famiglia come contesto dell’inculturazione. Il sapere che si impara dentro la famiglia nei primissimi anni di vita, in quest’ottica autorevole, somiglia in tutto e per tutto al sapere trasmesso per via biologica: come quello, non è sostanzialmente modificabile e, come quello, è indispensabile per la sopravvivenza del gruppo come entità culturale, oltre che statistica.
Da laico, trovo molto dolorosa questa concezione della cultura senza la minima briciola di speranza. Mi ricorda certi determinismi propri dei totalitarismi, che preferiscono distruggere la diversità piuttosto che farci i conti, ma quel che mi sorprende è il fatto che una simile concezione di-sperata della natura umana sia risalita fino ai vertici gerarchici di una religione originariamente universalista, dentro cioè un quadro antropologico che dovrebbe essere basato sulla speranza.
Il risentito incattivirsi sulla necessità di garantirsi le basi biologiche della propria sopravvivenza culturale sembra infatti derivare necessariamente (io, almeno, non trovo altra spiegazione) dalla totale sfiducia in quella che dovrebbe essere la pietra miliare del Cristianesimo: la ricerca della CONVERSIONE, di sé e dell’altro. Dio, infatti, ha detto “Crescete e moltiplicatevi” a Adamo ed Eva, cioè al genere umano in quanto tale, ma Gesù, ai suoi discepoli, aveva dato un altro messaggio: “Andate e predicate il Vangelo”. Gesù non si preoccupava delle condizioni demografiche del “suo gruppo”. Se il numero è necessario per la nostra specie, non era la consistenza numerica delle comunità cristiane a garantirne la possibilità di sopravvivenza, ma la forza della Parola di Dio, che spingeva gli altri a convertirsi, a lasciare cioè il modello culturale nel quale si erano formati per abbracciare una visione della realtà radicalmente diversa.
Un pastore che parla di “nostra” cultura come fosse un’ineluttabilità che ci separa dagli altri in modo definitivo, che si rifugia nel trucco della riproduzione biologica perché non è in grado di immaginare forme di conversione che consentano al suo Vangelo di diffondersi, a me, povero laico senza il dono della fede, non offre alcuna alternativa morale. Quel pastore è più disperato di me, ha meno fiducia di me nel genere umano e nella forza della parola. Quel pastore che, a Pasqua – festa della speranza più folle, la speranza della resurrezione e dell’immortalità, ricordiamolo, nella carne – mi confessa che la sua parola è così fiacca che – per sperare di sopravvivere al Mondo – deve provare ad ancorarsi ai corpi come una necessità sotto assedio, non come una scelta di libertà, a me induce un’infinita tristezza. Se questo è lo stato d’animo dell’Occidente cristiano (una disperazione amara e gonfia di risentito egocentrismo frustrato), non mi stupisce che il versante laico del nostro continente non abbia molto di meglio da dire.
Ma tra questo impaurito Dio cristiano che non ha neppure più il coraggio di parlare e pretende di riprodursi nei miei geni (bianchi? puri?) e un Dio islamico ossessionato dalla propria purezza al punto di pretendere che il mondo si sterilizzi per somigliargli, io credo sia ora di dare un nuovo senso morale alla sua assenza, per quanto dolorosa sia questa scelta radicale. Se a un Dio francamente assassino opponete un Dio francamente razzista, dei vostri idoli non so che farmene, e torno al precettore di Königsberg, che aveva capito che possiamo e anzi dobbiamo crearci una morale senza basarla su null’altro che la nostra incontenibile capacità di essere umani.