Siamo noi i scasati
Porchi pieni di porche prumate
Mai lucidate
[…]
Vieni a stare con noi
Io sono Mortizia e mai fullonerò
Scasati!
Durante le mie lezioni introduttive di antropologia culturale, uno degli scogli concettuali più ardui per i miei studenti è l’idea di arbitrarietà del segno. Non si tratta ovviamente della quasi ovvia arbitrarietà del legame tra significante e significato (questo è abbastanza facile da afferrare) ma piuttosto del fatto (terribile e intollerabile a molti) che le cose che diciamo non abbiano necessariamente un legame con la “realtà”. Insomma, per me si tratta di far capire agli studenti l’insufficienza della “teoria referenziale del significato”, a vantaggio della “teoria dell’uso del significato”. Secondo la prima, le parole sono più o meno delle forchette con cui infilziamo la realtà (una parola per ogni pezzo di reale) portandole così a portata di mano. “Patata”, “sasso”, “cane”, sono tipicamente parole che tendono a dare credito a questa teoria. Se anche non mi posso mangiare una “patata” scritta su questo schermo, né posso accarezzare il “cane” di cui parlano queste righe, tutti pensiamo che vi sia un legame certo e diretto tra il significante (in questo caso la forma “cane” o “patata” dei pixel sullo schermo) e il loro “referente” nella realtà, cioè l’animale scodinzolante o il tubero saporito, in questo caso.
La “teoria dell’uso” emerge invece quando si prova a dar conto del significato di segni linguistici meno “cosali”, come molti verbi (“sentire”, esempio classico perché contraddice con se stesso la teoria referenziale, pur essendone alla base), avverbi (provate a immaginare il referente reale di “quindi”, o “allora”), ma anche molti sostantivi (io cito sempre “anima”, “amore” e “democrazia”, ma avrete senz’altro i vostri). Di fronte a questa dimensione del linguaggio umano (che è probabilmente la peculiarità del nostro sistema rispetto a qualunque altro codice di comunicazione animale) non resta che accettare il fatto che, non essendo affatto referenziale, il significato dei segni è dato dall’uso che se ne fa, grande lezione della semiotica di Charles Sanders Pierce.
Quindi, il significato di un segno non è il suo referente, ma l’insieme delle storie potenziali che posso sensatamente generare con quel segno. Il segno “cane” (indipendentemente da ciò cui si “riferisce” nella realtà) sarà quindi molto diverso in una cultura che accetta il cane come alimento dal segno “cane” in una cultura che invece aborrisce l’idea di mangiare cani. Questo perché nel primo caso saranno permesse sequenze sintagmatiche (frasi) come “ieri ho mangiato cotolette di cane” che nel secondo verranno probabilmente giudicate come frasi “sbagliate”.
Tutto questo a me serve per far capire agli studenti che l’antropologia, come mestiere più che come riflessione teorica, è quella disciplina che si sforza di ricostruire le reti specifiche dei significati prodotti da una cultura. Se infatti per “noi” il segno “cane” significa “amico fidato”, ecco che un segno ha come suo significato un altro segno (in questo caso “amico”) che va decodificato, aprendosi al concetto di rete semiotica. Simmetricamente, se per “loro” il segno “cane” significa “gustosa prelibatezza” la rete di significati che quella cultura intesse attorno a “cane” è diversa ma altrettanto ramificata.
La filastrocca che avete letto all’inizio di questo post è un perfetto esempio del fatto che il significato non è dato dai referenti reali, ma dall’uso che se ne fa. Ho trascritto come mia figlia Rebecca (sei anni a novembre) canta la sigla di un cartone animato. Non le interessa cosa siano in dettaglio i “porchi pieni di porche prumate”, ma un’idea se l’è fatta guardando il cartone. E quando le ho chiesto cosa significa la frase finale che dice Mortizia (“mai fullonerò”) mi ha spiegato che vuol dire che mai tradirà i suoi amici. Fullonare, per intendersi, significa tradire, fregare.
Chi potrebbe negare che per Rebecca prima è venuta la parola “fullonare”, nella sua unità di significante e significato, e poi è venuta la scoperta del significato? Dato che Mortiza fa quelle cose e non altre, dato che lei, nel cartone, non tradisce gli amici, “fullonare” deve significare tradire, una cosa che Mortizia mai potrebbe fare. Non è la realtà che si impone con la sua forza "oggettiva" ai nomi, ma sono invece i nomi che ci permettono di capire la realtà, dandole (finalmente) un senso.