Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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lunedì 5 novembre 2007
Capitalismo relazionale
Mettetevi comodi o andatevene, se avete fretta. Questo non è né vuole essere un “post veloce”. Ho diverse cose da dire e non intendo riassumere.
Dopo un mese di silenzio su questo blog (ma di parole ne ho scritte e dette tantissime, nel frattempo: ho tradotto e commentato un bellissimo articoli di Michael Herzfeld che uscirà presto su Lares, la più antica rivista italiana di antropologia; sta per uscire un mio saggio su Achab, giovane invece rivista di antropologia, sul ruolo dei media nella produzione dell’immagine degli albanesi in Italia; sono a metà del primo modulo di Storia della Cultura Materiale – se vi interessa l’antropologia dell’arte potete vedere e ascoltare il materiale didattico, comprese le registrazioni integrali delle lezioni, all’indirizzo www.esnips.com/web/StoCuMa) sento giunto il momento di provare a articolare con la testa (e quindi con la tastiera) e non solo con la pancia (e l’inevitabile pancera) una serie di riflessioni che finora hanno la forma di malesseri incompiuti.
Lo stimolo, come spesso in questo genere di riflessioni, mi viene dalla lettura di Nòva24 il mai abbastanza elogiato inserto di “ricerca, innovazione e creatività” del giovedì del Sole24ore. Il numero 97 (in edicola giovedì 25 ottobre) apriva con “L’internet delle persone”, un articolo di David Weinberger, che non conoscevo e la cui curiosa nota biografica dice “57 anni, ha fatto un po’ di tutto, dal professore di Harvard all’autore per Woody Allen […]”.
Chi mi conosce o ha letto i miei post dedicati all’innovazione tecnologica su questo blog sa che non sono un catastrofista, né rimpiango i bei tempi andati in cui scrivevamo con penna e calamaio (o almeno su monitor a fosfori verdi) e solitamente nella dicotomia apocalittici/integrati mi schiero decisamente dalla parte dei secondi: credo che il mondo in cui viviamo sia per molti versi migliore di quello che ci stiamo lasciando alle spalle e sono convinto che la tecnologia possa contribuire al benessere materiale del genere umano migliorando non solo le nostre condizioni di vita ma anche incrementando il nostro grado di partecipazione civica. Ho comprato il mio primo computer nel 1988 e da allora non ho che tratto giovamento dalla possibilità, prima, di scrivere con un assistente intelligente e, poi, di collegarmi a un mondo fatto di informazione e ricerca e contatti personali. Uso regolarmente la posta elettronica dal settembre 1994 (provider giapponese NTT, uno dei primi in Italia a lanciare un servizio, allora a pagamento; client di posta Eudora, se qualcuno avesse vocazioni nostalgiche) e so quanto sia bello tenere i contatti con le persone lontane grazie proprio alla rapidità e immediatezza garantita dalla Rete.
Eppure (o forse proprio per questo) quel che sta evolvendo come web 2.0 mi convince sempre di meno. Sappiamo tutti che l’etichetta è fuzzy, ma sotto questa sigla si racchiude una miscela (poco precisa quanto a rispettive percentuali) di User Generated Content (UGC) e social networking. Quindi è web 2.0 Wikipedia, in quanto espressione più nitida (e più nota) di contenuti generati dagli utenti, ma è web 2.0 anche Twitter, che quanto a content è rimasto scarsino (140 chrs, meno di un sms alla volta, se ne mandi tre di fila ti arriva il cazziatino dell’architettura) ma è senz’altro trasparente nel suo obiettivo di perseguire una sempre più fitta reticolatura sociale a partire dall’Ego che ha eseguito l’accesso.
Soprattutto, pare, sono web 2.0 quelle “cose” (non ho una terminologia precisa, anche l’articolo di Weinberger oscilla, dato che ne parla come aggregati di applicazioni consegnate tramite browser, un pasticcio lessicale) come MySpace o, più di tutti, Facebook, cioè siti di social network che si aprono agli sviluppatori terzi che vi aggiungono funzioni in forma di servizi (Firefox, mi pare, è la versione browser di questa architettura aperta, che deriva ovviamente dalla filosofia dell’Open Source) per consentire agli utenti forme sempre più personalizzate di UGC. Agli amici del tuo reticolo su Facebook puoi spedire non solo mail e messaggi, ma file, (virtuali) pacchi regalo, ciambelle (donuts), zombie o formule magiche. Si tratta, insomma di una strana gadgettizzazione della comunicazione che non sappiamo ancora bene come gestire a livello funzionale (mentre è evidente il suo valore simbolico, come dirò più avanti).
Web 2.0 significa, quindi, un utilizzo della rete per cui quel che “conta veramente” è il gruppo di persone coinvolte in un progetto, indipendentemente dal fatto che queste persone NON siano interrelate tra loro ma partecipino a un obiettivo comune (come nel caso dei redattori/costruttori anonimi di Wikipedia) o siano invece fortemente intrecciate proprio come scopo principale. Da un’altra prospettiva, il web 2.0 affronta (e risolve a suo modo) uno dei nodi chiave delle scienze sociali (dal mio punto di vista di antropologo, “il” nodo chiave) e cioè quello della relazione tra individuo e collettività. Se si vede la cosa dalla prospettiva di Wikipedia (e qui parlo dell’enciclopedia di base, tralasciando le complicazioni teoretiche sollevate dai “progetti” e dagli spazi di “discussione” presenti all’interno del sito principale), il singolo esiste in quanto collabora assieme ad altri singoli per realizzare un prodotto collettivo, mentre nella prospettiva di Twitter la comunità deve contribuire alla costituzione sociale dell’individuo singolo, che più è tale quanto più è al centro di una rete fitta. Il web 2.0 è tutto quel che si trova tra questi due estremi, alla ricerca di un equilibrio dinamico che, miracolosamente, sembra tenere assieme due concezioni finora antitetiche dell’identità. Si può infatti distinguere tra un’identità basata sui principi della narrazione high concept per cui il soggetto è definito da quello che fa: il poliziotto (il tenente Colombo) o lo scopritore di nuovi mondi (il capitano Kirk); e un’identità low concept per cui il soggetto è definito da quello che è in relazione ad altri soggetti: sono i personaggi delle sitcom (mariti di, mogli di, figli di, amici di) e delle soap operas e telenovelas (amanti, parenti sconosciuti che si scoprono, divorziati e incestuosi). Il web 2.0, come ideologia identitaria intendo, sembra dare ragione a entrambe queste modalità. Per quanto la distanza tra l’affaccendato altruismo fattivo di Wikipedia e l’annoiato narcisismo relazionale di Twitter sia effettivamente abissale, il loro “punto mediano”, che possiamo indicare in Facebook, permette all’utente di concepire la propria identità come un felice equilibrio tra definizione relazionale (la mia rete di amici, le reti cui partecipo) e definizione “operativa” (con loro faccio delle cose, ci scambiamo virtuali fette di torta e bicchieri di spumante ai compleanni).
Cominciamo ad avvicinarci al punto centrale del fascino e del successo recente del web 2.0. “Tira” perché somiglia alla nostra vita reale, che infatti è sempre un intreccio di identità high concept e low concept. Siamo figli di e padri di, ma contemporaneamente dobbiamo fare qualcosa (lavorare, come minimo). Nessuno di noi umani “normali” ha la fortuna di coincidere completamente con quel che fa (come il tenente Colombo, di cui sappiamo che ha una moglie, ma che non vediamo mai), visto che poi durante il lavoro ci tocca staccare prima perché c’è da prendere la bimba all’asilo. E nessuno di noi ha la disgrazia di esistere solo in quanto relazione con altri esseri umani (a meno di non essere infelicemente menomato, o in coma. I morti, in questa prospettiva, sono le persone ormai relegate alla pura identità relazionale, tant’è che scompaiono come individualità quando smettiamo di ricordarli. Per questo l’umanità tributa loro un culto, perché ogni vivo sa che quella è la strada che dovrà percorrere, prima o poi). La vita, insomma, ci costringe a fare i conti con il fatto che quel che siamo dipende dalla nostra azione e dalle nostre relazioni, in misura ovviamente variabile per ognuno di noi.
Mentre la narrativa di genere (ma anche quella “artistica”, in realtà) tende a privilegiare una delle due dimensioni dell’identità, il web 2.0 offre l’opportunità di credere che sia possibile replicare fuori della vita fisica la sua stessa complicatezza relazionale e operativa. Il web 2.0 funziona perché è una narrazione completa che sembra ricalcare la vita. Questo è il suo fascino. Questo è il suo limite. Vediamo perché.
Non ne ho mai scritto su questo blog per non fare la parte del grillo parlante, ma i miei amici sanno che da mesi covavo la convinzione che quella di Second Life fosse una sbornia indotta da non praticanti del web per non praticanti del web. L’illusione di una duplicazione della vita reale è così fantasmatica da essere assurda per definizione. Indipendentemente dal fatto che ci sono ancora limiti tecnici alla realizzazione di un ambiente cosiddetto virtuale veramente tridimensionale, il limite intrinseco di Second Life è dato dal piano inclinato del Tempo, su cui tutti scivoliamo, indipendentemente da quel che facciamo o da quali siano le relazioni che allacciamo o sciogliamo. Quando i giornali, la primavera scorsa, hanno iniziato a parlare a raffica (e a vanvera, spesso) di Second Life, e quando gli (ir)responsabili del marketing di grandi aziende hanno spinto per l’apertura di Second agenzie e sportelli e uffici, per un po’ avevo pensato all’ennesimo modo per fare una barca di soldi. Apro su Second Life uno studio psicoanalitico per gli avatar. Il dottor Piero Shepherd (ehm…) avrebbe dato agli avatar in crisi identitaria la possibilità di elaborare i loro traumi e i loro lutti, offrendo la sua consulenza per un adeguato compenso il linden-dollari. Non so praticamente nulla di psicoanalisi (non più di quanto un malato conosca la sua malattia) ma come antropologo ho buone capacità relazionali e un mondo asettico e formalmente nitido come Second Life mi dava l’illusione che avrei saputo fare questo lavoro in maniera egregia, sollevando i miei pazienti dalle loro turbe principali (come avatar, si intende) e lasciandoli contenti di pagarmi per i miei servigi. Tanto più che la mia decente competenza dell’inglese mi avrebbe aperto le porte a una platea potenziale veramente ampia.
Quando ho iniziato a pensare come rendere operativa la cosa, al di là della gestione della parte grafica (avrei potuto pagare un second architetto per progettare lo studio e un second stilista o lookologo per un’adeguata presentazione del mio avatar) mi sono reso conto che l’unica risorsa a disponibilità veramente limitata era il Tempo. Per fare bene lo strizzacervelli su Second Life (bene = in grado di farmi guadagnare) avrei dovuto impegnare su Second Life una quota tale del mio Tempo complessivo da fare di quell’avatar la mia First Life. Avrei dovuto cioè rendere disponibile il mio avatar per diverse ore al giorno, sottraendo quel tempo alle mie normali occupazioni di ricercatore universitario e redattore editoriale. Ora, io faccio già due lavori per campare: perché mai dovrei aggiungerne un terzo?
La questione non si risolve mantenendola sul piano del volontariato hobbistico. Fare l’avatar a tempo perso su Second Life diventa non fare l’avatar, e basta. La recente “scoperta” che gli avatar effettivamente presenti sul sito sono, per ogni momento, troppo pochi per rendere appetibile qualunque investimento produttivo o pubblicitario è la scoperta dell’acqua calda. Qualunque manager che si occupi di risorse umane (e qualunque persona dotata di buon senso) avrebbe dovuto capirlo da subito. Second Life non può funzionare proprio perché pretende di non essere virtuale nella gestione del tempo. Metteteci tutti gli avatar che volete, e tutte le second figate che riuscite a concepire: rimarrà sempre valido il dramma esistenziale che il genere umano conosce da sempre: non esiste una cosa come “il tempo virtuale”, e quindi qualunque spazio virtuale viene fruito solo e sempre nel tempo reale. Dal punto di vista del Tempo che scorre, quindi, non ha alcun senso distinguere tra una realtà virtuale e una realtà fisica, dato che entrambe possono essere attraversate e fruite solo ed esclusivamente nel Tempo reale. Per scrivere queste righe ho impiegato TR (tempo reale) non TV (tempo virtuale) esattamente come consumo TR per fare l’amore, fare la spesa e o correggere gli esoneri dei miei studenti. Se quindi qualunque cosa facciamo la facciamo dentro TR, Second Life per essere all’altezza della aspettative che promette dovrebbe occupare tutto il mio TR, lasciando quindi tendenzialmente a zero in Tempo disponibile per alte attività esterne a Second Life, fruite cioè in uno spazio diverso da quello virtuale. Intendevo questo quando ho scritto che se Second Life vuole essere veramente Life non ha alternative che essere FIRST. E chi sarebbe disposto ad avere come propria vita effettiva quella di un pupazzetto di pixel che girovaga in un mondo tutto sommato ancora alquanto bruttino, totalmente privo di qualunque godimento sinestetico? Gli unici ad accettare una simile alternativa non possono che essere quelli per cui la vita “reale” suona peggiore di quella pixellata di Second Life, vale a dire persone estremamente insoddisfatte o insicure. Se veramente sono disposto a fare di Second Life la mia First Life, è probabile che la mia vita sia molto triste, o almeno molto grigia (o che io abbia meno di 18 anni, periodo in cui la disponibilità di Tempo è pressoché illimitata, ma su questo torno tra poco).
Come per la mappa in scala 1:1 di cui vagheggia Borges in uno dei suoi racconti, l’unica ragione per accogliere Second Life sarebbe un effettivo miglioramento rispetto all’oggetto di cui è riproduzione. Sono troppo ottimista per credere che siano in molti ad apprezzare Second Life come un “miglioramento” della vita reale, e quindi mi pare ovvio che Second Life in quanto tale non ha speranze serie di sopravvivere. Ci sono invece indicazioni che potrà avere un futuro come ambiente operativo, come interfaccia dei browser per alcuni compiti specifici (soprattutto di organizzazione spaziale: pensate a girare in Goolge maps con un avatar decente).
Per l’argomentazione che sostengo in queste pagine, Second Life rappresenta l’epitome dell’impossibilità di tenere al passo la rete sociale corporale con la rete sociale elettronica, e quindi in linea generale quanto detto fin qui vale anche per tutto il web 2.0, nella misura in cui il suo compito (vedi “L’internet delle persone” di Nòva24 da cui sono partito) sarebbe quello di articolare la relazione tra soggetto individuale e collettività.
Prendete ad esempio Twitter. Io, che ho una vita decisamente intensa (non ho detto emozionante, ho detto intensa, che è ben altra cosa), semplicemente non posso aggiornare twitter, perché il tempo che impiegherei per farlo verrebbe necessariamente sottratto a occupazioni per me più fruttuose.
Eppure, sento ovviamente replicare, Twitter è di fatto un successo mondiale, e ci sono milioni di persone che lo utilizzano regolarmente. Non voglio contestare questo dato di fatto (che riguarda ovviamente MySpace, Facebook, e altri “social” di recente successo) ma contestare il senso di quel fatto.
Per quanto riguarda Twitter, un breve periodo da utente mi ha convinto che sia usato principalmente come un mezzo per: 1. chattare sinteticamente con gli amici 2. fare pubblicità al proprio blog/sito/attività 3. raccogliere il maggior numero di followers. Ora, i primi due usi non richiedono di alcuna spiegazione specifica, dato che il chiacchiericcio e la pubblicità esistono da ben prima del web 2.0. Molto più interessante invece il terzo punto, che secondo me configura una versione inedita di capitalismo, dove la merce da accumulare è la versione oggettivata (e ovviamente alienata da sé) della relazione umana.
I nuovi siti di social networking offrono tutti la possibilità di verificare i propri “amici” (o “seguaci”, o “rete”) in modo curiosamente oggettivo: uno sa esattamente di chi è amico (who is following, in twitterese) e chi è amico suo (who are his/her followers) e non ci sono ambiguità. Ora, le relazioni umane sono sempre state il campo sovrano dell’ambiguità: io considero Tizio mio amico, mentre lui mi considera un rompiballe; lei è il mio amore, io sono il suo tormento, e così via… Grazie alle paginate dei siti di social network questa impossibilità di risolvere autonomamente la questione della natura delle proprie relazioni sembra affrontata in modo oggettivo: se sei nella lista, sei in rapporto “social”.
Questo approccio profondamente fuorviante al rapporto umano (fatto di sì/no, senza forse, senza “non so”) è concepibile solo se si oggettiva definitivamente il rapporto in quanto tale, se lo si rende cioè null’altro che una cosa, comparabile con altre cose. Ecco allora che i “campioni” di twitter sono quelli che possono vantare più followers esattamente come un campione di basket è quello che vanta più canestri, o assist o rimbalzi.
L’individualismo possessivo (secondo cui, quindi, esistiamo in base alla natura e alla quantità delle cose che possediamo e al tipo di relazione che instauriamo con esse non solo nel privato della nostra affettività, ma anche nel pubblico dell’economia e della politica) apre quindi con il social network una nuova frontiera, in cui i rapporti umani sono ridotti a puro possesso reciproco, in una specie di grottesca pantomima della raccolta di figurine. Io esisto nella misura in cui possiedo contatti (che a loro volta mi devono possedere, per esistere) con cui faccio cose che spesso non sono altro che messe in forma di MAS (mutual admiration society), gruppi il cui scopo principale di esistenza è la reciproca adulazione tra i membri.
Per fortuna, un fosco futuro di narcisi collezionisti di avatar altrui cui demandare lo spessore della propria esistenza è ancora ben lontano, per le considerazioni prima espresse sulla dimensione temporale. Per poter veramente diventare collezionisti di persone sui siti di social network è necessario disporre di quote considerevoli di tempo. Sono due le tipologie in possesso di tale requisito: quelli che accumulano nel social network per poter investire altrove (se hai veramente migliaia di followers è probabile che un editore o uno stilista o una casa discografica possano prestarti ascolto) e fanno quindi del social network un vero lavoro, l’accumulazione primaria con la quale innescare un meccanismo produttivo; oppure gli adolescenti che hanno veramente ore e ore libere (e se l’impiegano a twitterare e scambiare cazzate sul Facebook invece che ciacolare e scambiarsi canne sul muretto io non ci vedo nulla di sconvolgente o drammatico: finito il liceo gli passa, fatte salve le solite eccezioni di sfigati perenni). Che siano veri professionisti o adolescenti con tempo da perdere, si tratta comunque di tipologie sociali marginali, o numericamente, o produttivamente, e quindi mi sento di prevedere che questo tipo di relazione sociale non si imporrà mai come modello relazionale di base.
Resta il fatto che oggi se ne parla, e se ne parla moltissimo. Forse, mi viene da dire, la ragione è nella natura stessa del fenomeno. Se ci pensate, a forza di parlare su tutti i media e nelle relazioni interpersonali di social network, un po’ di social network si finisce per produrlo.
Quello che vorrei riuscissimo a teorizzare (e vivere, ovviamente) è una sorta di versione per la rete di slow food. Come in quel caso la battaglia non era tanto o solo (mi pare) contro un nemico oggettivo (il fast food) quanto a favore di un modo lento, profondo e articolato di vivere il cibo, così mi piacerebbe che qualcuno lanciasse l’ideologia della slow net, fatta di legami non troppo fitti, ma solidi e profondi. Non tanto, quindi la lista dei miei followers su twitter, ma un modo per saldare i legami per me veri e importanti.
Ragni e scoiattoli
Da qualche parte Isaiah Berlin (io l’ho letto citato da Clifford Geertz, di cui ci è purtroppo celebrato il 30 ottobre il primo anniversario delle morte) distingue gli uomini di scienza in due grandi categorie, gli istrici e le volpi.
I primi sono quegli studiosi che temono il contatto con ambienti culturali o disciplinari esterni al loro specialismo. Si chiudono (a riccio, appunto), tendenzialmente preferiscono stare per conto loro, almeno dal punto di vista intellettuale. All’opposto si collocano le volpi, sempre pronte a predare i terreni degli altri, a rubare idee, concetti, anche dati quando serve. Secondo Geertz, gli antropologi starebbero naturalmente in questo secondo gruppo, incapaci di elaborare un quadro teorico “forte”, si agganciano ad altre discipline (storia, psicologia sociale, sociologia, per non parlare della filosofia) e le incardinano nei loro specifici problemi.
Non so, forse Geertz pensava ai suoi colleghi americani. Io sono sempre stato orgoglioso di questa immagine di antropologi come volpi e quindi anche pirati, un po’ imbroglioni e un po’ attaccabrighe. Un modo di salvare l’idea romantica della mia disciplina, proprio mentre ad essere sempre meno romantico è il mondo in quanto tale.
Eppure, più passa il tempo (e più leggo di antropologia italiana, cioè scritta da colleghi italiani, un terreno che ho sempre battuto poco fino a tre-quattro anni fa) più mi rendo conto che l’immagine che ci ha offerto di noi stessi il compianto Geertz (lui, sì, una volpe di luminosa grandezza) è forse troppo lusinghiera, almeno quando deve adattarsi alle patrie lettere antropologiche.
Mi pare che noi, antropologi italiani, siamo divisibili più secondo altri animali totemici, e cioè lo scoiattolo e il ragno.
Il primo è un animale prudente e meticoloso, che raccoglie e mette via, raccoglie e mette via. Certo, non ci si può aspettare molto da uno scoiattolo, non di certo che ti stupisca con una strabiliante mossa a sorpresa, ma alcuni tronchi cavi sono Paesi di Cuccagna, e quindi la loro qualità è data dalla pazienza. Gli antropologi scoiattoli scrivono sistematizzando i dati e il pensiero altrui, che raccolgono con cura spesso certosina. Sono forse figli della tradizione filologica dei nostri studi, e anche se spesso non hanno l’agilità di una volpe nel saltare da un campo all’altro è molto difficile che nei loro scritti non si trovi qualche pezzo di valore, almeno nella bibliografia.
I ragni, invece, non hanno la remissività sufficiente per andarsi a cercare le fonti del loro sostentamento e preferiscono produrre da sé un modello, uno schema, una “teoria”, una ragnatela più o meno solida, aspettando (pazientemente o pigramente, secondo i punti di vista) che siano gli insetti a cascarci dentro. Questi antropologi spesso scrivono sotto l’impulso di una minuscola intuizione, un grumo ideativo che solo a volte consente la sedimentazione di testi compiuti. Altre, invece, quel piccolo nucleo (spessissimo prodotto da un incidente autobiografico, splendido e triste paradosso ossimorico per un antropologo culturale) viene semplicemente replicato e giustapposto per il numero di volte necessario a completare il testo, dando alla ragnatela finale un effetto di simmetria che è dato solo dalla ripetizione.
Si possono trovare cose buone e cose meno buone sia nelle dispense degli scoiattoli (alcuni sono ottimi dispensieri, ma altri si limitano ad accumulare senza un criterio, altri ancora non sanno cercare le noci migliori e continuano a nutrirsi di ghiande scadenti) sia nelle ragnatele dei ragni (alcuni costruiscono strutture sbilenche e troppo fragili per reggere anche una sola lettura, ma un bravo ragno saprà veramente irretirvi nel nitido luccicore della sua costruzione, quando ci ha lavorato con cura sufficiente) ma resta il fatto che i due giocano con handicap diversi, almeno qui, in Italia.
La qualità del lavoro degli scoiattoli è misurabile secondo criteri più rigorosi (attualità delle fonti, precisione delle tipologie in cui collocare i dati) mentre l’estro dei ragni vive delle fortune della “creatività” italica. Andate cioè da un editore italiano con “l’idea brillante” ed è probabile che vi ascolterà (non è detto con interesse, ho detto che almeno vi ascolterà), mentre se andate con un corpus di dati rigorosi e organizzati esclusivamente in modo da produrre un avanzamento della conoscenza è probabile che quell’editore, prima di tutto, vi chieda quanti studenti avete e se il vostro progetto è “adottabile”.
Molti dei testi che gli antropologi scoiattoli pubblicano in Italia non troverebbero un editore in alcun altro paese (tranne forse la Francia, ultima terra a offrire asilo agli intellettuali tuttologi di professione, e quindi anche ad alcune preziose bischerate antropologiche scritte da ex scoiattoli convertiti in ragni particolarmente spensierati), mentre qui il retaggio crociano e l’inerzia dei concorsi universitari (per diventare “confermati” qualunque sia il blasone accademico, bisogna produrre delle pubblicazioni, e questa a volte è l’unica motivazione che spinge i ragni al temporaneo lavoro) hanno creato un mercato curioso, di libri fatti di un’idea che potrebbe stare in un articoletto di terza pagina. Idee non sempre complicate, spesso al limite del discorso da autobus.
Ma forse varrebbe la pena di fare un po’ un giro (di fare le volpi a rovescio, insomma) per scoprire che l’opposizione tra ragni e scoiattoli riguarda un po’ tutti quelli che si occupano di scienze umane in Italia (così, a occhio, mi pare che i ragni abbondino anche tra i pedagogisti e i massmediologi, almeno dentro l’accademia).
Naturalmente, questo stesso mio pezzo è scritto con stile “da ragno”, che forse è lo stile che più si addice a un blog, dopo tutto. Senza far finta che le ideuzze che spuntano qui possano reggere il corso del tempo, o il confronto scientifico con il solido pensiero ragionato dei colleghi scoiattoli.
I primi sono quegli studiosi che temono il contatto con ambienti culturali o disciplinari esterni al loro specialismo. Si chiudono (a riccio, appunto), tendenzialmente preferiscono stare per conto loro, almeno dal punto di vista intellettuale. All’opposto si collocano le volpi, sempre pronte a predare i terreni degli altri, a rubare idee, concetti, anche dati quando serve. Secondo Geertz, gli antropologi starebbero naturalmente in questo secondo gruppo, incapaci di elaborare un quadro teorico “forte”, si agganciano ad altre discipline (storia, psicologia sociale, sociologia, per non parlare della filosofia) e le incardinano nei loro specifici problemi.
Non so, forse Geertz pensava ai suoi colleghi americani. Io sono sempre stato orgoglioso di questa immagine di antropologi come volpi e quindi anche pirati, un po’ imbroglioni e un po’ attaccabrighe. Un modo di salvare l’idea romantica della mia disciplina, proprio mentre ad essere sempre meno romantico è il mondo in quanto tale.
Eppure, più passa il tempo (e più leggo di antropologia italiana, cioè scritta da colleghi italiani, un terreno che ho sempre battuto poco fino a tre-quattro anni fa) più mi rendo conto che l’immagine che ci ha offerto di noi stessi il compianto Geertz (lui, sì, una volpe di luminosa grandezza) è forse troppo lusinghiera, almeno quando deve adattarsi alle patrie lettere antropologiche.
Mi pare che noi, antropologi italiani, siamo divisibili più secondo altri animali totemici, e cioè lo scoiattolo e il ragno.
Il primo è un animale prudente e meticoloso, che raccoglie e mette via, raccoglie e mette via. Certo, non ci si può aspettare molto da uno scoiattolo, non di certo che ti stupisca con una strabiliante mossa a sorpresa, ma alcuni tronchi cavi sono Paesi di Cuccagna, e quindi la loro qualità è data dalla pazienza. Gli antropologi scoiattoli scrivono sistematizzando i dati e il pensiero altrui, che raccolgono con cura spesso certosina. Sono forse figli della tradizione filologica dei nostri studi, e anche se spesso non hanno l’agilità di una volpe nel saltare da un campo all’altro è molto difficile che nei loro scritti non si trovi qualche pezzo di valore, almeno nella bibliografia.
I ragni, invece, non hanno la remissività sufficiente per andarsi a cercare le fonti del loro sostentamento e preferiscono produrre da sé un modello, uno schema, una “teoria”, una ragnatela più o meno solida, aspettando (pazientemente o pigramente, secondo i punti di vista) che siano gli insetti a cascarci dentro. Questi antropologi spesso scrivono sotto l’impulso di una minuscola intuizione, un grumo ideativo che solo a volte consente la sedimentazione di testi compiuti. Altre, invece, quel piccolo nucleo (spessissimo prodotto da un incidente autobiografico, splendido e triste paradosso ossimorico per un antropologo culturale) viene semplicemente replicato e giustapposto per il numero di volte necessario a completare il testo, dando alla ragnatela finale un effetto di simmetria che è dato solo dalla ripetizione.
Si possono trovare cose buone e cose meno buone sia nelle dispense degli scoiattoli (alcuni sono ottimi dispensieri, ma altri si limitano ad accumulare senza un criterio, altri ancora non sanno cercare le noci migliori e continuano a nutrirsi di ghiande scadenti) sia nelle ragnatele dei ragni (alcuni costruiscono strutture sbilenche e troppo fragili per reggere anche una sola lettura, ma un bravo ragno saprà veramente irretirvi nel nitido luccicore della sua costruzione, quando ci ha lavorato con cura sufficiente) ma resta il fatto che i due giocano con handicap diversi, almeno qui, in Italia.
La qualità del lavoro degli scoiattoli è misurabile secondo criteri più rigorosi (attualità delle fonti, precisione delle tipologie in cui collocare i dati) mentre l’estro dei ragni vive delle fortune della “creatività” italica. Andate cioè da un editore italiano con “l’idea brillante” ed è probabile che vi ascolterà (non è detto con interesse, ho detto che almeno vi ascolterà), mentre se andate con un corpus di dati rigorosi e organizzati esclusivamente in modo da produrre un avanzamento della conoscenza è probabile che quell’editore, prima di tutto, vi chieda quanti studenti avete e se il vostro progetto è “adottabile”.
Molti dei testi che gli antropologi scoiattoli pubblicano in Italia non troverebbero un editore in alcun altro paese (tranne forse la Francia, ultima terra a offrire asilo agli intellettuali tuttologi di professione, e quindi anche ad alcune preziose bischerate antropologiche scritte da ex scoiattoli convertiti in ragni particolarmente spensierati), mentre qui il retaggio crociano e l’inerzia dei concorsi universitari (per diventare “confermati” qualunque sia il blasone accademico, bisogna produrre delle pubblicazioni, e questa a volte è l’unica motivazione che spinge i ragni al temporaneo lavoro) hanno creato un mercato curioso, di libri fatti di un’idea che potrebbe stare in un articoletto di terza pagina. Idee non sempre complicate, spesso al limite del discorso da autobus.
Ma forse varrebbe la pena di fare un po’ un giro (di fare le volpi a rovescio, insomma) per scoprire che l’opposizione tra ragni e scoiattoli riguarda un po’ tutti quelli che si occupano di scienze umane in Italia (così, a occhio, mi pare che i ragni abbondino anche tra i pedagogisti e i massmediologi, almeno dentro l’accademia).
Naturalmente, questo stesso mio pezzo è scritto con stile “da ragno”, che forse è lo stile che più si addice a un blog, dopo tutto. Senza far finta che le ideuzze che spuntano qui possano reggere il corso del tempo, o il confronto scientifico con il solido pensiero ragionato dei colleghi scoiattoli.