Da qualche parte Isaiah Berlin (io l’ho letto citato da Clifford Geertz, di cui ci è purtroppo celebrato il 30 ottobre il primo anniversario delle morte) distingue gli uomini di scienza in due grandi categorie, gli istrici e le volpi.
I primi sono quegli studiosi che temono il contatto con ambienti culturali o disciplinari esterni al loro specialismo. Si chiudono (a riccio, appunto), tendenzialmente preferiscono stare per conto loro, almeno dal punto di vista intellettuale. All’opposto si collocano le volpi, sempre pronte a predare i terreni degli altri, a rubare idee, concetti, anche dati quando serve. Secondo Geertz, gli antropologi starebbero naturalmente in questo secondo gruppo, incapaci di elaborare un quadro teorico “forte”, si agganciano ad altre discipline (storia, psicologia sociale, sociologia, per non parlare della filosofia) e le incardinano nei loro specifici problemi.
Non so, forse Geertz pensava ai suoi colleghi americani. Io sono sempre stato orgoglioso di questa immagine di antropologi come volpi e quindi anche pirati, un po’ imbroglioni e un po’ attaccabrighe. Un modo di salvare l’idea romantica della mia disciplina, proprio mentre ad essere sempre meno romantico è il mondo in quanto tale.
Eppure, più passa il tempo (e più leggo di antropologia italiana, cioè scritta da colleghi italiani, un terreno che ho sempre battuto poco fino a tre-quattro anni fa) più mi rendo conto che l’immagine che ci ha offerto di noi stessi il compianto Geertz (lui, sì, una volpe di luminosa grandezza) è forse troppo lusinghiera, almeno quando deve adattarsi alle patrie lettere antropologiche.
Mi pare che noi, antropologi italiani, siamo divisibili più secondo altri animali totemici, e cioè lo scoiattolo e il ragno.
Il primo è un animale prudente e meticoloso, che raccoglie e mette via, raccoglie e mette via. Certo, non ci si può aspettare molto da uno scoiattolo, non di certo che ti stupisca con una strabiliante mossa a sorpresa, ma alcuni tronchi cavi sono Paesi di Cuccagna, e quindi la loro qualità è data dalla pazienza. Gli antropologi scoiattoli scrivono sistematizzando i dati e il pensiero altrui, che raccolgono con cura spesso certosina. Sono forse figli della tradizione filologica dei nostri studi, e anche se spesso non hanno l’agilità di una volpe nel saltare da un campo all’altro è molto difficile che nei loro scritti non si trovi qualche pezzo di valore, almeno nella bibliografia.
I ragni, invece, non hanno la remissività sufficiente per andarsi a cercare le fonti del loro sostentamento e preferiscono produrre da sé un modello, uno schema, una “teoria”, una ragnatela più o meno solida, aspettando (pazientemente o pigramente, secondo i punti di vista) che siano gli insetti a cascarci dentro. Questi antropologi spesso scrivono sotto l’impulso di una minuscola intuizione, un grumo ideativo che solo a volte consente la sedimentazione di testi compiuti. Altre, invece, quel piccolo nucleo (spessissimo prodotto da un incidente autobiografico, splendido e triste paradosso ossimorico per un antropologo culturale) viene semplicemente replicato e giustapposto per il numero di volte necessario a completare il testo, dando alla ragnatela finale un effetto di simmetria che è dato solo dalla ripetizione.
Si possono trovare cose buone e cose meno buone sia nelle dispense degli scoiattoli (alcuni sono ottimi dispensieri, ma altri si limitano ad accumulare senza un criterio, altri ancora non sanno cercare le noci migliori e continuano a nutrirsi di ghiande scadenti) sia nelle ragnatele dei ragni (alcuni costruiscono strutture sbilenche e troppo fragili per reggere anche una sola lettura, ma un bravo ragno saprà veramente irretirvi nel nitido luccicore della sua costruzione, quando ci ha lavorato con cura sufficiente) ma resta il fatto che i due giocano con handicap diversi, almeno qui, in Italia.
La qualità del lavoro degli scoiattoli è misurabile secondo criteri più rigorosi (attualità delle fonti, precisione delle tipologie in cui collocare i dati) mentre l’estro dei ragni vive delle fortune della “creatività” italica. Andate cioè da un editore italiano con “l’idea brillante” ed è probabile che vi ascolterà (non è detto con interesse, ho detto che almeno vi ascolterà), mentre se andate con un corpus di dati rigorosi e organizzati esclusivamente in modo da produrre un avanzamento della conoscenza è probabile che quell’editore, prima di tutto, vi chieda quanti studenti avete e se il vostro progetto è “adottabile”.
Molti dei testi che gli antropologi scoiattoli pubblicano in Italia non troverebbero un editore in alcun altro paese (tranne forse la Francia, ultima terra a offrire asilo agli intellettuali tuttologi di professione, e quindi anche ad alcune preziose bischerate antropologiche scritte da ex scoiattoli convertiti in ragni particolarmente spensierati), mentre qui il retaggio crociano e l’inerzia dei concorsi universitari (per diventare “confermati” qualunque sia il blasone accademico, bisogna produrre delle pubblicazioni, e questa a volte è l’unica motivazione che spinge i ragni al temporaneo lavoro) hanno creato un mercato curioso, di libri fatti di un’idea che potrebbe stare in un articoletto di terza pagina. Idee non sempre complicate, spesso al limite del discorso da autobus.
Ma forse varrebbe la pena di fare un po’ un giro (di fare le volpi a rovescio, insomma) per scoprire che l’opposizione tra ragni e scoiattoli riguarda un po’ tutti quelli che si occupano di scienze umane in Italia (così, a occhio, mi pare che i ragni abbondino anche tra i pedagogisti e i massmediologi, almeno dentro l’accademia).
Naturalmente, questo stesso mio pezzo è scritto con stile “da ragno”, che forse è lo stile che più si addice a un blog, dopo tutto. Senza far finta che le ideuzze che spuntano qui possano reggere il corso del tempo, o il confronto scientifico con il solido pensiero ragionato dei colleghi scoiattoli.