Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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martedì 27 maggio 2008
Seminario Passato Identità Politica
Cliccando arrivate a una cartella dove potete scaricare la registrazione integrale degli interventi che Paolo Brocato, Antonio Battista Sangineto e io abbiamo presentato per il seminario Passato Identità Politica, tenuto il 14 maggio all'Università della Calabria.
giovedì 22 maggio 2008
Diritto di cittadinanza
Non sono pregiudizialmente ostile al governo in carica. Se non avessimo “questa” destra, e se da qualche parte esistesse una destra sinceramente liberale, come quando nacque, credo che alla fine sarei di destra. Sono troppo individualista, e tutto quello che mi suona omogeneizzazione, livellamento, eguaglianza scatena subito il mio sospetto. Per questo amo Bersani più di Tremonti, Giavazzi infinitamente più di Alemanno: perché mi trovo d’accordo con la sinistra liberale in quanto liberale più che in quanto di sinistra.
Faccio questa premessa sperando che chi mi legge e questo governo l’ha votato non consideri le mie parole dettate dal pregiudizio politico.
Dicevo nel post precedente che con gli studenti di Napoli stiamo leggendo Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, di Taylor e Habermas, sperando di fornire qualche strumento di analisi e riflessione sullo stato attuale della società italiana e dei suoi rapporti con “lo straniero”.
La presentazione, ieri, di un disegno di legge che prevede il reato di clandestinità mi offre l’opportunità di far vedere come uno studio “teorico” possa diventare uno strumento di posizionamento politico.
Habermas contesta a Taylor, soprattutto, la prospettiva (che Taylor del resto espone proprio per contestarla) del “liberalismo procedurale”, cioè del formalismo del liberalismo che, senza assumere alcuna posizione etica su quel che andrebbe fatto per perseguire una “vita buona”, si deve limitare a porre le regole sui rapporti formali tra cittadini, in modo che poi ognuno possa, individualmente, perseguire il suo ideale di “vita buona”. Secondo Taylor, insomma, il liberalismo classico è costretto a sottrarsi a qualunque giudizio etico, ed è proprio questo formalismo che gli impedisce di comprendere le finalità delle minoranze e delle comunità culturali, di cui finisce per ignorare i diritti (da cui il comunitarismo per cui Taylor è diventato famoso).
Habermas, in sostanza, dice che questa presentazione del liberalismo avanzata da Taylor per argomentare a favore del comunitarismo dei diritti collettivi è falsa e fuorviante, dato che ogni sistema giuridico ha una sua “pregnanza etica” che gli deriva dal fatto di essere l’espressione storica (culturalmente determinata ed eticamente orientata, quindi) della comunità (nazionale) che l’ha espresso e formulato.
Ogni corpus legislativo, quindi, cerca non solo di incarnare una serie di principi morali nella sua costituzione (individuando quel che è “buono per tutti”, universalmente) ma è storicamente costretto (anche quando non lo vorrebbe, eventualmente) a rispecchiare nel suo sistema di leggi la storia etica (quel che è buon per “noi”, che quelle leggi le dobbiamo rispettare) e culturale di quel “popolo”. Per l’Italia, l’abolizione della legge sul delitto d’onore, l’introduzione della legge sul divorzio e infiniti altri casi ci dimostrano che ogni sistema giuridico è imbevuto della storia della nazione che se l’è dato, e quindi muta nel corso del tempo anche per corrispondere ai principi etici che quella nazione elabora con il passare del tempo.
Questo fondamento etico dello stato democratico non va ovviamente confuso con lo stato etico totalitario perché completamente diverso è il cittadino dei due ordinamenti. Mentre infatti nei sistemi totalitari il cittadino deve obbedire a leggi eteroprodotte paternalisticamente da una casta “per il suo bene”, ciò che infatti caratterizza lo stato democratico liberale è il principio giusrazionalista del contratto: i cittadini stanno assieme per un patto che hanno tutti sottoscritto, e obbediscono alle leggi perché sono loro stessi (direttamente o più spesso attraverso l’istituto della rappresentanza) ad essersele date. Il soggetto dello stato democratico è libero e autonomo (in senso kantiano) perché obbedisce a leggi che egli stesso si è dato, quindi la sua soggettività di soggetto privato (che ha dei diritti e dei doveri) nasce necessariamente assieme alla sua soggettività di soggetto pubblico, che partecipa alla vita civile (la sfera pubblica) e politica (legislativa).
In sostanza, dice Habermas, una società è democratica se ha una sfera pubblica in cui è possibile per lei dibattere sulla sua natura, autocomprendersi per poter far rispecchiare questa autocomprensione nel diritto, pena la perdita di autonomia e libertà dei soggetti (che altrimenti si troverebbero ad obbedire a leggi che non hanno scelto). Se non c’è una sfera pubblica in cui la società si rispecchia, è inevitabile che il passare del tempo produrrà uno scollamento tra autorappresentazione e sistema giuridico, e quindi i cittadini cesserebbero di essere tali perché si troverebbero a dover sottostare a leggi che non hanno scelto e sottoscritto come espressione anche etica della loro stessa comunità.
Come si vede da questa impostazione rigorosamente liberale, il sistema giuridico di un paese che si voglia democratico deve parlare dell’autorappresentazione e autocomprensione di quel paese, ma non può parlare dell’Altro perché se si legifera sull’Altro si sta producendo un oggetto sociale, che deve obbedire a una legge senza aver potuto partecipare alla sua stesura. Anche quando sanziona i reati, la legge deve sempre e solo parlare di “noi” membri della comunità: noi diciamo che chi tra noi fa questo viene punito e può, al limite essere espulso dal noi, ma perché quella legge sia legge democratica dobbiamo tutti convenire che vi sia totale coincidenza tra quanti quella legge l’hanno elaborata e quanti a quella legge devono obbedire. Se si esula da questo principio (che cioè la legge è sempre “eticamente pregnante” nel senso che riguarda “noi”, non gli Altri o “tutti”) si decade ipso facto dallo stato liberale democratico. Se una legge riguarda soggetti esterni al corpus legiferante non è una legge che possa appartenere a uno stato liberale democratico.
La proposta di legge sul reato di clandestinità è precisamente una legge di questo tipo: si impone a un oggetto politico (il clandestino) che non ha alcuna possibilità di partecipare alla sua stesura, e quindi è radicalmente non democratica e non liberale. Non mi sorprende che questa proposta di legge sia stata voluta dalla Lega Nord, che per totale mancanza di cultura politica e giuridica incarna gli spiriti più belluini (e quindi decisamente pre-giusrazionalisti) del nostro paese. Il timore, come mi faceva notare uno studente ieri a lezione, è che lo “spirito della Lega”, il suo bieco localismo etnico, si stia diffondendo in tutto il paese, come dimostrano gli incendi dei campi rom di Napoli della settimana scorsa.
Se si vuole proporre un reato di clandestinità e insieme rimanere dentro il consesso degli stati democratici, è necessario offrire al contempo la cittadinanza a chiunque sia residente in Italia da un certo periodo (diciamo tre anni?), avendo lavorato (non importa se in regola o al nero) e senza aver commesso reati penalmente rilevanti. Questa proposta, che suona ovviamente “scandalosa” in questo periodo, è in realtà una normalissima prospettiva liberale, che dovrebbe trovare d’accordo tutti i buoni borghesi che dentro lo stato liberale sono cresciuti e hanno potuto prosperare. Superare “l’emergenza clandestini” sarà possibile solo quando smetteranno di essere tali. Possiamo e dobbiamo regolare i flussi, ma dobbiamo garantire i diritti di cittadinanza a quanti vengono qui: solo se si sentiranno parte della società civile potranno rispecchiarvisi, senza dover scappare o nascondersi, costretti a cercare altre forme di espressione della propria identità.
MG è una persona della quale devo parlare in forma anonima, per salvaguardare il suo fragilissimo benessere: vive in Italia da sette anni, ma non essendo cittadino UE si è potuta regolarizzare solo con la Bossi-Fini, pur avendo sempre lavorato dieci ore al giorno. Ha il visto in scadenza a giugno 2008, e per poterlo rinnovare ha dovuto accettare un contratto di lavoro capestro, dato che se avesse continuato a lavorare al nero non vedrebbe il suo permesso di soggiorno rinnovato. Ora lavora dieci ore al giorno ma il contratto parla di cinque, per cui i contributi versati sono part-time.
Non può dire nulla perché ha paura che il datore di lavoro rescinda il contratto e quindi si troverebbe a giugno senza occupazione e automaticamente senza rinnovo del permesso. MG abbassa la testa, continua a lavorare dieci ore al giorno (anche il sabato e la domenica, dato che i mille euro al mese concordati per il suo lavoro finto part-time non le bastano e deve fare il “doppio lavoro” nei week end, dato che paga un affitto di 600 euro, per una casa di 45 metri quadri in periferia, e la sua è una situazione sicuramente vantaggiosa rispetto a quella di molti altri lavoratori non UE a Roma).
Il fatto che io debba scrivere di MG in forma totalmente anonima è un segnale gravissimo della sua condizione: dal punto di vista dei diritti, dal punto di vista della sua soggettività di individuo, MG non esiste, non deve esistere. E ora una legge le parlerà ancora direttamente, e le dirà quel che lei è o non è. Senza che lei possa partecipare, senza che lei possa replicare. Non possiamo accettare che questo modo proceda oltre, se insistiamo a definirci liberali e democratici.
martedì 20 maggio 2008
Multiculturalismo
Per ragioni esclusivamente didattiche, sto provando a digerire a fondo (dopo una lettura del tutto superficiale nel 2005) Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, un libro che raccoglie due scritti separati, uno di Charles Taylor, l’altro di Jürgen Habermas. Due posizioni anche molto distanti, ma che si vede speranzosamente (stavo per scrivere: disperatamente) alla ricerca di un modo per affrontare la società multiculturale e le aporie che inevitabilmente questa solleva di fronte all’ideologia dello stato nazionale ancora in gran parte centrata sulla nazione come corpo compatto di cittadini che condividono un unico orizzonte etico-culturale.
Al di là delle diverse posizioni (preoccupato da come il comunitarismo tenda a produrre una concezione reificata e fasullamente compatta di cultura, io propendo per l’individualismo di Habermas, che prova a mantenere il diritto alla propria cultura nell’ambito del dibattito della sfera pubblica, sottraendolo quindi alla dimensione giuridica dove lo collocherebbe invece Taylor) mi fa impressione più come mi immagino questi filosofi al lavoro:
sono esploratori ciechi di una terra sconosciuta, e a tentoni provano a dirci quel che sta giusto un passo più in là, così che possiamo evitare gli ostacoli più impervi, le buche, o anche solo di fare male agli altri che come noi stanno andando in quella direzione. Sono come volontari in avanscoperta, quel che ci riportano sono comunque idee approssimative, sperando che servano.
Lo dico ai miei studenti di Napoli. Proprio in questi giorni, in cui si bruciano campi nomadi e si preparano leggi che sembrano dare per scontata l’equivalenza tra clandestinità e crimine, io sto qui a raffinare strumenti analitici che sembrano veramente campati per aria. Forse, ma solo forse (e lo dico proprio perché non ho molto da dire “in concreto” su quel che sta succedendo in Italia in queste settimane), siamo, io e i miei studenti, come i biologi di un laboratorio, che mente fuori infuria una terribile epidemia, altro non possono fare che scrutare vetrini, impiantare colture e mettere a punto reagenti. Sperando, dentro l’assurda serenità della scienza, di trovare un rimedio al male lì fuori.
Al di là delle diverse posizioni (preoccupato da come il comunitarismo tenda a produrre una concezione reificata e fasullamente compatta di cultura, io propendo per l’individualismo di Habermas, che prova a mantenere il diritto alla propria cultura nell’ambito del dibattito della sfera pubblica, sottraendolo quindi alla dimensione giuridica dove lo collocherebbe invece Taylor) mi fa impressione più come mi immagino questi filosofi al lavoro:
sono esploratori ciechi di una terra sconosciuta, e a tentoni provano a dirci quel che sta giusto un passo più in là, così che possiamo evitare gli ostacoli più impervi, le buche, o anche solo di fare male agli altri che come noi stanno andando in quella direzione. Sono come volontari in avanscoperta, quel che ci riportano sono comunque idee approssimative, sperando che servano.
Lo dico ai miei studenti di Napoli. Proprio in questi giorni, in cui si bruciano campi nomadi e si preparano leggi che sembrano dare per scontata l’equivalenza tra clandestinità e crimine, io sto qui a raffinare strumenti analitici che sembrano veramente campati per aria. Forse, ma solo forse (e lo dico proprio perché non ho molto da dire “in concreto” su quel che sta succedendo in Italia in queste settimane), siamo, io e i miei studenti, come i biologi di un laboratorio, che mente fuori infuria una terribile epidemia, altro non possono fare che scrutare vetrini, impiantare colture e mettere a punto reagenti. Sperando, dentro l’assurda serenità della scienza, di trovare un rimedio al male lì fuori.
martedì 13 maggio 2008
Scienza e politica
La S.V. è invitata a partecipare al seminario che si terrà domani, 14 maggio 2008, nell'aula "Spezzaferro" del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti (cubo 21b) dell'Università della Calabria (Arcavacata di Rende) sul tema:
PASSATO IDENTITÀ POLITICA
Archeologia e antropologia tra appartenenze e uso pubblico
Ne discutono con i colleghi e gli studenti:
Paolo Brocato
Antonio Battista Sangineto
Piero Vereni
Il testo del mio intervento si trova qui
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E questo è il file con la presentazione in ppt che accompagna il testo
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E poi dite che non vi informo
sabato 10 maggio 2008
Zanzare spuntate
Radio24 è una delle migliori radio italiane, probabilmente la migliore per l'informazione nazionale. Tra i vari programmi uno che ascolto quando posso, mentre preparo la cena, è La zanzara, condotto da Giuseppe Cruciani. Così viene descritto il programma sul sito:
"La zanzara" è attualità senza tabù, senza censure, senza tagli alle vostre opinioni. Alla fine della giornata, con i titoli dei telegiornali in diretta, inchieste, voci catturate dalle tv di tutto il mondo e ospiti che non avete mai sentito, "La zanzara" diventa la zona franca degli ascoltatori, uno spazio nemico della banalità, l'arena dove il primo comandamento è parlare chiaro.
Stasera, dopo la trasmissione, non ce l'ho fatta e (cosa che non faccio veramente mai, per nessun programma) ho scritto alla redazione questa mail:
Gentile dottor Cruciani,
la seguo quando posso. Stasera, preparando la cena a mia figlia era una di quelle sere in cui potevo. La vado a prendere alla scuola di danza e, come ogni venerdì, passiamo a prenderci un film dal nostro noleggio e via a casa, a mangiare carne ai ferri e patate al burro (la sua cena preferita). Mia figlia ha sei anni, Cruciani (e un'altra è in arrivo ai primi di agosto).
Mi ha fatto molta impressione la telefonata di quel gentile signore dall'accento piemontese che con estrema cortesia si è prima premurato di farle i complimenti per la sua bella trasmissione e poi le ha raccontato l'episodio del signor Vittorio Sgarbi che, presente alla Fiera del Libro di Torino non so a quale titolo (ma forse solo in qualità di "estremista dell'intelligenza", probabilmente una qualifica più che sufficiente per partecipare a una fiera libraria, e lo dico senza alcuna ironia) ha visto bene di dar mostra del suo notorio savoir faire chiedendo a una ragazzina di diciassette anni se il seno che sfoggiava fosse vero o siliconato (anche se immagino che la mia sintesi nobiliti il lessico e il tono impiegati dal signor Sgarbi).
Mi era sembrata alquanto strana la sua replica difensiva, del tipo: "Se lei si meraviglia di una cosa del genere vuol dire che non conosce Vittorio Sgarbi". Mi sembrava del tutto fuori luogo questo appellarsi all'elite di voi "famosetti" che evidentemente vi conoscete e sapete cosa aspettarvi uno dall'altro, mentre il candido signore piemontese, che aveva assistito alla scena e che le stava comunicando più il suo stupore che il suo disappunto, veniva tacitato con un patetico "lei non sa chi siamo noi".
Ma non posso tacerle che il mio fastidio è divenuto sorda rabbia quando il signore si è rivelato il padre della ragazza, e lei non ha avuto il minimo cenno di solidarietà per lui o il minimo brivido di sdegno per Sgarbi. Per uno come lei, così facile a sdegnarsi per molto meno, la reazione (anzi, la mancanza di) mi sembrava priva di senso.
Mi è bastato aspettare un paio di minuti: cazzo (scusi, sto cercando di essere preciso e questo ho pensato) ha Sgarbi ospite! Ecco perché ha fatto lo gnorri. Ho chiesto a Rebecca di interrompere momentaneamente il suo racconto delle avventure pomeridiane perché non volevo perdere una battuta della sua intervista a spada tratta. Mi immaginavo che l'avrebbe messo alle strette, che magari sul finale una stoccatina sulle "tette" della diciassettenne gliel'avrebbe lanciata, magari anche solo con un ammiccamento, una strizzatina d'occhio o una lieve gomitata, come sapete scambiarvi voi uomini di mondo quando vi punzecchiate un punto debole. Invece: NULLA, il nulla totale per discettare se la Moratti debba fare la psicoanalista o andare dallo psicoanalista, e quali siano le quote degli allibratori per Sgarbi viceministro. Per usare una formula retorica che le sento dire spesso quando è particolarmente irritato: "Ci avete capito qualcosa voi? Perché io non ci ho capito nulla!".
La ciliegina sulla torta l’ha messa quando uno più veloce di me le ha fatto notare via sms il suo tempismo giornalistico e lei, per darci a intendere di avere la coscienza pulita, ha fatto lo splendido che legge e fa: “Ma non scherziamo, ma di che stiamo parlando?”. Cruciani, lei aveva per le mani la notizia e ci ha pisciato sopra in nome di una piaggeria vergognosa. Guardi che io l’ascolto perché condivido molto di quel che dice, in un certo senso mi considero un suo ascoltatore “tipico” e quindi è probabile che il mio stato di profonda incazzatura per il suo prostrarsi così penosamente di fronte al potere (anzi, al “poterino”) è probabilmente condiviso da molti dei suoi ascoltatori, e fa molto male a sottovalutarlo.
Forte coi deboli, debole coi forti. Ha fatto una vera figura barbina, stasera, e farà bene a ricordarsela ogni sera che va a dormire, per un bel pezzo.
La saluto, non posso certo dire calorosamente o con stima. Diciamo che la saluto e buonanotte,
pv
PS Dato che credo che il suo comportamento vada adeguatamente pubblicizzato, una copia di questa lettera va dritta sul mio blog, dove pubblicherò anche qualunque sua eventuale risposta.
lunedì 5 maggio 2008
Effetto Rutelli
Ho votato Rutelli, anche al ballottaggio, e a una settimana dal fattaccio vorrei dire la mia. Non mi piace come sia passata senza ostacoli l’interpretazione che “Rutelli ha perso sulla sicurezza”. Dopo l’uscita sul braccialetto elettronico, e dopo aver “rinfacciato” ad Alemanno di essere colpevole di aver regolarizzato centinaia di migliaia di immigrati che lavoravano in Italia senza permesso di soggiorno, non si capisce proprio cos’altro poteva fare il bel mascelluto sulla sicurezza (riaprire le camere a gas?). A guardare le cose con un filo di distacco (no, proprio non ce la faccio a strapparmi le vesti perché ha vinto Alemanno) mi sembra che ci siano stati due fattori del tutto trascurati nell’analisi, che hanno contribuito, uno al primo turno, e l’altro al ballottaggio, alla sonora sconfitta del Partito Democratico romano.
1. Il primo fattore lo chiamerei semplicemente “effetto Rutelli” e si misura con lo scarto tra la percentuale bulgara dell’ultimo Veltroni capitolino e lo striminzito 44 per cento di Rutelli al primo turno. Le migliaia di voti perduti sono conseguenza del fatto puro e semplice che a Roma Rutelli è stato vissuto come un candidato bollito, vecchio, stantio, rifritto, senza un minimo di appeal. Alemanno gli è stato alle calcagna al primo turno semplicemente perché era quello “contro Rutelli”, e se avessero candidato me nelle liste del popolo delle libertà avrei preso più o meno lo stesso. Rutelli se ne è andato da Roma che doveva fare sfaceli nell’Ulivo, e invece l’abbiamo visto diventare un margheritiano sempre più di palazzo, sempre meno in giro in motorino (per non parlare della bicicletta). Eletto sindaco come ex radicale, ex verde, a Roma nel 1993 Rutelli dava l’impressione del nuovo in agguato. Eravamo in piena Mani Pulite, e ci sembrava (era, ovviamente) una faccia onesta, che per la prima volta potevamo votare “noi”.
Nel 2008 Rutelli sembrava lo zio pedante e rancoroso di quel giovanotto. Una maschera da Vecchio Regime. Io “mi sono turato il naso” e l’ho votato, ma molti altri semplicemente non ne hanno visto la ragione. Tutto qui.
2. Al secondo turno, invece ha pesato in maniera fondamentale quel che la sociologia dei media chiama spirale del silenzio. Elisabeth Noelle Neumann ha individuato questo meccanismo negli anni Settanta (il libro è tradotto da Meltemi, una sintesi della sua teoria si trova in Mauro Wolf, Gli effetti sociali dei media, Milano, Bompiani, 1992, pp. 65-78) e si può riassumere in una formula:
una porzione rilevante del pubblico comincia a credere vero quel che crede che gli altri credano.
In pratica, la vittoria di Berlusconi ha fatto sì che molti, a Roma, abbiano cominciato a pensare che “forse Alemanno ce la può fare” e tra gli indecisi questo si è presto tradotto in “Alemanno vincerà le elezioni”. Dato che per molti tra questi soggetti indecisi un fattore fondamentale di scelta del voto è la gratificazione di aver votato per la parte “giusta” (cioè per chi ha vinto), convinti che avrebbe vinto Alemanno, hanno votato per Alemanno per poter dire (in cuor loro più che pubblicamente) di essersi schierati dalla parte del vincitore. Noelle Neumann racconta come scoprì sulla sua pelle questo meccanismo alle elezioni tedesche del 1965: aveva previsto (sondaggi alla mano) un testa a testa tra Cristiano Democratici e Socialdemocratici, ma i primi vinsero con oltre 10 punti di scarto (do you remember?) perché quasi tutti gli indecisi, una volta che cominciò a consolidarsi silenziosamente l’idea che avrebbero vinto i Democristiani, votarono effettivamente per quelli che loro erano sicuri avrebbero vinto, e che con il loro comportamento in effetti vinsero. Dico che per Alemanno è valsa la stessa regola.
Ci tengo a proporre questa mia interpretazione degli ultimi fatti elettorali anche per dare qualcosa da pensare ai Democratici che non sia semplicemente come affrontare la “questione sicurezza”. Certo, avrà avuto un suo peso, ma non quanto l’effetto Rutelli e la spirale del silenzio. Magari la prossima volta propongono un candidato scelto con le primarie e organizzano la campagna elettorale su temi loro, senza andare a rimorchio di quelli del rivale. E senza fare a gara a chi ce l’ha più duro con gli immigrati.
Non è serio ciò che è serio, è serio ciò che si studia seriamente
Spero di essere il primo a dare la notizia. Sull'ultimo numero di Media, Culture and Society, una rivista molto seria e apprezzata, è stato pubblicato il seguente articolo: Headlining the head-butt: Zinedine Zidane/Marco Materazzi portrayals in prominent English, Irish and Scottish newspapers, che tradurrei così: Titolando la testata: la rappresentazione del caso Materazzi/Zidane nei principali giornali inglesi, irlandesi e scozzesi.
Non l'ho ancora letto, ma sfoggia una bibliografia sterminata e me lo tengo buono per zittire i miei critici quando racconto loro che, tra le varie cose, mi occupo per ragioni di ricerca anche di Maria de Filippi. Tiè.