Tra poco iniziano i miei corsi di Antropologia culturale a Tor Vergata (al Trinity College siamo invece già alla terza settimana di lezione) e si riapre il rovello di condensare in trenta ore il senso di una disciplina bulimica e contraddittoria. Gli antropologi possono veramente dire tutto e il suo contrario, quanto a contenuti, ma se devo pensare a una radice metodologica che ci accomuna potrei sintetizzarla nel titolo di questo post, vale a dire nello stare all'erta, nello scrutare sintomi che possono essere letti come indizi di qualcosa più grande, di qualcosa che ancora ci ostiniamo a chiamare cultura.
La foto qui a fianco, ad esempio, condensa (almeno per chi pretende di saperlo leggere) un intero ethos culturale (non scrivo Weltanschauung solo perché ho sempre dei dubbi sull'ortografia delle parole tedesche).
Si tratta di un piccolo gadget da macchina, una finta gruccia che si appende a ventosa sul lunotto posteriore, per avvisare gli altri automobilisti che c'è un "bimbo a bordo" e quindi si pretende la pazienza e la correttezza necessarie a sopportare una guida magari non particolarmente scattante.
1. I genitori sentono l'urgenza di comunicare agli altri di essere genitori: se non mi senti più sgommare, se evito le derapate e i testacoda, sappi che la cosa dipende dal mio stato di maturazione sociale. Mi sono riprodotto, non ho più bisogno di esporre le mie gonadi in atti bellicosi di aggressività stradale, capisciammé: sono un Adulto, ho dei Doveri, il Principio di Realtà si è imposto in forma di seggiolini e pannolini, non ho più tempo da perdere a fare a chi ce l'ha più lungo (ce l'ho più lungo io, ovvio).
2. Questa esternazione pubblica del compimento dei Rito di passaggio alla genitorialità è del tutto recente, mentre non lo è l'atto di essere padre o madre e di scorrazzare la prole in macchina. I miei mi facevano viaggiare sul sedile anteriore, appena dietro la leva del cambio, perché eravamo una marea di figli e non ci si stava tutti sui sedili posteriori. E ai miei non è neppure passato per la mente di rendere pubblico questo loro ruolo sociale di autotrasportatori del proprio DNA. Non si era ancora affacciata l'idea che un genitore sia una chioccia iperprotettiva che deve, lancia in resta, proteggere il suo cucciolo dalle brutture del mondo. All'epoca in cui ero figlio, i figli, oltre che piezz'e core erano pezzi del mondo, li si poteva controllare fino a un certo punto.
3. Ma poi, forse già alla fine degli anni Settanta, sono iniziati a circolare gli adesivi "bimbo a bordo", a invocare la pietà delle altre macchine. La novità, allora (ti annuncio che tengo famiglia) era ancora di tipo generico, mentre ormai da anni l'anagrafe dei lunotti è dettagliata: Attenzione, Carletto, Sabrina, Micol, Manfredi a bordo. Questo salto del livello di personalizzazione è significativo dello stesso percorso di privatizzazione della genitorialità: ma cosa pensi, che io sono UN genitore? Che magari ho UN figlio o UNA figlia a caso, come fossero tutti uguali e intercambiabili? No, tu mi porti rispetto perché io ho Davide (Carlotta, Filippo, Giovanna) a bordo, vale a dire una persona talmente unica che la posso nominare pubblicamente senza timore di fraintendimenti.
4. E in effetti, la nominazione dei figli ha seguito questo percorso ultra-specifico, per cui una qualità essenziale del nome è la sua potenziale unicità. Chiamalo Attila, o Artù, Teodolinda o Selvaggia, basta che siano gli unici della loro specie, almeno in quartiere, almeno a scuola. La statistica ci spiega che è un gioco a perdere, perché se tutti evitiamo i nomi delle nonne finiremo per chiamare le figlie Rebecca (come ho fatto io il nel 2001) senza renderci conto che i vicini di casa facevano esattamente lo stesso gioco, vanificando l'obiettivo iniziale e dando la stura alla proliferazione degli Ethan e delle Elettre (al punto che conviene oggi chiamare la neonata Maria e il neonato Giuseppe, se si vuole essere certi che il loro nome sia unico nel circondario).
5. Nei nomi dei figli troviamo quindi oggi non più la sedimentazione di una linea genealogica (mio cugino Salvatore, che mi ha passato la foto, è figlio di Paolo, figlio di Salvatore, figlio di Paolo, e penso che si possano ipotizzare con facilità i nomi degli antenati precedenti) ma piuttosto la condensazione di immaginari che perseguono gli stessi tortuosi percorsi collettivi di privatizzazione individuale: peschiamo dall'immaginario collettivo e, ognuno come cavolo ci pare, tiriamo giù dall'archivio la connessione che più ci attizza, il simbolo che più ci si confà, la narrazione più vicina ai nostri stati d'animo (con il problema già indicato, che ci sentiamo unici nel fare questo, ma il materiale da cui peschiamo è per forza disponibile anche ad altri, con il rischio che la scelta finale sia la stessa).
6. Kevin Pio è una mossa geniale perché incrociando due campi semantici in gran parte distinti (Hollywood e il Cattolicesimo tradizionale italiano) riduce moltissimo la possibilità di omonimi. Ma a chi altri, nel mondo, veramente, sarà mai venuto in mente di chiamare il figlio con il nome di un belloccio americano che ballava coi lupi e di un santo italiano con le mani bucate dalle stigmate? Un nome del genere ci dice intanto quali sono due sorgenti essenziali di questo immaginario sedimentato nei figli: la macchina dell'immaginario mediatico, e la più antica istituzione europea nella sua versione ultrapop. Kevin Costner balla coi lupi, si sa: ci dice che possiamo ancora avere un rapporto armonioso con la Natura, che in quella Natura troveremo almeno Alzata Con Pugno, una di noi ma anche parte di quella Natura. Padre Pio invece ci dice che oltre le gonne (del prete) c'è di più, che il rito stantio del Cattolicesimo ha ancora una forza sciamanica, che il mondo, nonostante Weber, è ancora passibile di incantamento, che non siamo condannati al cieco cinismo del secolarismo laicista. Che a noi personalmente può anche fregare poco (basta che c'è la Maggica e il mondo è già incantato a sufficienza) ma per il nostro virgulto ci aspettiamo un Mondo Sensato. E poi, non sia mai che si butta via la Protezione di un tipo tanto potente da fare veramente i miracoli.
7. E così, nel lunotto di un'auto parcheggiata l'antropologia ci trova condensate un sacco di "cose culturali": cosa vuol dire essere un vero adulto e un buon genitore; cosa intendiamo oggi per individuo; quale idea abbiamo del nostro rapporto con la Natura; addirittura cosa Crediamo nel senso più impegnativo del verbo. Certo, non sono concetti culturali esposti con la compiutezza di un saggio o di una riflessione pubblica consapevole, sono solo fugaci accenni, poco più che scarabocchi che potrebbero non significare nulla ma dentro i quali noi antropologi cerchiamo di trovare un senso. E a chi dice che queste cose non contano nulla, che le determinanti del vivere associato sono ben altre, io posso solo rispondere usando i miei strumenti: pensate che effetto vi farebbe se il piccolo Kevin Pio si fosse chiamato Mao Marchionne oppure Francesco Paperone. Tutti vi vedreste un sovraccarico di senso e comincereste a indagarlo. Questo fa l'antropologia, sempre: crede che quel sovraccarico culturale ci sia in ogni azione e sedimento culturale, e prova a inseguirne le tracce anche se si tratta solo di un piccolo gadget nel lunotto posteriore di un'auto parcheggiata.