La Cina, si sa, ama il controllo. Non solo quello dei confini, delle minoranze etniche, del cyberspazio e delle videocamere negli androni di casa, ma anche quello delle reincarnazioni. Pare incredibile ma è così: Pechino rivendica il diritto di decidere chi sarà il prossimo Dalai Lama, una volta che l’attuale (Tenzin Gyatso, nato nel 1935) passerà a miglior karma. Non è una barzelletta, è dottrina ufficiale dello Stato. Con tanto di “Urna d’Oro”, antica reliquia del potere imperiale, oggi ripescata a uso del Partito Comunista per legittimare decisioni mistiche come se fossero bandi di concorso pubblici.
Il Dalai Lama Lama in carica, 89 anni e una discreta
esperienza nel campo delle anime migranti, ha detto chiaro e tondo che i
cinesi possono tranquillamente reincarnarsi tra loro, ma che sulla sua
prossima manifestazione terrena deciderà solo il Gaden Phodrang Trust, l’ente
spirituale tibetano. E ha già fatto capire che potrebbe anche reincarnarsi
fuori dal Tibet, tanto per complicare un po’ le cose ai funzionari dell’ufficio
reincarnazioni del Partito.
Ora, immaginiamo il contrario. Immaginiamo che Israele,
così per sport, rivendichi il diritto di partecipare alla nomina del Gran
Muftì di Gerusalemme. Motivazione storica: l’ultimo Muftì veramente famoso
era alleato di Hitler. E forse, per questa volta, si potrebbe dare un’occhiata
ai curricula.
Immediata reazione globale: “Inaccettabile
intromissione!”, “Sacro suolo musulmano!”, “Colonialismo mistico!”. Titoli
indignati, petizioni su Change.org, dibattiti in prima serata con
teologi da talk show.
Conclusione: Pechino può guidare le anime tibetane
dall’aldilà. Teheran può dispensare benedizioni scelte. I sunniti possono
eleggersi anche il Custode delle Chiavi dell’Ascensore Mistico. Ma se Israele
osa alzare un sopracciglio sulle guide religiose che lo vogliono distruggere...
apriti sesamo.
E le reincarnazioni, per oggi, vanno in archivio.
Domani si decide la linea di reincarnazione del prossimo Papa. Ma solo se
gradito al Politburo.