Gian Antonio Stella da qualche tempo scrive pezzi sul Corriere per denunciare lo stato di cose dell’Università. Fa bene. Ma il pezzo di oggi è mirato male. Non ha senso confrontare il numero di professori ordinari italiani sotto i 35 anni (che sono 9 in tutto) con i “cattedratici” stranieri. Per il semplice fatto che i “cattedratici” non esistono. Nel mondo anglosassone si è lecturer a vari livelli, e professor a vari altri. Nel mondo francese si può essere Maître de conférence, Directeur de recherche e molto altro ancora. Insomma, non si capisce quale sia il confronto fatto.
La situazione italiana è incresciosa perché esistono professori a contratto pagati nulla (veramente nulla: 350 euro per un modulo di 32 ore sono un’offesa, non un compenso) che devono fare altro per campare.
La situazione italiana è disperata perché la nebulosa dei contrattisti e assegnisti ruota attorno a un nucleo di incardinati (posto fisso) che non hanno alcun obbligo e che preservano il posto comunque, indipendentemente da quello che fanno.
La situazione italiana è disperata perché sempre “entrare all’Università” è come essere assunti in un qualunque ufficio di un qualunque Ministero, senza nessuna verifica sulla qualità della didattica o della ricerca, e senza che l’attività svolta effettivamente modifichi in alcun modo il livello del compenso e le possibilità di carriera.
Lo dico ora, che da una settimana sono “ricercatore a tempo determinato” (contratto di quattro anni), dopo sette anni passati tra assegni di ricerca e docenze a contratto. Non voglio il posto fisso (quello se lo tengono stretto quelli che già ce l’hanno, lanciando campagne corporative imbarazzanti spacciate per lotta politica) ma vorrei solo che il mio lavoro fosse valutato e comparato. Ecco cosa va male nell’Università italiana.
E poi non c’entra nulla che Renzo Piano progettò il Beaubourg a 34 anni o che Bill Gates fondò la Microsoft a 30: non erano professori universitari, e la progettualità e la capacità imprenditoriale non sono doti indispensabili per chi fa ricerca e didattica. Per un Fermi che prese il nobel a 37 anni basterebbe citare un Kant che scrisse le sue opere più importanti dopo i 45.
Insomma, non mancano le forze nuove in Italia, ma il riconoscimento del loro valore, quando c’è.