Elie Wiesel, scrittore premio nobel per la pace, è stato aggredito da un negazionista qualche giorno fa nell'ascensore dell'albergo dove alloggiava, a San Francisco. Un giovane (tale Eric Hunt), secondo la ricostruzione di Wiesel, gli si è avvicinato "prentendendo" con la forza di intervistarlo. Al suo rifiuto Hunt ha messo in atto il tentativo di portarlo a forza nella sua stanza, tentativo da cui ha desistito dopo che Wiesel ha iniziato a invocare aiuto.
Di questo spiacevole incidente mi ha colpito in particolare la motivazione: "I negazionisti esistono in tutto il mondo e la mia regola è sempre stata di non concedere loro l'onore di un dibattito, perché li considero moralmente malati. Per questo mi odiano".
In sostanza, dice Wiesel, la sua strategia è quella di negare ai negazionisti uno spazio di discussione pubblica. Attenzione, non si tratta di un divieto di parola, ma di una sanzione morale che li nega come interlocutori legittimi. Parlate pure, dite quel che vi pare a chi vi pare, ma non avrete mai l'onore di parlare "con me".
Chissà se in questo stile comunicativo si può rinvenire qualche spiraglio tra il monologo delle dittature e la cacofonia dello sbragamento politically correct. Così, a spanne, sembra un criterio interessante. Pensiamo a come si potrebbe applicare nel mondo della comunicazione di massa. Come direttore di giornale, non pretenderei certo che la realtà sociale si uniformi ai miei giudizi e ai miei criteri di moralità, ma potrei semplicemente dire: nel mio giornale certe opinioni non voglio che abbiano spazio, per non concedere credibilità morale a chi le emette.
Esempio pratico: sullo stesso numero del Corriere della Sera che riporta la notizia di Wiesel si riportano le interviste ad alcuni conoscenti dell'adolescente catanese accusato di essere l'assassino dell'ispettore Filippo Raciti. Tra queste la voce di Salvo, 16 anni: "Ma quale ultrà? È uno bonaccione"; e quella del gestore del locale dove sono state raccolte le interviste: "Sono picciriddi e lui era il più debole del gruppo. Comunque sono tutti figli di lavoratori e gente onesta. Niente malavita. Gli ultrà pericolosi sono da altre parti". Forse, ma dico forse, un direttore di giornale che provasse a usare la strategia di Wiesel dovrebbe assumersi la responsabilità di non pubblicare cose del genere, perché "moralmente malate". Certo, quella che per un editore privato di contenuti potrebbe risultare un'opzione morale forse anche vantaggiosa come strategia di marketing (quanti sceglierebbero felici un giornale sapendo che lì, poniamo, non si citano mai gli interventi di Mario Borghezio o di Vittorio Sgarbi, per fare un paio di esempi al volo?) porrebbe dei seri problemi per il servizio pubblico, ma visto che buona parte dell'informazione è in mano ai privati, tanto vale pensarci. Un patto con gli utenti del tipo: "Sieti adulti e senzienti, se volete leggere/vedere schifezze su questo tema e quest'altro non avete che da accomodarvi altrove. Mica vogliamo impedire a chiunque di dire sconcezze e a chiunque di esserne utente, ma noi preferiamo fare altro". Io dico che un patto del genere reggerebbe.