Venerdì scorso (9 febbraio) era ospite a Ventotto minuti Anna Maria Mori, figlia di profughi istriani, che presentava il suo libro Nata in Istria (Rizzoli). Durante l’amabile conversazione con Barbara Palombelli parlava delle bellezze dell’Istria e delle bruttezze dell’esilio. “Quelle terre che - possiamo dirlo? Massì possiamo - sono nostre”. Queste (a memoria mia) le parole della conduttrice.
Se le parole di Napolitano sono benvenute e benedette, perché offrono un conforto a cuori maltrattati per decenni, non credo che questo ci autorizzi a dire che quelle terre “sono nostre” se, come sembrava dal contesto, si tratta di una rivendicazione nazionale.
Il dramma di troppe terre come l’Istria è stato quello di non veder riconosciuto da un certo momento in poi il proprio carattere multiculturale e meticcio. Aree come la Macedonia, l’Irlanda del Nord, i Paesi Baschi, il Kosovo, la Bosnia sono costitutivamente molteplici e multiformi, attraversate dalla diversità (di volta in volta linguistica, culturale, religiosa, “razziale”, o un insieme di queste variabili), ed è quando questo dato di fatto è stato negato (spesso prima dagli stati “proprietari” e poi dai gruppi maggiormente presenti in determinate fase storiche) che sono successi i peggio casini.
L’Istria era una regione in cui convivevano tradizioni culturali slave (di lingua slovena e croata) e italiche (di lingua veneta) e se è vero che le città più importanti avevano nomi italiani ciò dipende dal fatto che la stratificazione sociale coincideva con quella etnica, per cui salire lungo la scala sociale significava anche cambiare quadro di riferimento culturale. Dato che una certa cultura urbana e imprenditoriale si era sedimentata durante il possesso veneziano, urbanizzarsi e passare dalla condizione di contadino a quella di commerciante implicava di fatto un processo di italianizzazione. Viceversa, scendere lungo la scala sociale era inevitabilmente collegato a una progressiva slavizzazione culturale. Sono innumerevoli gli esempi storici di questi passaggi culturali associati a un cambiamento di status sociale, che a noi sembrano particolarmente strani perché siamo cresciuti (quasi sempre inconsapevolmente) dentro la religione delle radici culturali, che ci sembrano un dato di fatto immutabile (ma aspettiamo che prenda veramente piede la retorica del Dna, e poi vedremo che succederà).
L’Istria è vissuta di questo, l’Istria è stata questo per diversi secoli: una terra in cui nelle città tutti sapevano parlare il veneto e un po’ la lingua dell’altro perché l’altro spesso non era poi così lontano (a volte era parente dimenticato) e nelle campagne si parlavano lo sloveno e il croato sperando spesso di poter imparare un po’ di veneto. Dire, oggi, che quelle erano “terre nostre” rischia di nutrire una nostalgia rancorosa che non serve a nessuno, né a chi ha sofferto il dramma delle morti, delle fughe e dell’esilio, né a chi è rimasto cercando di dimenticare, né ai nuovi arrivati spostati dalle aree orientali della Jugoslavia da Tito per de-italianizzare la regione in modo definitivo e che comunque sono lì da sessant’anni e non si capisce perché, dopo tanti anni, ormai nati e cresciuti nell’Istria jugoslava e poi slovena e croata, dovrebbero sentirsi ospiti sulla terra di qualcun altro.
Come sempre in questi casi, il confine tra il cinismo politico da un lato (il negazionismo di cui parla Gianni Cervetti sul Corriere del 12 febbraio) e il furore nazionalista dall’altro (che nessuno spazio di legittimità aveva lasciato agli “slavi” nell’Istria italiana) è flebile e sottile, e bisogna passarci dentro senza farsi pizzicare dall’orgoglio o dal calcolo, per arrivare a capire davvero il dolore dei popoli esiliati, senza per questo mettersi a giocare agli apprendisti stregoni con le alchimie dei confini politici. L’Istria, vivaddio, non è “terra nostra” in quanto italiana, è terra di dolore che appartiene agli individui che l’hanno costruita, calpestata, coltivata, amata, senza dare precedenze a una lingua o all’altra, a uno stato o all’altro. Benedetta l’Unione Europea, da questo punto di vista: appena anche la Croazia vi farà ingresso, potremo tutti dire che l’Istria è “cosa nostra”, di noi Europei.