Ho seguito con apprensione la vicenda di Pasque di sangue fin dalla prima recensione/ anticipazione di Sergio Luzzatto ormai diverse settimane fa. Non ho detto nulla della decisione di Ariel Toaff di ritirare il libro, un po’ per la mia cronica carenza di tempo, un po’ perché mi sembrava il caso di rispettare anche con il silenzio una decisione sicuramente sofferta. Siccome ne torna a parlare Luzzatto sul Corriere di oggi, per sollevare una questione più generale, provo a sintetizzare la questione per come l’ho vista fino a questo punto.
Uno storico rispettato nella sua comunità “scientifica” e con tutti i quarti di nobiltà a posto in quella “etnica” manda alle stampe un saggio che mette in crisi l’immagine ortodossa del popolo cui appartiene.
Travolto dalle critiche pregiudiziali (non potevano che essere tali gli anatemi lanciati prima di poter leggere il libro, che ancora non era uscito) e dal rischio serio di perdere non solo la faccia, non solo la stima, ma anche il lavoro, Toaff decide di ritirare il libro e di chiedere scusa agli ebrei di Israele e del mondo. Leggo che Elio Toaff avrebbe commentato così la decisione del figlio di studiare un argomento tanto scabroso: “Non è parlando di sciocchezze come queste che si salvaguarda la vera essenza dell’ebraismo”.
Chi mi conosce professionalmente sa che appizzo immediatamente le orecchie quando sento parlare di “vera essenza”, soprattutto se contrapposta, come in questo caso alle “sciocchezze”. È una tipica accusa rivolta agli antropologi (soprattutto quelli con una vocazione al vernacolo, al rimasuglio, al locale, al rurale) quella di occuparsi di sciocchezze “inessenziali”, e trovo estremamente interessante che questa volta l’accusato sia uno storico, in un dramma para-edipico dai contorni difficilmente delineabili nella loro interezza.
Mi basta dire che se la questione dei sacrifici umani rituali nel quadro dell’ebraismo medievale fosse stata veramente una sciocchezza, non si sarebbe montato tutto questo caso. E che forse ha ragione Michael Herzfeld quando insiste che è proprio su inessenzialità come queste che si fonda l’intimità culturale (e quindi una porzione non trascurabile dell’identità) di una comunità.
Resta il fatto doloroso di una ricerca storica condannata alla salvaguardia dell’onore etnico. Un onore, paradossalmente, che può rimanere integro solo se rimane intonsa la figura sacrificale dell’ebreo. Strano destino di un popolo, vittima per lungo tempo, che si vorrebbe vittima sempre, prima e al di là di qualunque analisi storica. La vittima necessaria. Se questo sta bene al Dio di Isacco, mi chiedo che ne pensa il Dio di Abramo.