Mjtia, 9 anni, di Berlino, viene sequestrato da un uomo mentre va a scuola in tram. L’uomo lo porta a casa sua, lo violenta e lo uccide. Dopo una caccia forsennata, la polizia riesce a catturare il mostro (non c’è un’altra parola, in questo caso) che tenta di ammazzarsi buttandosi sotto un tram, quasi a voler finire lì dov’era iniziata questa storia spaventosa per chiunque, e forse un po’ di più per chi abbia figli.
Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente.
Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride.
Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi...
L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile. Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e sorridente del bambino veniva devastato dalla paura.
La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.
Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa, che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso.
Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.