Voskopoji è un villaggio oggi piccolo e povero. Fiorente centro valacco fino a fine del Settecento, fu distrutto dal governo turco quando l’autonomia culturale di cui godeva minacciò di diventare anche amministrativa. Oggi della vecchia città non restano che rovine. Siamo andati a Voskopoji perché il 24 giugno, san Giovanni, si celebra una grande festa cui partecipa tutto il paese e gente che viene dai villaggi vicini. Festeggiano anche se la gran maggioranza della popolazione è musulmana. Stavamo nella casa dei suoceri di un cugino di Ylber, Medo, che era venuto con noi assieme alla moglie, Monda, e ai tre figli Marin, Edwin e Belinda. Dopo essere stati accolti dai suoceri di Medo a suon di raki (la bevanda nazionale, una grappa profumatissima e ad alta gradazione, ottenuta dalla distillazione di una prugna locale, bevanda che consumano anche a pasto), siamo andati a fare un giro in paese. Ero particolarmente colpito dall’evidente povertà del posto e cercavo tra me e me qualche possibile paragone con i posti più miseri che avevo visto di persona. (Cercavo anche di far andare d’accordo il raki con le mie gambe.) Per la strada, Medo si ferma perché vuole salutare un amico. Ci viene incontro un vecchio, dell’età apparente di 65-70 anni. E’ vestito con abiti logori e anche se fa ancora caldo (siamo a 1200 metri sul mare, ma di giorno il sole picchia duro) indossa sopra la camicia un golfino di lana blu che mi ricorda quelli che vedevo indossati dagli zii di mio padre, in campagna, quand’ero bambino. Ha in braccio un moccioso di circa un anno. Ci si avvicina e già mi aspetto i soliti rituali, con Gilles pronto a fare da interprete e Medo a far gli onori. Mentre sono già pronto a tenermi in disparte e ad ascoltare una conversazione di cui non capirò nulla, il vecchio, appena saputo che Gilles è francese gli si rivolge con cortesia nella sua lingua. Poi anche a me parla in francese e mi chiede di dove sono. Io dico di essere Italiano, di Venezia. “Ah, Venezia! - attacca lui nella mia lingua - e come mai vi trovate da queste parti?”. Come uno stupido, rivelo tutto il mio stupore, cosa di cui certo un po’ si compiace, e gli chiedo dove ha imparato la mia lingua. In un italiano pulitissimo, senza inflessioni e dal suono antico (userà sempre il “voi” per rivolgersi a me, e io contraccambio volentieri questa forma di rispettosa cortesia) mi racconta che nel 1939, dopo aver fatto due anni alla scuola francese, con l’arrivo degli Italiani, ha seguito i corsi del ginnasio italiano. E’ stato in Italia, a Rimini, per tre mesi. Dopo la fine della guerra non ha più parlato la nostra lingua con nessuno, ma ha conservato qualche libro e ascoltava la radio di nascosto, quando poteva. Suo padre, per le sue idee politiche, è stato perseguitato prima dai fascisti e poi dal governo albanese. Lui ha accettato il suo ruolo di intellettuale e per 34 anni ha insegnato matematica ai ragazzini del paese, dove è rispettato e amato da tutti. Ora, in pensione, si prende cura del nipote, il figlio del suo primo figlio, che lavora in Grecia con la moglie. L’altro figlio, invece, è in Italia, a Riccione, ha il permesso di soggiorno e lavora in una fabbrica. È venuto in Italia con la grande ondata del 1991, con i disperati delle navi cariche di centinaia di persone. È stato lui, il vecchio Dhori, a convincere il figlio ad andare a Durazzo e imbarcarsi sulla prima nave per Brindisi, dato che in Albania non c’erano speranze.
Gli ho chiesto cosa ne pensa del suo paese, adesso. Mi ha risposto che la miseria per certi aspetti è peggiore di prima: “Ma io sono contento, perché adesso posso dire quello che penso”, e ricordo perfettamente il lampo nei suoi occhi mentre mi diceva questo. La dignità di chi ha piegato la testa perché non c’era altro da fare, ma non ha dimenticato cosa vuol dire vivere. Mentre eravamo in un bar a bere qualcosa tutti assieme avevo, letteralmente, la pelle d’oca nell’ascoltare quest’uomo, in un villaggio miserabile in mezzo ai monti albanesi, raccontarmi col suo italiano libresco e forbito alcuni cenni della sua vita. Continuo ad essere un ingenuo, a commuovermi, a stupirmi, ma di fronte a persone come questa, spero di non perdere mai questo vizio. Avrei voluto avere più tempo, per ascoltarlo. Non c’era nel mio atteggiamento nessun gusto per l’esotico. Ho sentito tante di quelle volte mia nonna (fiera dei suoi 90 anni) raccontarmi le storie della sua infanzia che mi ero completamente dimenticato qualsiasi riferimento ai risvolti antropologici della nostra conversazione. Io ero semplicemente imbambolato ad ascoltare. Purtroppo il tempo è stato poco, e non l’ho potuto rivedere se non di sfuggita, il giorno dopo, mentre andava alla festa del paese. Con il nipote sempre in braccio, nipote che ormai lo riconosce come padre, dato che i genitori veri non li vede da quando aveva cinque mesi, se ne è andato prima di noi, verso casa, dicendomi che non sa se il suo paese sopravviverà a questa crisi, e che lui non avrà comunque il tempo di vederlo. Ha chiesto a suo figlio in Italia di far di tutto per dare la cittadinanza italiana ai figli che eventualmente nasceranno, perché si rende conto che lo spirito di un popolo dipende in buona parte dalle sue condizioni economiche, e non vede come un paese prostrato come l’Albania possa dare forza ai suoi figli, la forza per continuare in questo difficile mondo. Meglio, ha detto, dimenticarsi per un poco di essere Albanesi, diventare qualche cosa d’altro, Italiani, Francesi o Americani. Solo dopo, quando il paese si sarà ripreso, i nostri figli potranno tornare e si ricorderanno di essere Albanesi, perché, in fondo, non l’avranno dimenticato mai veramente.