Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
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domenica 22 luglio 2007
Albania 4: La chiesa di Voskopoji
(giugno 1995) Ho già accennato alla povertà di Voskopoji. Il paese attuale è fatto di case sparpagliate, senza un centro riconoscibile se non uno spiazzo con le rovine di qualche edificio del regime e un monumento che ricorda i partigiani uccisi dai nazi-fascisti durante la seconda guerra mondiale. Conserva però un segno del periodo passato, di quel mitico “una volta” che ho sentito sempre nelle conversazioni con le persone che ho incontrato. E’ un “wongar” (mi pare che De Martino chiami così questo tempo mitico nel saggio che sta in appendice al Mondo Magico, ma non importa se non è così) che a volte è localizzabile nel periodo che va tra il 1912, anno dell’indipendenza dai Turchi, e l’inizio della seconda guerra mondiale, e altre volte si sposta più indietro. Per Voskopoji questo tempo che viene chiamato “una volta” si identifica con la fase di maggior splendore della città vecchia, subito prima della distruzione turca alla fine del XVIII secolo (chiedo scusa per il tono didascalico, ma cerco solo di contestualizzare le mie emozioni, dato che io le ho vissute mentre Gilles, Ylber, Medo e gli altri mi raccontavano queste cose). C’erano dodici chiese all’epoca. Alcune sono state distrutte dai Turchi, ma la maggior parte sono state trasformate in granai e magazzini quando l’ateismo divenne religione di stato. Solo una chiesa (che è dedicata a S.Nicola, se ricordo bene) per ragioni misteriose non è stata assegnata a questo compito ed è stata semplicemente chiusa e abbandonata. Dopo il ‘91 è stata riaperta. Ho potuto visitarla la prima sera. Con Gilles e Medo siamo andati a portare il saluto al prete del villaggio, che però si era già spostato alla chiesa di S. Giovanni per preparare la celebrazione del giorno seguente. Allora ci ha accompagnato alla chiesa la sua giovane figlia, assieme al marito. Alle undici di sera ha preso le chiavi e ci ha aperto il portone, illuminando la chiesa con quel poco di luce elettrica di cui il villaggio dispone. E’ una chiesa del Settecento, completamente affrescata: non c’è un centimetro delle pareti e della volta che non racconti la storia di qualche santo, o qualche passo della storia sacra. Solo vicino all’altare maggiore ci sono dei buchi che ti guardano come le orbite di un teschio: sono gli spazi occupati dalle icone, depredate al tempo dell’ateismo di stato e vendute sottobanco in Grecia e in Italia. La chiesa è bellissima e in completa rovina. Come ho messo il piede dentro ho sentito rimbombarmi in testa un unico, enorme, verissimo: “Una Volta”. Tutto ripete queste frase: gli affreschi scrostati ma ancora in grado di mostrare la loro bellezza, il pulpito in legno lavorato con perizia e mangiato dai tarli, i buchi neri delle icone depredate. Se il rito è anche una riattualizzazione del mito, questa chiesa non ha bisogno di funzioni religiose per assolvere il suo compito, è in se stessa un rito, ricorda, risveglia la ferita, è il sale, che non saprò mai se disinfetta o se fa marcire definitivamente. Finché ci saranno chiese come quella di Voskopoji, l’Albania avrà di che soffrire e di che sperare. È un bene o un male — direbbe Ylber — questo groppo inscindibile di dolore e aspettativa, di deserto e miraggio? Ancora una volta, abbasso gli occhi e so che ogni risposta sarebbe volgare, o presuntuosa.