Con il mignolo si suonano gli accordi di settima sulla chitarra e ci si toglie il cerume dalle orecchie: la sua ambiguità morale sta tutta racchiusa in questa contrapposizione, uno strano oscillare tra cura preziosa per il dettaglio e sbadata noncuranza.
Il mignolo è analogo nella funzione alle sue dimensioni: con il mignolo ci si occupa delle cose piccole, o delle minuzie, o delle banalità, il che non è esattamente lo stesso.
Molte delle cose che diciamo e che scriviamo (e che leggiamo e che ascoltiamo, ovviamente) sono cose “piccole” non per le loro dimensioni, ma per la pochezza del nostro impegno in esse. A tutti è capitato di dover dire qualcosa per forza, di “aprire la bocca e dargli fiato”, o di mettersi alla tastiera del computer e dover riempire una cartella a tutti i costi. Molte volte, quel che ne è uscito è un pastone un po’ indigesto, figlio soprattutto della fretta di liberarsi di una scocciatura, proprio come si getta con noncuranza la pallina di cerume che il mignolo ha raccolto in fondo all’orecchio.
Ma quando lavoriamo con attenzione, quando usiamo la cura amorevole per il dettaglio, quando il pezzo viene letto e riletto, limato e sistemato perché comunichi veramente il nostro pensiero, allora ci serve la cura del mignolo per scovare quel piccolo difetto nell’angolo, e ci serve la sua precisione per andare al punto, come sulla tastiera della chitarra quel piccolo dito ci dà il sapore finale di un accordo.
Scusate se, alla fine di questo vocabolario, torno ancora alla mia disciplina, l’antropologia culturale, ma credo che sia un buon esempio di applicazione della morale del mignolo. Non mancano i testi di antropologia scritti con quella che io chiamo “la fretta da concorso” e lo si vede nelle pagine gonfie di banalità. Ma se vi capita tra le mani un buon saggio di antropologia, allora potrete assaporare fino in fondo cosa significhi prendersi cura del dettaglio in apparenza inessenziale, nel tentativo di restituire a chi legge la ricchezza dell’esperienza etnografica.
L’antropologia culturale è, nel bene e nel male, il dito mignolo delle scienze sociali, in grado di perdere tempo con minuzie poco rilevanti ma anche capace di colpire al cuore della realtà, cogliendone i nervi scoperti, per quanto ben occultati.
Come consigli finali di lettura, vi propongo quindi due libri di antropologia che secondo me incarnano al meglio questa attenzione per la cura delle piccole cose senza mai cadere nella verbosità del dettaglio inutile. Il primo è Antropologia interpretativa di Clifford Geertz, pubblicato dal Mulino, un libro che con l’idea di “descrizione densa”, e con il racconto di un combattimento clandestino di galli, ha posto le basi per una nuova dignità della ricerca etnografica, che nel frattempo è divenuta un approccio metodologico condiviso da molte scienze umane. Il secondo libro invece è Sentimenti velati di Lila Abu-Lughod, pubblicato da Le Nuove Muse, un libro che racconta con grazia e attenzione il ruolo della poesia in una società beduina. Vedete, combattimenti di galli, poesie improvvisate tra un gruppo di beduini dell’Egitto: si tratta di piccoli temi, di argomenti veramente “minuscoli”, ma presentati con tale cura per il dettaglio che riescono a dirci molte cose anche su di noi, sulla nostra concezione della persona, dell’amore e dell’onore.
A questo punto, concluso il nostro viaggio assieme, come si fa alle stazioni o nei porti, quando si è ormai lontani dalla persona che si sta per salutare e le parole non servono più a molto, raccolgo le cinque dita di cui vi ho parlato, agito la mia mano nell’aria e vi saluto.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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venerdì 28 novembre 2008
giovedì 27 novembre 2008
Anulare (con l'acca al centro 4/5)
L’anulare è il dito di cui più facilmente scorgiamo la faccia simbolica. Come tutti sappiamo, gli antichi credevano che una vena giungesse lì direttamente dal cuore, per cui è divenuto il dito che riceve l’anello, il legame dell’amore. Quando parliamo di anulare, allora, dobbiamo parlare dei legami, vale a dire delle relazioni tra gli esseri umani.
Non esiste probabilmente una parola che meglio di “legame” incarni quel che sto cercando di dire in questi giorni, cioè l’intima ambiguità morale delle parole. Legame è assieme la scelta e la condanna, il massimo della libertà e il massimo della costrizione.
L’anello che poniamo al dito è perfettamente rotondo, e in questa sua forma (ovviamente funzionale) incarna anche l’annullamento del tempo (che non dovrebbe consumare l’intensità del sentimento) e la simmetria che si vuole regga il rapporto: le due persone legate dall’anello sono parimenti impegnate, parimenti coinvolte. In realtà, sappiamo che l’anulare, con il suo prezioso fardello, serve proprio a illuderci di questa simmetria, che in fondo sentiamo sfuggirci sistematicamente. I legami tra gli uomini sono quasi sempre asimmetrici, non solo per lo scarto di potere che li caratterizza, ma anche, ed è quello che mi interessa, per l’intensità relativa che vi proiettiamo.
Pensate al classico caso della persona che vi tormenta, che vi chiama a casa nei momenti più importuni, perché lui vi considera il suo migliore amico, mentre voi lo ritenete uno scocciatore del quale non riuscite a liberarvi: non c’è nulla di simmetrico in quel rapporto, e l’anello simbolico che lui porta amorevolmente al dito per segnalare il suo legame nel caso vostro si trasforma in una palla al piede.
Il fatto è che non possiamo stare nel cuore delle persone, come non stiamo nelle loro teste, e dobbiamo limitarci a immaginare e sperare che la rilevanza che alcuni hanno per noi sia effettivamente ricambiata. Anche da qui, da questa intrinseca fragilità del legame affettivo, deriva il recente successo del social networking: con twitter, myspace o facebook possiamo letteralmente collezionare “amici” e fingere che la qualità del rapporto dipenda esclusivamente da noi, e non anche dal tempo, dal caso, dalle contingenze.
Mentre le dita che abbiamo visto finora devono la loro ambivalenza alla posizione che occupano nello spazio (il pollice su o giù, l’indice puntato verso le cose o contro le persone, il medio sollevato o disteso), l’anulare non ha posizioni da occupare, ed è il tempo a dargli una direzione etica. Ci sono persone che dopo poco sono colpite da allergie, eritemi, gonfiori, sentono l’anello al dito come il primo segno della schiavitù, e non resistono dal liberarsene, mentre altre trovano in quel legame un conforto profondo, e carezzano l’anello mentre parlano, quasi volessero carezzare la persona che gliel’ha posto al dito. In alcuni casi, quando restano sole per la morte del partner, queste persone ne indossano l’anello, e i due cerchi, che sono stati paradossalmente separati tutta la vita, sono ora avvicinati dalla morte, quasi a ribadire di fronte a tutti l’indissolubilità di quel legame. Per sempre.
Sui legami che gli uomini creano e sul loro significato sociale non posso che rinviare alla lettura di un classico della mia disciplina, vale a dire Le strutture elementari della parentela, pubblicato dal Saggiatore, testo fondamentale di Claude Lévi-Strauss, che proprio domani compirà cent’anni e al quale rivolgo un affettuoso augurio. Che estendo a tutti voi, sperando di incontrarvi nuovamente domani.
Non esiste probabilmente una parola che meglio di “legame” incarni quel che sto cercando di dire in questi giorni, cioè l’intima ambiguità morale delle parole. Legame è assieme la scelta e la condanna, il massimo della libertà e il massimo della costrizione.
L’anello che poniamo al dito è perfettamente rotondo, e in questa sua forma (ovviamente funzionale) incarna anche l’annullamento del tempo (che non dovrebbe consumare l’intensità del sentimento) e la simmetria che si vuole regga il rapporto: le due persone legate dall’anello sono parimenti impegnate, parimenti coinvolte. In realtà, sappiamo che l’anulare, con il suo prezioso fardello, serve proprio a illuderci di questa simmetria, che in fondo sentiamo sfuggirci sistematicamente. I legami tra gli uomini sono quasi sempre asimmetrici, non solo per lo scarto di potere che li caratterizza, ma anche, ed è quello che mi interessa, per l’intensità relativa che vi proiettiamo.
Pensate al classico caso della persona che vi tormenta, che vi chiama a casa nei momenti più importuni, perché lui vi considera il suo migliore amico, mentre voi lo ritenete uno scocciatore del quale non riuscite a liberarvi: non c’è nulla di simmetrico in quel rapporto, e l’anello simbolico che lui porta amorevolmente al dito per segnalare il suo legame nel caso vostro si trasforma in una palla al piede.
Il fatto è che non possiamo stare nel cuore delle persone, come non stiamo nelle loro teste, e dobbiamo limitarci a immaginare e sperare che la rilevanza che alcuni hanno per noi sia effettivamente ricambiata. Anche da qui, da questa intrinseca fragilità del legame affettivo, deriva il recente successo del social networking: con twitter, myspace o facebook possiamo letteralmente collezionare “amici” e fingere che la qualità del rapporto dipenda esclusivamente da noi, e non anche dal tempo, dal caso, dalle contingenze.
Mentre le dita che abbiamo visto finora devono la loro ambivalenza alla posizione che occupano nello spazio (il pollice su o giù, l’indice puntato verso le cose o contro le persone, il medio sollevato o disteso), l’anulare non ha posizioni da occupare, ed è il tempo a dargli una direzione etica. Ci sono persone che dopo poco sono colpite da allergie, eritemi, gonfiori, sentono l’anello al dito come il primo segno della schiavitù, e non resistono dal liberarsene, mentre altre trovano in quel legame un conforto profondo, e carezzano l’anello mentre parlano, quasi volessero carezzare la persona che gliel’ha posto al dito. In alcuni casi, quando restano sole per la morte del partner, queste persone ne indossano l’anello, e i due cerchi, che sono stati paradossalmente separati tutta la vita, sono ora avvicinati dalla morte, quasi a ribadire di fronte a tutti l’indissolubilità di quel legame. Per sempre.
Sui legami che gli uomini creano e sul loro significato sociale non posso che rinviare alla lettura di un classico della mia disciplina, vale a dire Le strutture elementari della parentela, pubblicato dal Saggiatore, testo fondamentale di Claude Lévi-Strauss, che proprio domani compirà cent’anni e al quale rivolgo un affettuoso augurio. Che estendo a tutti voi, sperando di incontrarvi nuovamente domani.
mercoledì 26 novembre 2008
Medio (con l'acca al centro 3/5)
Dopo il pollice (inflessibile ma negoziatore) e l’indice (premuroso ma prepotente) il medio alterna posture volgari e austero equilibrio. Dal mondo anglosassone abbiamo di recente recuperato alle glorie della cronaca anche politica il senso di un gestaccio (il medio sollevato) che ha antichi paralleli italici nelle fiche che il blasfemo Vanni Fucci rivolge contro Dio nel canto XXV dell’Inferno. Il medio alzato è l’improperio, l’insulto, la volgarità incarnata, o incarnita visto che parliamo di dita…
Avrete notato che un gesto formalizzato accompagna molto più facilmente l’insulto che non l’elogio. A una persona si può dire che è buona praticamente rimanendo immobili, ma se gli si vuole dire che è cattiva si accompagnerà la parola con qualche forma codificata di gesto, il gestaccio, appunto. Come se le parole non ce la facessero a contenere tutto il male che si vuole comunicare, e questo esondasse dalla gola al resto del corpo, schizzando fuori come un veleno di scorpione da qualche estremità improbabile, come le dita, l’incavo del braccio, i genitali. Il medio allora ci ricorda che per arrivare all’animo di qualcuno, a volte, è necessario tracimare da noi stessi, esagerare, letteralmente “spararla grossa”, oltre le parole.
Ma se, posto a svettare tra le altre dita, il medio ha questa tendenza grossolanamente esagerata, non appena si pone a riposo tra le sue dita sorelle torna ad essere colui che sta in mezzo, il punto d’equilibrio, l’acconcia misura che non eccede. Il medio è allora l’aurea mediocritas dei latini, la virtus che stava, appunto, in medio.
In questa posizione di mediazione, se si sforza di non essere egocentrico, il dito medio mi ricorda il lavoro dell’antropologo, costretto per sua scelta a starsene a cavallo tra differenze, e cocciutamente proteso a comunicare agli uni la diversità degli altri. L’antropologo, da buon medio mediatore, deve evitare di farsi notare, di svettare come un energumeno, e più modestamente prova a dare una forma armonica al quadro che lo include. Senza medio la mano sarebbe paradossalmente più simmetrica, ma decisamente più brutta. Mi piace pensare che nel suo ruolo di mediatore tra culture l’antropologo abbia anche questo compito estetico, di tenere assieme la bellezza delle diversità.
Il medio quindi oscilla tra due diversi dei che lo tutelano. È vicino alla razionalità di Apollo quando sta al pari con le altre dita, e come Apollo ama la misura, ma si trasforma in un Dioniso incontrollabile non appena si erge separato, e come lui pretende che si esageri, che non ci si ponga limiti.
Per chi fosse interessato al rapporto tra gesto e linguaggio suggerisco il saggio di Michael Corballis, Dalla mano alla bocca, di recente tradotto da Raffaello Cortina. Per chi invece volesse approfondire il ruolo dell’antropologo nel suo lavoro di difficile mediazione, allora consiglio la lettura del bellissimo libro di Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, pubblicato da Laterza.
Avrete notato che un gesto formalizzato accompagna molto più facilmente l’insulto che non l’elogio. A una persona si può dire che è buona praticamente rimanendo immobili, ma se gli si vuole dire che è cattiva si accompagnerà la parola con qualche forma codificata di gesto, il gestaccio, appunto. Come se le parole non ce la facessero a contenere tutto il male che si vuole comunicare, e questo esondasse dalla gola al resto del corpo, schizzando fuori come un veleno di scorpione da qualche estremità improbabile, come le dita, l’incavo del braccio, i genitali. Il medio allora ci ricorda che per arrivare all’animo di qualcuno, a volte, è necessario tracimare da noi stessi, esagerare, letteralmente “spararla grossa”, oltre le parole.
Ma se, posto a svettare tra le altre dita, il medio ha questa tendenza grossolanamente esagerata, non appena si pone a riposo tra le sue dita sorelle torna ad essere colui che sta in mezzo, il punto d’equilibrio, l’acconcia misura che non eccede. Il medio è allora l’aurea mediocritas dei latini, la virtus che stava, appunto, in medio.
In questa posizione di mediazione, se si sforza di non essere egocentrico, il dito medio mi ricorda il lavoro dell’antropologo, costretto per sua scelta a starsene a cavallo tra differenze, e cocciutamente proteso a comunicare agli uni la diversità degli altri. L’antropologo, da buon medio mediatore, deve evitare di farsi notare, di svettare come un energumeno, e più modestamente prova a dare una forma armonica al quadro che lo include. Senza medio la mano sarebbe paradossalmente più simmetrica, ma decisamente più brutta. Mi piace pensare che nel suo ruolo di mediatore tra culture l’antropologo abbia anche questo compito estetico, di tenere assieme la bellezza delle diversità.
Il medio quindi oscilla tra due diversi dei che lo tutelano. È vicino alla razionalità di Apollo quando sta al pari con le altre dita, e come Apollo ama la misura, ma si trasforma in un Dioniso incontrollabile non appena si erge separato, e come lui pretende che si esageri, che non ci si ponga limiti.
Per chi fosse interessato al rapporto tra gesto e linguaggio suggerisco il saggio di Michael Corballis, Dalla mano alla bocca, di recente tradotto da Raffaello Cortina. Per chi invece volesse approfondire il ruolo dell’antropologo nel suo lavoro di difficile mediazione, allora consiglio la lettura del bellissimo libro di Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, pubblicato da Laterza.
martedì 25 novembre 2008
Indice (con l'acca al centro 2/5)
Dicevamo ieri che il pollice è stato il primo strumento dell’uomo. L’indice allora è la sua prima parola. Se con il pollice le cose si prendono e si trasformano, con l’indice si dicono prima ancora di avere in bocca suoni articolati. Lo stesso bimbo che ieri abbiamo visto succhiarsi il pollice, ora lo vediamo mentre indica di volta in volta stupefatto, impaurito o divertito le cose con quella minuscola freccia che gli spunta dal pugno chiuso. L’indice è allora la voglia di uscire da noi stessi, lo sforzo per forare il sacco amniotico che ci contiene nella nostra solitudine, per andare verso il mondo delle cose. Sì, perché “non si indicano mai le persone”, ci insegnavano le zie di buona famiglia, ma le cose sì che si indicano.
L’indice impone da subito un triangolo sociale: io, l’oggetto indicato, e la persona cui lo segnalo. Io che vedo questa cosa che tu, distratto, non cogli, te ne faccio dono e l’indice è il pacco regalo, il contenitore del mio gesto di attenzione per te. Guarda, non solo ho visto una cosa, non solo quella cosa mi attrae, ma mentre la guardo penso a te che mi sei vicino e non te ne sei accorto, e allora te la segnalo, te la indico, te la regalo. Perché voglio che tu condivida quello che sento. Certo, a volte ti posso segnalare una cosa brutta o
pericolosa (attento, non pestarla! Fa’ attenzione al gradino!) ma la mia
intenzione è sempre la stessa: mi prendo cura di te, le cose intorno in realtà mi ricordano di te, non mi isolano. Pensate a un genitore al parco con il bimbo in passeggino: buona parte della comunicazione sarà di questo tipo, indessicale dicono i linguisti, per dire una comunicazione che “indica” i suoi oggetti, e quindi dipende tutta dal contesto in cui avviene: “questo”, “quello”, “qui”, “lì” sono tutti deittici che non significano nulla se non c’è il dito indice ad
accompagnarli. L’indice è un dito premuroso, allora, si prende cura delle persone attorno a noi.
Ma se contravveniamo alle norme di buona educazione delle zie, e lo rivolgiamo contro le persone, allora l’indice diventa tutt’altro. È la messa all’indice, è il ludibrio, e la freccia segnalatrice diventa quasi una spada con cui vorremmo trapassare l’individuo che puntiamo. Penso a certi discorsi degli uomini infervorati che sanno perfettamente quali siano i loro nemici. Anche se quasi mai quei nemici esistono nella realtà, e anzi sono solo fantasmi e incubi delle loro infanzie dolorose in cui venivano forse puniti per il vizio di ficcarsi l’indice nel naso, quegli uomini pieni di zelo segnalano costantemente i loro mortali avversari sguainando l’indice e sciabolando nell’aria come spadaccini ubriachi. Penso a come usiamo noi mentalmente l’indice in questo modo, ogni volta che qualcuno non si adegua alle nostre aspettative: “Tu!, Come osi?!” e non finiamo neppure la frase perché la chiusa sarebbe “come osi ESSERE così?” Perché l’indice sa essere prepotente, a volte sogna di essere una bacchetta magica, o almeno la bacchetta di un direttore d’orchestra, per trasformare la realtà a nostro piacimento o almeno metterla in riga, imponendole il nostro ritmo.
L’indice dunque, è sempre sospeso tra dono generoso e rigido moralismo, tra offerta all’altro del nostro sguardo e chiusura all’altro di cui non accettiamo alcuna differenza, alcuna deviazione dalla norma che abbiamo tabilito.
Per chi volesse continuare a ragionare sul dono e le sue implicazioni antropologiche consiglio la lettura dei testi che parlano del Saggio sul dono di Marcel Mauss, raccolti da Matteo Aria e Fabio Dei nel volume Culture del dono, pubblicato da Meltemi. Se volete invece seguire i percorsi amari dell’isolamento e dell’esclusione potete leggere Lo spazio del razzismo di Michel Wieviorka, edito da Il Saggiatore.
L’indice impone da subito un triangolo sociale: io, l’oggetto indicato, e la persona cui lo segnalo. Io che vedo questa cosa che tu, distratto, non cogli, te ne faccio dono e l’indice è il pacco regalo, il contenitore del mio gesto di attenzione per te. Guarda, non solo ho visto una cosa, non solo quella cosa mi attrae, ma mentre la guardo penso a te che mi sei vicino e non te ne sei accorto, e allora te la segnalo, te la indico, te la regalo. Perché voglio che tu condivida quello che sento. Certo, a volte ti posso segnalare una cosa brutta o
pericolosa (attento, non pestarla! Fa’ attenzione al gradino!) ma la mia
intenzione è sempre la stessa: mi prendo cura di te, le cose intorno in realtà mi ricordano di te, non mi isolano. Pensate a un genitore al parco con il bimbo in passeggino: buona parte della comunicazione sarà di questo tipo, indessicale dicono i linguisti, per dire una comunicazione che “indica” i suoi oggetti, e quindi dipende tutta dal contesto in cui avviene: “questo”, “quello”, “qui”, “lì” sono tutti deittici che non significano nulla se non c’è il dito indice ad
accompagnarli. L’indice è un dito premuroso, allora, si prende cura delle persone attorno a noi.
Ma se contravveniamo alle norme di buona educazione delle zie, e lo rivolgiamo contro le persone, allora l’indice diventa tutt’altro. È la messa all’indice, è il ludibrio, e la freccia segnalatrice diventa quasi una spada con cui vorremmo trapassare l’individuo che puntiamo. Penso a certi discorsi degli uomini infervorati che sanno perfettamente quali siano i loro nemici. Anche se quasi mai quei nemici esistono nella realtà, e anzi sono solo fantasmi e incubi delle loro infanzie dolorose in cui venivano forse puniti per il vizio di ficcarsi l’indice nel naso, quegli uomini pieni di zelo segnalano costantemente i loro mortali avversari sguainando l’indice e sciabolando nell’aria come spadaccini ubriachi. Penso a come usiamo noi mentalmente l’indice in questo modo, ogni volta che qualcuno non si adegua alle nostre aspettative: “Tu!, Come osi?!” e non finiamo neppure la frase perché la chiusa sarebbe “come osi ESSERE così?” Perché l’indice sa essere prepotente, a volte sogna di essere una bacchetta magica, o almeno la bacchetta di un direttore d’orchestra, per trasformare la realtà a nostro piacimento o almeno metterla in riga, imponendole il nostro ritmo.
L’indice dunque, è sempre sospeso tra dono generoso e rigido moralismo, tra offerta all’altro del nostro sguardo e chiusura all’altro di cui non accettiamo alcuna differenza, alcuna deviazione dalla norma che abbiamo tabilito.
Per chi volesse continuare a ragionare sul dono e le sue implicazioni antropologiche consiglio la lettura dei testi che parlano del Saggio sul dono di Marcel Mauss, raccolti da Matteo Aria e Fabio Dei nel volume Culture del dono, pubblicato da Meltemi. Se volete invece seguire i percorsi amari dell’isolamento e dell’esclusione potete leggere Lo spazio del razzismo di Michel Wieviorka, edito da Il Saggiatore.
Pollice (con l'acca al centro 1/5)
Questo è il testo su cui mi sono basato per il mio intervento a Faherenheit ieri. Oggi toccherà all'indice. Il testo lo metto online stasera.
Pollice
Quando sono stato invitato a compilare per questa settimana il “vocabolario” di Fahreneit, ho pensato che una delle voci che ci volevo mettere avrebbe dovuto essere “mano”. Cercavo parole “vere”, vicine all’esperienza della vita quotidiana, e “mano” certamente lo è. Soprattutto è una parola che non ha paura della sua ambigua connotazione morale, di incarnare cioè il bene o il male a seconda di come viene usata. Si sa che la stessa mano con cui carezziamo può subito dopo schiaffeggiare o tirare un pugno: questo è quello che mi attrae delle parole, e questo vorrei raccontare con il mio “vocabolario”, che non ce la fanno mai a stare buone da una parte sola, e dipende da noi dare loro una prospettiva etica.
Poi mi sono detto che, in tre minuti, della parola “mano” sarei riuscito a dire poco o nulla, e che forse valeva la pena si dividerla in parti: dita, palmo, dorso, nocche, falangi, unghie. Ma così una settimana a Fahreneit non sarebbe bastata.
Ecco allora la scelta delle dita: sono cinque, costituiscono la parte più rimarchevole della mano, eppure ognuna di loro ha il suo stile, le sue qualità.
Il pollice, dunque. Nel suo lato più cupo il pollice è l’aut aut dell’imperatore romano, la vita o la morte, senza soluzioni intermedie. Il pollice è tenuto alto da chi vince, e rivolto in basso segna la condanna. In questa funzione, non consente mediazioni, non tollera il compromesso, è decisamente austero. Me lo vedo, il pollice giudice che non guarda in faccia a nessuno, che non ascolta pareri alternativi. Forse oggi questo pollice incarna una certa furia nel prendere posizione, nello schierarsi pregiudizialmente, nel sapere sempre con sospettosa fiducia da che parte stare. Come ogni sicurezza conclamata, è probabilmente figlio della paura. È il nodo gordiano che viene tagliato di netto per paura di perdersi nei suoi meandri, o anche solo per impazienza, uno dei sentimenti più fragili e purtroppo più determinanti del nostro animo.
Ma il pollice, mi insegna l’antropologia fisica, è il primo strumento di lavoro dell’essere umano, uno dei cardini stessi dell’umanità, assieme alla postura eretta. Siamo diventati uomini perché abbiamo iniziato a manipolare gli oggetti intorno a noi, e l’abbiamo potuto fare perché abbiamo il pollice “opponibile”. Mi piace questa parola, “opponibile”, perché dà l’idea di una disposizione senza essere una petizione di principio. Il pollice funziona quindi perché sa opporsi, e questo ci dice due cose, credo. La prima è che per afferrare la realtà non basta un’unica prospettiva, ci vuole qualcosa che a quella prospettiva faccia opposizione. La seconda è che quell’opposizione deve essere disponibile, per così dire, ad opporsi a se stessa, a sapere quando agire con più vigore e quando invece poggiarsi morbidamente.
Trovo bella e interessante, allora, questa duplicità del pollice, fiero enunciatore di giudizi definitivi ma anche oppositore intelligente, capace di afferrare il mondo facendo gioco di squadra con l’altra parte.
Mi piace pensare che con il pollice posso girare il mondo in autostop, mentre i bambini si succhiano il pollice per rintanarsi nella sicurezza della loro nanna.
Per continuare a riflettere sull’antitesi tra rigidità e flessibilità, consiglio per oggi la lettura di Il nodo e il chiodo. Libro per la mano sinistra, di Adriano Sofri, pubblicato da Sellerio.
sabato 22 novembre 2008
PieHro H VerHeni (con l'acca al centro)
Visto che come ufficio stampa di me stesso sono solitamente un disastro, questa volta gioco d'anticipo. Da lunedì prossimo 24 novembre e per tutta la settimana, sarò a Faherenheit su Radio3 a presentare il mio "vocabolario", la rubrica che va in onda nel corso del programma, all'incirca alle 15.45 (qui potete sentire i vocabolari delle ultime settimane). Mi farà molto piacere se avrete voglia di ascoltarmi, magari facendomi sapere che ne pensate. Ho scelto le mie cinque parole partendo da molto, molto vicino, per andare a finire anche un poco lontano. Ogni giorno posterò su questo blog il testo della parola che avrò scelto nella puntata corrispondente.
martedì 18 novembre 2008
Scheda di "identità catodiche"
Nella sezione cosmotaxi del sito di Armando Adolgiso c'è una breve presentazione del mio ultimo libro. Rispondo perfino a un paio di domande!
venerdì 14 novembre 2008
Università e sapere
Come annunciato, la settimana scorsa sono stato a Milano a presentare l'ultimo numero di Achab. Rivista di antropologia. E' stato un incontro per me particolarmente interessante e stimolante. Oltre a conoscere un gruppo affiatato di dottorandi che lavorano decisamente bene, c'è stato spazio per discussioni ulteriori, e un po' di quello spazio è stato impegnato per parlare dello stato attuale dell'Università italiana, della cosiddetta "riforma", della protesta e insomma delle cose di cui discuto qui da qualche settimana. Visto che dimostravo interesse per il tema, Michele Parodi, uno dei responsabili della redazione, mi ha dato una copia del numero 7/2006 di Achab, che conteneva un dossier su "Università e Sapere" che conteneva un breve ma interessantissimo saggio dedicato al concetto di "Seminario" e scritto nel 1977 da Michel de Certeau. Il saggio era corredato da diversi interventi di commento, che ho letto e che mi hanno dato molti spunti su cui riflettere. Ne è venuto fuori un pezzo di nove cartelle che non posto direttamente qui, ma che potete scaricare in pdf se vi interessa seguire la discussione. Seguite il link qui sotto (non preoccupatevi se la finestra dice che non vi può mostrare il file perché è criptato, basta che eseguiate il download con il pulsante e il file è visibile con Acrobat Reader).
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giovedì 13 novembre 2008
Parlando di "Identità catodiche"
Ho già parlato di Gianluca Nicoletti e del suo Melog. Con il tempismo che da sempre caratterizza questo blog, vi informo che giovedì scorso sono stato ospite del suo programma, assieme al divino Tommaso Labranca e alla somma Barbara Alberti. Ne è uscita una chiacchierata telefonatica sull'universo mondo televisivo. Un po' di pubblicità per il mio libro...
Se vi siete persi il programma, ecco qui l'mp3.
domenica 9 novembre 2008
Come scegliere i commissari
Bisogna distinguere, come sempre, tra quello che è possibile fare, quello che vorremmo ma sappiamo che è impossibile, e quello che forse vorremmo, ma è probabile che sia una scemenza anche solo pensarlo.
La recente protesta degli atenei italiani contro la cosiddetta "riforma Gelmini" (in realtà contro la 133, vale a dire la finanziaria 2009, che include anche i tagli previsti per la scuola e l'università) segnala, io credo, due distinti problemi. Da un lato ci sono gli studenti, che giustamente reclamano un'università migliore (quale che sia, è sempre migliorabile, e la nostra lo è di molto). D'altro canto c'è una parte non piccola del personale universitario che mi pare fortemente arroccata su posizioni conservatrici, e che vorrebbe semplicemente che non si facesse nulla. Come esempio riporto un pezzo che circola in rete (a me è arrivato su Facebook):
Questo pezzo è interessante per le due cose che dice. Per prima cosa, il solito "eccezionalismo mediterraneo": quello che fanno gli anglosassoni per noi non va bene perché loro hanno un'etica, noi no. A parte che per sostenere questa tesi si sottovaluta il peso che hanno avuto le critiche al caso "figlio di Bossi" e al caso "abilitazione della Gelmini", che invece sono stati ampiamente dibattuti dai media, è un argomento al limite del razzismo, e immaginatevelo usato da qualche italiano parlando di albanesi o egiziani o senegalesi: suonerebbe vergognoso. Eppure il gioco di autodenigrazione nazionale può invece proseguire imperterrito, senza tener conto del fatto (storico) che l'etica si costruisce nella prassi (è un modo di fare le cose, non un programma genetico), e che al Regno Unito sono bastati 10 anni di riforma per passare da un sistema universitario bolso e clientelare come il nostro a un modello che attrae cervelli e produce ricchezza materiale e intellettuale.
La seconda cosa, ovviamente, è che "L'unversità italiano non ha bisogno di nessuna riforma", frase che certamente suonerà come musica alle orecchie di chi organizza i concorsi, di chi non ha mai tempo per la didatica, di chi investe il suo tempo nello studio professionale e non nella ricerca.
Del resto, bisogna anche evitare il gioco speculare del benaltrismo, per cui le proposte della Gelmini sarebbero inutili, visto che il vero modo di risolvere la questione è, appunto ben altro.
Il professor Guido Martinotti, ordinario all'Istituto di Scienze Umane di Firenze, scrive oggi sul Corriere della Sera che la recente decisione del ministero di procedere alla formazione delle commissioni d'esame estraendo a sorte tra un pool di docenti votati di estensione tripla a quello dell'effetiva commissione, è in realtà un espediente inutile, dato che, comunque, ogni docente ha i suoi "da portare in cattedra" e non farà altro che quello ai concorsi, qualunque sia il modo in cui è finito in commissione. L'argomento è specioso dato che non è vero che tutti hanno allievi da sistemare di una certa qualità da poter difendere in una commissione parzialmente "casuale", in cui ci può essere finito qualche "nemico". Un conto è organizzare una commisione compattamente fedele, un altro fare i conti con avversari che hanno i loro pupilli. Io dico che così sarà certo più difficile "portare in cattedra" persone impresentabili, e questo mi pare un merito.
Si noti, en passant, che Martinotti sostiene che in fine dei conti il sistema fin qui non era male, dato che "i docenti hanno sviluppato pratiche di accordi preventivi di massima che tendono a ridurre i danni del sistema, soprattutto che entri in commissione il docente marginale con un candidato imprensentabile", e forse questo è vero per il suo settore scientifico disciplinare, ma per altri sicuramente la situazione è proprio l'opposta: docenti non certo marginali che si consorziano per far passare candidati a volte "impresentabili", mentre i docenti "marginali", anche se hanno qualche allievo più che decente, in commissione non ci arrivano mai perché non ci sono le cordate che li votano.
La proposta del professor Martinotti è però interessante, e spero che i nostri rappresentanti ne tengano conto nella discussione parlamentare:
Benissimo, mi piace, basta che non si prenda, ora, questa proposta come la panacea. Il prof potrebbe infatti (come è già avvenuto in molti casi) procedere a nepotismo letterale: invece di sponsorizzare il pupillo in un concorso da lui presieduto, lo impone a un professore (di un altro ateneo) che lui "ha messo in cattedra" e che comunque gli deve la carriera: illo tempore ho sistemato te, ora tu sistemi lui. Questo permetterebbe a baroni di lungo corso di continuare a pilotare concorsi anche se il candidato non ha fatto il dottorato nella sede di concorso.
Unendo invece le due proposte (sorteggio e divieto di candidarsi "in casa") i rischi di inghippi clamorosi verrebbero ridotti moltissimo, che è quello che bisogna fare, senza cercare la soluzione perfetta.
La recente protesta degli atenei italiani contro la cosiddetta "riforma Gelmini" (in realtà contro la 133, vale a dire la finanziaria 2009, che include anche i tagli previsti per la scuola e l'università) segnala, io credo, due distinti problemi. Da un lato ci sono gli studenti, che giustamente reclamano un'università migliore (quale che sia, è sempre migliorabile, e la nostra lo è di molto). D'altro canto c'è una parte non piccola del personale universitario che mi pare fortemente arroccata su posizioni conservatrici, e che vorrebbe semplicemente che non si facesse nulla. Come esempio riporto un pezzo che circola in rete (a me è arrivato su Facebook):
UNIVERSITA' Parla la politologa Nadia Urbinati docente di teoria politica alla Columbia University di New York: «Il modello Usa? Non in Italia»
Teresa Pullano
[dal manifesto del 31/10/08]
Il governo dice di ispirarsi al modello americano e usa l'argomento della meritocrazia contro la «casta» universitaria.
Il modello americano si regge su un'etica che in Italia è un bene scarso. Negli Usa un caso come quello del figlio di Bossi (bocciato all'esame di maturità e poi riammesso dal Tar, ndr) oppure come quello della stessa Gelmini che, per avere l'abilitazione da avvocato, da Brescia è scesa a Reggio Calabria, finirebbero sotto inchiesta e a entrambi verrebbe chiesto di dimettersi. Sono episodi che denotano tutto fuorché il valore del merito, ma in Italia non destano nemmeno scandalo. Senza controllo censorio non c'è meritocrazia possibile. L'università italiana non ha bisogno di nessuna riforma, ne sono già state fatte troppe
Questo pezzo è interessante per le due cose che dice. Per prima cosa, il solito "eccezionalismo mediterraneo": quello che fanno gli anglosassoni per noi non va bene perché loro hanno un'etica, noi no. A parte che per sostenere questa tesi si sottovaluta il peso che hanno avuto le critiche al caso "figlio di Bossi" e al caso "abilitazione della Gelmini", che invece sono stati ampiamente dibattuti dai media, è un argomento al limite del razzismo, e immaginatevelo usato da qualche italiano parlando di albanesi o egiziani o senegalesi: suonerebbe vergognoso. Eppure il gioco di autodenigrazione nazionale può invece proseguire imperterrito, senza tener conto del fatto (storico) che l'etica si costruisce nella prassi (è un modo di fare le cose, non un programma genetico), e che al Regno Unito sono bastati 10 anni di riforma per passare da un sistema universitario bolso e clientelare come il nostro a un modello che attrae cervelli e produce ricchezza materiale e intellettuale.
La seconda cosa, ovviamente, è che "L'unversità italiano non ha bisogno di nessuna riforma", frase che certamente suonerà come musica alle orecchie di chi organizza i concorsi, di chi non ha mai tempo per la didatica, di chi investe il suo tempo nello studio professionale e non nella ricerca.
Del resto, bisogna anche evitare il gioco speculare del benaltrismo, per cui le proposte della Gelmini sarebbero inutili, visto che il vero modo di risolvere la questione è, appunto ben altro.
Il professor Guido Martinotti, ordinario all'Istituto di Scienze Umane di Firenze, scrive oggi sul Corriere della Sera che la recente decisione del ministero di procedere alla formazione delle commissioni d'esame estraendo a sorte tra un pool di docenti votati di estensione tripla a quello dell'effetiva commissione, è in realtà un espediente inutile, dato che, comunque, ogni docente ha i suoi "da portare in cattedra" e non farà altro che quello ai concorsi, qualunque sia il modo in cui è finito in commissione. L'argomento è specioso dato che non è vero che tutti hanno allievi da sistemare di una certa qualità da poter difendere in una commissione parzialmente "casuale", in cui ci può essere finito qualche "nemico". Un conto è organizzare una commisione compattamente fedele, un altro fare i conti con avversari che hanno i loro pupilli. Io dico che così sarà certo più difficile "portare in cattedra" persone impresentabili, e questo mi pare un merito.
Si noti, en passant, che Martinotti sostiene che in fine dei conti il sistema fin qui non era male, dato che "i docenti hanno sviluppato pratiche di accordi preventivi di massima che tendono a ridurre i danni del sistema, soprattutto che entri in commissione il docente marginale con un candidato imprensentabile", e forse questo è vero per il suo settore scientifico disciplinare, ma per altri sicuramente la situazione è proprio l'opposta: docenti non certo marginali che si consorziano per far passare candidati a volte "impresentabili", mentre i docenti "marginali", anche se hanno qualche allievo più che decente, in commissione non ci arrivano mai perché non ci sono le cordate che li votano.
La proposta del professor Martinotti è però interessante, e spero che i nostri rappresentanti ne tengano conto nella discussione parlamentare:
Basta una norma che dica che, nei prossimo concorsi da ricercatore (sono migliaia), nessuno possa candidarsi nell'Ateneo in cui ha conseguito la laurea o il dottorato di ricerca (o ha avuto assegni di ricerca), che non possa ritornarci per almeno cinque anni e che il suo "maestro" non possa entrare in alcuna commissione che lo esaminerà.
Benissimo, mi piace, basta che non si prenda, ora, questa proposta come la panacea. Il prof potrebbe infatti (come è già avvenuto in molti casi) procedere a nepotismo letterale: invece di sponsorizzare il pupillo in un concorso da lui presieduto, lo impone a un professore (di un altro ateneo) che lui "ha messo in cattedra" e che comunque gli deve la carriera: illo tempore ho sistemato te, ora tu sistemi lui. Questo permetterebbe a baroni di lungo corso di continuare a pilotare concorsi anche se il candidato non ha fatto il dottorato nella sede di concorso.
Unendo invece le due proposte (sorteggio e divieto di candidarsi "in casa") i rischi di inghippi clamorosi verrebbero ridotti moltissimo, che è quello che bisogna fare, senza cercare la soluzione perfetta.
venerdì 7 novembre 2008
Fa sul serio
E' arrivata fresca fresca la comunicazione del Direttore Generale del Ministero che informa che sono sospese le tornate elettorali per la costituzione delle commissioni di concorso previste per la prossima settimana:
Significa che la Ministra Gelmini ha mandato a scatafascio un bel giro di telefonate di accordi preliminari per individuare i candidati da votare compattamente secondo le varie cordate. Ci sarà da ridere. E io dico che qualcuno a questo punto farà saltare qualche concorso, dato che non è più sicuro di poterlo pilotare fino in fondo. Si accettano scommesse.
Oggetto: Consiglio dei Ministri del 6 novembre 2008 - Decreto legge recante misure urgenti per leUniversità e gli Enti di ricerca.
Comunicasi che il Consiglio dei ministri del giorno 6 novembre u.s. ha approvato un decreto legge recante misure urgenti per l'Università e gli enti di ricerca, tra le quali, nuove modalità per la costituzione delle commissioni di valutazione comparativa per i posti di professore di I e II fascia, e di ricercatori. Tali disposizioni si applicano, con effetto immediato, anche alle procedure in corso per la costituzione delle predette commissioni, già programmate nei giorni 10-19 novembre p.v. Tali procedure sono, pertanto, sospese con effetto immediato. Tale decreto, comunque, non blocca i concorsi e non inficia la validità dei bandi già adottati dagli atenei. Questa Direzione Generale provvederà a comunicare nei prossimi giorni le nuove date per la costituzione delle commissioni, secondo la nuova disciplina, le cui procedure si terranno nel più breve tempo possibile e comunque prevedibilmente non oltre il prossimo mese di gennaio 2009.
IL DIRETTORE GENERALE (Dott. Antonello Masia)
Significa che la Ministra Gelmini ha mandato a scatafascio un bel giro di telefonate di accordi preliminari per individuare i candidati da votare compattamente secondo le varie cordate. Ci sarà da ridere. E io dico che qualcuno a questo punto farà saltare qualche concorso, dato che non è più sicuro di poterlo pilotare fino in fondo. Si accettano scommesse.
Invito
La signoria vostra è invitata a partecipare a "Happy Achab", festa per celebrare i cinque anni della rivista milanese di antropologia.
Ci sarò anch'io per provare a dire la mia sull'ultimo numero (dedicato al "genere") e sul rapporto tra media e divulgazione.
Domenica 9
alle 18.30
via Frisi, 3, Milano
Ci sarò anch'io per provare a dire la mia sull'ultimo numero (dedicato al "genere") e sul rapporto tra media e divulgazione.
giovedì 6 novembre 2008
Il patriottismo e i suoi futuri
Nel 1993 (molto, molto prima dell'11 settembre) Arjun Appadurai, un antropologo indiano che ho citato già su questo blog, scrisse un saggio sul "patriottismo e i suoi futuri". Ho insegnato quel saggio per diversi anni, ma solo dopo l'11 settembre, e mi sembrava irrimediabilmente datato, il segno di un'utopia perduta, come rileggere i giornali scritti prima di una partita importante che la tua squadra ha perso: vedi solo tanta speranza buttata al vento, perché tu, vedendo le cose da dopo sai che non è andata come si sperava. In quell'articolo Appadurai parlava di un'America potenzialmente in grado di diventare uno snodo delle identità senza ridursi al loro luogo d'arrivo, un transito positivo di rielaborazione, che la chiusura consenguente al trauma delle Torri Gemelle sembrava aver vanificato. L'America, soprattutto, come punto di riferimento per altri parti del mondo, che a lei guardano. Dopo l'elezione di Obama sento che quelle parole possono riprendere vita. Ecco le parole di Appadurai (pp. 227-228):
Per gli Stati Uniti, cominciare ad assumere un ruolo di primo piano nella politica culturale di un mondo postnazionale ha complesse implicazioni sul piano domestico. Può voler dire creare nuovi spazi per la legittimazione dei diritti culturali, diritto cioè (garantiti e protetti) al perseguimento della differenza culturale. Può significare la difficile rottura con una concezione dell'economia americana ancora fondamentalmente fordista e incentrata sulla produzione di beni, per imparare a diventare intermediari globali di informazione, fornitori di servizi, insegnanti di stile. Può significare accogliere come parte del nostro vissuto quello che finora abbiamo confinato nel mondo di Broadway, Hollywood e Disneyland: l'importazione di esperimenti, la produzione di fantasie, la fabbricazione di identità, l'esportazione di stili, la lavorazione delle pluralità. Può significare infine distinguere il nostro amore per l'America dalla disponibilità a morire per gli Stati Uniti. Quest'ultima idea concorda con la proposta di Lauren Berlant (The Anatomy of National Fantasy, 1991, p. 217): "Il soggetto che voglia evitare quella melanconica pazzia dell'autoastrazione che chiamiamo cittadinanza, e resistere alla lusinga di poter sconfiggere da solo il materiale contesto politico in cui vive, deve sviluppare una tattica per rifiutare l'intreccio, vecchio di quattrocento anni, tra gli Stati Uniti e l'America, tra la nazione e l'utopia".
Obama sembra avere questa capacità, di fornire un senso di appartenenza più emotivamente saldo della frigida "cittadinanza", eppure abbastanza vasto da sconfiggere il rischio (non solo americano, oggi) del "noi contro tutti": una cittadinanza profonda e sentita, che dia nuovo spessore morale alla parola "patriottismo", che non ha più bisogno di ancorarsi ai confini degli stati nazionali. Questo, credo, potrebbe essere il compito di Obama: aprire lo spazio per un patriottismo postnazionale, dentro cui non serva dire "siamo tutti americani" ma "Obama è il mio presidente, anche se io non sono americano".
mercoledì 5 novembre 2008
L'America e gli Stati Uniti
Ho appena ascoltato il discorso di Obama vincitore. Ora che è andata, posso dire di essere molto felice che abbia vinto lui. E' la vittoria dell'America sugli Stati Uniti, del sogno sul cinismo, della speranza sulla necessità.
Obama è un grandissimo retore, ha parlato per 17 minuti senza buttare un occhio agli appunti, come stesse improvvisando. E poi ha una qualità che non riesco a trovare in nessun politico italiano. Anzi, che nessun politico italiano prova mai a perseguire (a parte Veltroni e Bertinotti, con alterni risultati direi), vale a dire la capacità di commuovere i suoi interlocutori. Ascoltando il discorso di Obama mi sono dovuto asciugare un paio di volte gli occhi. Da noi regna il cinismo, la voglia di sparlare dell'avversario più che di far sognare chi ascolta. Avete sentito le parole che Obama ha detto di McCain? E quelle dello sconfitto nei confronti del nuovo Presidente? Nessuno in Italia potrebbe mai proporre un simile rispetto per l'avversario. Ma forse è proprio questa la differenza tra noi e loro: sanno ancora sognare, sanno ancora crederci.
Per questo non ho mai capito gli antiamericani di professione, si perdono il pezzo migliore del genere umano (l'America) per paura di quello peggiore (gli Usa), e non riescono ad accettare che i due convivano nello stesso identico posto.
Obama è un grandissimo retore, ha parlato per 17 minuti senza buttare un occhio agli appunti, come stesse improvvisando. E poi ha una qualità che non riesco a trovare in nessun politico italiano. Anzi, che nessun politico italiano prova mai a perseguire (a parte Veltroni e Bertinotti, con alterni risultati direi), vale a dire la capacità di commuovere i suoi interlocutori. Ascoltando il discorso di Obama mi sono dovuto asciugare un paio di volte gli occhi. Da noi regna il cinismo, la voglia di sparlare dell'avversario più che di far sognare chi ascolta. Avete sentito le parole che Obama ha detto di McCain? E quelle dello sconfitto nei confronti del nuovo Presidente? Nessuno in Italia potrebbe mai proporre un simile rispetto per l'avversario. Ma forse è proprio questa la differenza tra noi e loro: sanno ancora sognare, sanno ancora crederci.
Per questo non ho mai capito gli antiamericani di professione, si perdono il pezzo migliore del genere umano (l'America) per paura di quello peggiore (gli Usa), e non riescono ad accettare che i due convivano nello stesso identico posto.
martedì 4 novembre 2008
Mercato delle vacche
Ha scritto ieri, sul Corriere della Sera, il solito utilissimo Francesco Giavazzi:
Il problema più urgente è la pioggia di concorsi universitari già banditi: un totale di 4-5 mila posti che, tranni casi rari, non apriranno le porte delle università ai giovani, ma promuoveranno docenti e ricercatori che già lavorano nell'università e spesso vi sono entrati senza alcun vaglio (...) Inoltre, nel caso dei 1.800 posti di professore, i vincitori non saranno 1.800, ma 3.600. Infatti le commissioni nominano 1.800 professori per i quali il posto non c'è!
Visto che chi non frequenta i concorsi e non è interno all'università difficilmente può sapere a cosa si riferisce il professor Giavazzi, credo sia il caso di chiarire le cose per gli esterni, dato che l'informazione è un bene tanto prezioso. Da circa un quindicennio gli Atenei possono bandire concorsi per il personale docente in autonomia. Non c'è quindi un concorso nazionale ma ogni ateneo chiama i posti che gli servono. Per diversi anni i posti da professore sono stati banditi in forma curiosa: io, Ateneo, ho bisogno di un posto poniamo di associato, che mi serve per "promuovere" il mio ricercatore che è ricercatore da tanti anni e che poverino è ora che faccia uno scatto di carriera (non importa se ha i titoli e le pubblicazioni, spesso il criterio è stato l'anzianità o la protezione clientelare). Bene, la commissione è composta da un "membro interno" nominato dalla Facoltà presso cui si bandisce il concorso, e da un numero (variabile a seconda del tipo di concorso, da ricercatore, associato o ordinario) di membri eletti democraticamente tra tutti gli eleggibili indicati sul sito del Ministero. Ovviamente il "membro interno" sa chi è il candidato che dovrebbe vincere il posto in quella sede e normalmente lo sa anche tutta la Facoltà, che può infatti predisporre (nel testo del bando) un "profilo" del tipo di docente che gli serve. Così, se il candidato che si vuole che vinca il concorso ha pubblicato qualcosa su "pippologia applicata e teorica" e conosce molto bene l'esperanto, nel profilo accluso nel bando si specificherà che la Facoltà ha bisogno di un docente esperto di pippologia che parli bene l'esperanto, perché è esattamente questo che può servire al bene della Facoltà.
Fin qui, tutto abbastanza semplice. Ma la vera raffinatezza si raggiunge con il sistema delle "idoneità", il vero meccanismo che consente le alleanze tra Atenei di gestire il mercato delle vacche. Per ogni posto che viene effettivamente bandito (per ogni posto per cui si apre una partita stipendiale presso l'Ateneo che lo ha bandito) fino a quattro anni fa era possibile indicare TRE "idonei". In pratica, la commissione indicava tre nomi che avevano meritato l'idoneità a quel posto, tra cui la Facoltà "liberamente" ne "sceglieva" uno, guarda caso conforme al "profilo" previsto dal bando. Il bando cioè specificava che i candicati non venivano giudicati dalla Commissione in base al profilo, dato che la Commissione giudicava insindacabilmente sui titoli, sulle pubblicazioni e sulla prova d'esame (quando prevista, cioè per i concorsi da ricercatore e associato), e spettava alla Facoltà chiamare tra i tre "idonei" quello con il curriculum più consono al profilo richiesto dalla Facoltà. Visto che nella terna di idonei, com'è, come non è, capitava sempre un candidato (guarda caso già dipendente di quell'univesità) che corrispondeva al profilo, la Facoltà lo chiamava di buon grado.
E gli altri due idonei, ciccia?
No, calma. Il punto è tutto qui. Torniamo alla Commissione. Come ho spiegato, solo un membro è nominato dalla Facoltà che bandisce il concorso, mentre gli altri sono eletti. Per essere eletti bisogna ovviamente prendere i voti dei colleghi, e per prenderli bisogna fare campagna elettorale. Il gioco è questo: il membro interno inizia a fare un giro di telefonate per verificare chi si sia candidato a quel concorso. Chiama i colleghi cui fanno riferimento alcuni candicati e inizia la trattativa: io voglio far passare Tizio, il mio candidato, e non ho problemi a far passare Caio, il tuo candidato. Perché non mettiamo assieme il mio voto, il tuo, e quelli delle nostre rispettive cordate per eleggere il Commisario Tal dei Tali che sarà favorevole al mio Tizio e al tuo Caio? Per chiarire, le "cordate" sono le diverse "scuole", per cui un professore ordinario chiama gli associati e i ricercatori cui ha fatto vincere il concorso e dice loro: a questa tornata votate per il Tale dei Tali, in modo che il nostro candidato Tizio possa vincere il concorso. Stesso discorso per l'altro candidato, Sempronio. Il suo professore di riferimento, il Tal Altro, viene contattato dal membro interno, con lo stesso discorso: io, il Tale (che ho già contattato ed è d'accordo) e tu, Tal Altro, abbiamo tutti e tre dei candidati in questo concorso. Se uniamo le forze, possiamo far assegnare l'idoneità ai nostri tre candidati. Poi, la mia Facoltà chiamerà subito il mio, perché il posto è bandito nella mia Facoltà e il profilo corrisponde. Ma con un po' di calma e un po' di trattativa politica (le idoneità sono valide tre anni) anche voi due riuscirete a convincere i presidi delle vostre facoltà (di altri Atenei, non dimentichiamo) a chiamare i vostri idonei, tanto tutti ne hanno da guadagnare. Infatti un preside si vede avvicinare dal Tal Altro che gli dice: guarda, il ricercatore Sempronio della Nostra Università ha vinto l'idoneità al concorso bandito dall'Altra Università. Ora, un ricercatore ti costa Tot, e se lo chiamiamo come associato ci costa un Tot+50 percento. Ma tu, Preside, dove cavolo li troveresti i soldi per bandire una partita stipendiale ex novo da associato su questo settore? Meglio che fai un piccolo sforzo e chiami Sempronio, che così si trova di fatto "promosso" da ricercatore ad associato. La nostra Facoltà così avrà un associato in più, senza nemmeno correre il rischio di bandire un concorso che Sempronio avrebbe potuto anche perdere.
Così, con il sistema delle idoneità e l'incrocio di alleanze, per molti anni si sono banditi x posti ma si sono poi piazzati 3x candidati, intasando le facoltà spesso di personale non esattamente alla massima altezza delle qualificazioni.
Sia chiaro: NON C'E' NULLA DI ILLEGALE IN TUTTO QUESTO. E' pura democrazia rappresentativa. Ma il risultato è stato per molti anni che vincevano i concorsi non i candidati più capaci, ma quelli agganciati alle cordate più dinamiche, più in grado di sfruttare alleanze incrociate.
Letizia Moratti, consapevole di questo sconcio, aveva abolito il sistema delle idoneità quando era ministro dell'Università e per qualche anno ci sono stati "strani" concorsi in cui c'era un posto solo, senza idoneità "aggiunte", vale a dire molto meno appetibili per le cordate incrociate (vuoi che faccio passare il tuo candidato, ma io cosa ci ricavo in cambio?).
La legge 244 del 24 dicembre 2007, vale a dire la "FINANZIARIA 2008", con uno strano emendamento (chiedetevi chi l'ha fatto passare, e perché) ha reintrodotto il sistema delle idoneità fino al 30 giugno 2008, riducendole a due. Vale a dire che le Facoltà si sono letteralmente buttate a pesce per bandire l'ultima tornata concorsuale con il sistema delle idoneità, che garantisce il mercato delle vacche e lo scambio dei voti sui condidati. E' a questo che si riferisce il professor Giavazzi quando dice che "le commissioni nominano 1.800 professori per i quali il posto non c'è!". Dato che siamo in epoca di ristrettezze, e che un nuovo posto viene bandito se altri cinque vanno in pensione, significa che, a parte i 1.800 che vinceranno, gli altri 1.800 "idonei" prenoteranno tutti i posti da associato e ordinario sicuramente per i prossimi tre anni, ma io sono sicuro che, dato che tre anni non saranno sufficienti per mandare in cattedra tutti gli "idonei", la CRUI o qualche altro organismo di pezzi grossi dell'Università chiederà una proroga della validità delle idoneità, per cui i posti saranno prenotati per i prossimi cinque anni minimo. In barba al merito. Perché chi non ha cordate di riferimento, chi ha vinto il concorso da ricercatore in condizioni "strane" (perché la commissione non è riuscita a trovare un accordo preventivo sui vincitori o perché, per diversi motivi, la commissione è stata eletta senza cordate) non ha alcuna speranza di vincere uno dei prossimo 1.800 concorsi, non importa un fico secco quali siano le sue credenziali.
La ministra Gelmini potrebbe semplicemente diramare una circolare e dire che i concorsi banditi non avranno idoneità e le Facoltà non dovranno chiamare in base ai "profili". Con questo semplice gesto molte delle cordate che si stanno organizzando non avrebbero più ragione d'essere, o si troverebbero di molto complicato il raggiungimento dei loro obiettivi, dato che se vengono cancellate le idoneità, l'unico modo per accordarsi è scambiarsi i commissiari compiacenti su DUE concorsi (io vengo a promuovere il tuo in quel concorso, tu vieni al mio in quell'altro) ma per fare questo ci vogliono cordate molto corpose, dato che le commissioni da eleggere sono due, vale a dire il doppio dei voti.
Morale della favola: per dare dignità all'università italiana basterebbero poche azioni mirate. E basterebbe cominciare a chiedersi seriamente non solo cosa vuole fare la ministra Gelmini, ma anche chi ha pensato bene di reintrodurre il principio delle idoneità nell'ultima finanziaria votata dal Governo Prodi, e per quali fini è stato rimesso in piedi un meccanismo così smaccatamente clientelare.
domenica 2 novembre 2008
Famo a capisse, ovvero separiamo il giudizio del 137 (riforma delle elementari) da quello del 133 (finanziaria 2009 con tagli all'istruzione) SECONDO
Questo post è un po' palloso perché tecnico, ma credo che possa svelare a molti alcune cose che non sapevano, e che sarebbe importante sapere.
Questo è il comma 620 della Legge 27 dicembre 2006, n. 296, meglio nota come "legge FINANZIARIA 2007", votata dal Governo Prodi:
Dall'attuazione dei commi da 605 a 619 devono conseguire economie di spesa per un importo complessivo non inferiore a euro 448,20 milioni per l'anno 2007, a euro 1.324,50 milioni per l'anno 2008 e a euro 1.402,20 milioni a decorrere dall'anno 2009.
Il comma 605, citato nel 620, dice (al punto a) che tra le misure che "consentano il razionale utilizzo della spesa..." bisogna approntare "la revisione, a decorrere dall'anno scolastico 2007/2008, dei criteri e dei parametri per la formazione delle classi (...) in modo da incrementare il valore medio nazionale del rapporto alunni/classe dello 0,4" e aggiunge (al punto b) la "riduzione della dotazione organica del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA)", anche se questo punto è contraddetto dal punto c del medesimo comma, dove invece si dice che un "piano di assunzioni a tempo indeterminato e' predisposto per il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA), per complessive 20.000 unità".
Altre misure prevedono la messa in mobilità del "personale docente permanentemente inidoneo ai compiti di insegnamento e collocato fuori ruolo" (comma 608) e un "piano di riconversione professionale del personale docente in soprannumero" (comma 609), mentre i commi successivi, fino al 619, non sembrano indicare alcun risparmio, o almeno io non l'ho capito.
Questo è invece il comma 6 dell'articolo 64 della legge 133 del 6 agosto 2008 (che sarebbe la FINANZIARIA 2009, votata dal Governo Berlusconi, e che molti impropriamente chiamano "riforma Gelmini dell'università"):
Fermo restando il disposto di cui all'articolo 2, commi 411 e 412, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dall'attuazione dei commi 1, 2, 3, e 4 del presente articolo, devono derivare per il bilancio dello Stato economie lorde di spesa, non inferiori a 456 milioni di euro per l'anno 2009, a 1.650 milioni di euro per l'anno 2010, a 2.538 milioni di euro per l'anno 2011 e a 3.188 milioni di euro a decorrere dall'anno 2012.
Premesso che la legge 244 del 24 dicembre 2007 è la "FINANZIARIA 2008", e ci torniamo tra poco, vediamo dove i commi 1-4 dicono di voler risparmiare: il comma 1 dice: "sono adottati interventi e misure volti ad incrementare, gradualmente, di un punto il rapporto alunni/docente, da realizzare comunque entro l'anno scolastico 2011/2012...", mentre per gli ATA (personale amministrativo, tecnico ed ausiliario) l'obiettivo è quello di "conseguire, nel triennio 2009-2011 una riduzione complessiva del 17 per cento della consistenza numerica della dotazione organica determinata per l'anno scolastico 2007/2008". I commi 3 e 4, infine, dicono semplicemente che sarà il ministero competente a stabilire il "piano programmatico di interventi", limitandosi a ulteriori indicazioni di principio come "revisione dei criteri" per i concorsi e "ridefinizione dell'assetto organizzativo-didattico" (quindi la "riforma" la Gelmini deve ancora presentarla...) Chiunque può notare come le proposte delle due finanziarie siano simili, sia per l'intento a risparmiare, sia per dove prendere i soldi: aumento del numero di studenti per classe, riduzione degli ATA, ridefinizione dell'organizzazione.
Vediamo ora il comma 412 dell'articolo 2 della legge 244 del 24 dicembre 2007, vale a dire la "FINANZIARIA 2008":
Le economie di spesa di cui all’articolo 1, comma 620, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, da conseguire ai sensi dei commi da 605 a 619 del medesimo articolo, nonche´ quelle derivanti dagli interventi di cui al comma 411, lettere a), b), c) d), sono complessivamente determinate come segue: euro 535 milioni per l’anno 2008, euro 897 milioni per l’anno 2009, euro 1.218 milioni per l’anno 2010 ed euro 1.432 milioni a decorrere dall’anno 2011.
Le economie sono realizzate tagliando sul numero di classi delle scuole superiori (lettere a e b del 411) e procedendo più rapidamente all'assorbimento del personale in sovrannumero di cui già parlava la finanziaria dell'anno precedente. In linea con la finanziaria precedente e con quella successiva, solo che in questo caso le cifre di risparmio sono un po' più annacquate.
Morale della favola: le ultime tre finanziarie presentano tutte significative "economie di spesa".
Al di là delle diverse scelte su dove individuare le fonti di economia, la logica delle tre finanziarie è identica, come evidenzia il confronto dei risparmi rispettivamente preventivati per il 2009: secondo la finanziaria 2007 il prossimo anno avrebbe dovuto vedere un risparmio più che triplo rispetto a quello previsto dalla Gelmini per lo stesso periodo (oltre un miliardo e 400 milioni secondo Fioroni della finanziaria 2007, oltre 800 per il Fioroni della finanziaria 2008, e "solo" 456 milioni secondo la Gelmini nella finanziaria 2009).
La prima domanda, che butto lì, è come mai tutto 'sto casino per la 133 quando non ricordo voci dissenzienti per le due finanziarie precedenti, che erano sostanzialmente informate dagli stessi principi di risparmio nella scuola. Per questa domanda non ho una risposta, solo dei sospetti.
Mi chiedo inoltre (e questa seconda domanda è invece del tutto retorica) chi ci guadagna dal blocco dato da Berlusconi al piano che la Gelmini doveva presentare per l'attuazione delle economie di spasa. A chi sta bene un'università dove ci sono tre fasce di docenti (ricercatori, associati, ordinari) distinte non certo dal merito o dai carichi di lavoro, ma solo dall'anzianità di servizio? Mi resta incomprensibile perché un ricercatore debba prendere un terzo dello stipendio di un ordinario quando fa esattamente lo stesso lavoro, e perché un docente che laurei ogni anno decine di studenti abbia le stesse gratificazioni economiche di un docente che non porta alla laurea nessuno se non quei due-tre studenti l'anno che gli vengono assegnati d'ufficio. Mi chiedo come possiamo far crescere la ricerca scientifica dentro gli Atenei se i fondi sono assegnati a pioggia come "el formenton" che mia nonna buttava alle galline (un po' qua, un po' là, così, equamente) oppure, addirittura, se i dipartimenti (una volta presi i fondi in base al numero dei docenti che vi afferiscono) li distribuiscono su base gerarchica (una quota ai ricercatori, due quote agli associati, tre agli ordinari) e non in base al merito delle specifiche ricerche. Tutto questo, forse, si sarebbe potuto iniziare a cambiare se la Gelmini avesse avuto modo di proporre il suo piano. Sembra che salti tutto. I numeri della finanziaria rimarranno (come quelli delle finanziarie predecenti) pura fiction per i prossimi giochini elettorali. E di certo non ne trarrano vantaggi gli studenti (che continueranno a fare i conti con docenti sfuggenti che non hanno nessuna accountability rispetto a quel che fanno o non fanno) né gli studiosi meritevoli, che si impegnano per la didattica e la ricerca. Il problema vero, l'unico problema dell'università italiana, è che non ci sono nè incentivi nè sanzioni per chi vi lavora: se si fa bene, se si fa benissimo, o se non si fa nulla, non fa alcuna minima differenza in termini di soldi, di gratificazione pubblica, di riconoscimento professionale. Fino a quando non si cambierà questo modo del tutto de-responsabilizzante di concepire il lavoro del corpo docente universitario, non ci sarà alcuna possibilità di restituire all'università italiana la dignità che le spetterebbe come istituzione.
Famo a capisse, ovvero separiamo il giudizio del 137 (riforma delle elementari) da quello del 133 (finanziaria 2009 con tagli sull'istruzione) PRIMO
La notizia riportata da alcuni giornali stamattima, che il presidente Berlusconi, timoroso di perdere consensi, avrebbe dato l'alt al piano programmatico della ministra Gelmini per l'Università mi fa temere che dalla confusione di questi giorni ne trarranno vantaggi solo le corporazioni degli universitari più conservatori, che godono di molteplici privilegi e che non vogliono mollare un punto, anche a costo di continuare a tenere l'università italiana in stato comatoso. Se effettivamente alla ministra verrà impedito di spiegare COME intende realizzare le famose "economie di spesa" annunciate nella finanziaria 2009 (cioè nella legge 133 del 6 agosto 2008), allora potremo dire che ha vinto la restaurazione, e che per l'università non si tratta certo di una vittoria. Gli studenti continueranno a subire un sistema pessimamente organizzato, dove i soldi vengono ripartiti in massima parte su base clientelare e gerontocratica.
Io credo che sia ora di distinguere non solo il contenuto, ma anche il giudizio delle due leggi che impropriamente vanno sotto il nome di "riforma Gelmini". In questo post esprimo il mio parere sul 137, mente nel prossimo parlo del 133.
La legge 137 (approvata la settimana scorsa), quella che riguarda la scuola elementare, è fatta di otto articoli di cui molti sono fuffa per i nostalgici (educazione civica, voto in condotta, voti in numeri invece dei giudizi, non c'è traccia del grembiule) e l'articolo 4 è l'unico degno di nota, dato che scardina con una frasetta il tempo pieno, un'opzione di cui finora hanno potuto beneficiare molti bambini e le loro famiglie. Ecco la frase:
...le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali.
Al di là di quel che poi ha preteso di dire la ministra Gelmini, il 137 dice chiaro e tondo che la "scuola normale" in Italia è diventata (anzi: è tornata ad essere, perché questa legge è la pura legalizzazione della nostalgia più becera) la scuola che inizia alle 8.30, finisce alle 12.30 e va da lunedì a sabato incluso. E' la scuola che HA FATTO LA GELMINI quando era piccina, la scuola che lei sicuramente tanto ha apprezzato, e della quale sente tanto la mancanza. Quella, dice chiaro e tondo l'articolo 4, è la scuola italiana per l'istruzione elementare. Cazzate la didattica al pomeriggio, cazzate gli insegnanti specializzati in matematica o italiano, cazzate l'inglese e il resto. Io sono diventata ministro facendo la scuola con la maestrina dalla penna rossa, da lunedì a sabato, e tornavo a casa a mangiare la pastasciutta. Lo potete fare anche voi.
Certo, poi l'articolo prosegue:
Nei regolamenti si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola.
Questa concessione è di fatto la morte del tempo pieno. Le esigenze, come vedete, non sono quelle di un'istruzione completa in una fase di enormi mutamenti culturali e sociali. No, le esigenze che consentirebbero una "più ampia articolazione del tempo-scuola" sono solo quelle legate alla "domanda delle famiglie". Non sono io, istituzione dello Stato, a credere che i miei cittadini abbiano bisogno di un'istruzione oggi più articolata. No, sono le famiglie che avrebbero bisogno di qualche ora in più di libertà dai marmocchi. E allora volete che ci tiriamo indietro e non gli comsentiamo il "dopo scuola"? Ma sì, avrà pensato la ministra Gelmini, anch'io mi ricordo che c'era qualche sfigato che aveva i genitori che lavoravano entrambi e dopo pranzo rimaneva a scuola a fare i compiti o giocare a palla avvelenata.
Il problema, ovviamente, è il denaro: chi paga il dopo scuola (scusate: la "più ampia articolazione del tempo-scuola")? Il comma due dell'articolo non è chiaro sulle modalità (straordinari per i maestri "unici" o assunzioni di badanti per minori?) ma dice chiaro dove vanno presi i soldi:
Con apposita sequenza contrattuale e a valere sulle risorse di cui all'articolo 64, comma 9, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e' definito il trattamento economico dovuto per le ore di insegnamento aggiuntive rispetto all'orario d'obbligo di insegnamento stabilito dalle vigenti disposizioni contrattuali.
I soldi vanno presi da quelli che la finanziaria 2009 (legge 133 del 6 agosto 2008) avrà risparmiato. Dice infatti quel comma 9:
Una quota parte delle economie di spesa di cui al comma 6 e' destinata, nella misura del 30 per cento, ad incrementare le risorse contrattuali stanziate per le iniziative dirette alla valorizzazione ed allo sviluppo professionale della carriera del personale della Scuola a decorrere dall'anno 2010, con riferimento ai risparmi conseguiti per ciascun anno scolastico.
In pratica, il 30 per cento di quel che viene risparmiato va posto in un fondo che serve a pagare gli incentivi degli insegnanti, compreso il pagamento del dopo scuola.
Come fa la ministra, a questo punto, a dire che "il tempo pieno non si tocca"? Se non si intende il tempo pieno come puro parcheggio dopo scuola, ma come progetto didattico, il tempo pieno da questa legge viene spazzato via, cancellato, azzerato. Io ho una figlia di sette anni, che fa la seconda elementare, e sono molto felice della DIDATTICA del tempo pieno, non del fatto che mia figlia viene parcheggiata a scuola fino alle 16.20! Io ho avuto una "maestra unica" che era una vera capra con la matematica almeno quanto era brava con l'italiano, e ho risentito di questa carenza per tutta la mia vita. Mia figlia Rebecca fa la matematica con un metodo fantastico, e lo può fare perché la sua maestra Angela è specializzata nella didattica della matematica, mentre Anna, l'altra maestra, è bravissima con l'italiano. Se non facesse il tempo pieno (ancora, inteso come progetto DIDATTICO, non come ore che i bambini stanno fuori dalle balle per i genitori) Rebecca non potrebbe imparare la matematica altrettanto bene dell'italiano, e il "maestro unico" o "prevalente" distruggerà questo progetto didattico. Ci vuole tanto a capirlo? Io riconosco che nella scuola elementare (come in qualunque istituzione pubblica) si sono accumulate sacche di privilegio e spreco, ma non si risolvono azzerando un progetto didattico che funziona.
Questo, per me, ormai è un punto fermo: credo che la ministra Gelmini abbia fatto un'enorme sciocchezza, lusingata dal consenso che evidentemente la circonda. Ma la sua mossa è puro populismo, l'equivalente del "torniamo alla lira" o "riprendiamo Lippi in nazionale". Non sortirà alcun effetto benefico per la scuola né per il paese, se per scuola si intende l'istituzione che forma i cittadini, e non solo una spesa fastidiosa per le casse dello stato.
Sulla cosiddetta "riforma dell'università" ho invece le idee molto diverse. Molto. Vedi il prossimo post.