Dopo il pollice (inflessibile ma negoziatore) e l’indice (premuroso ma prepotente) il medio alterna posture volgari e austero equilibrio. Dal mondo anglosassone abbiamo di recente recuperato alle glorie della cronaca anche politica il senso di un gestaccio (il medio sollevato) che ha antichi paralleli italici nelle fiche che il blasfemo Vanni Fucci rivolge contro Dio nel canto XXV dell’Inferno. Il medio alzato è l’improperio, l’insulto, la volgarità incarnata, o incarnita visto che parliamo di dita…
Avrete notato che un gesto formalizzato accompagna molto più facilmente l’insulto che non l’elogio. A una persona si può dire che è buona praticamente rimanendo immobili, ma se gli si vuole dire che è cattiva si accompagnerà la parola con qualche forma codificata di gesto, il gestaccio, appunto. Come se le parole non ce la facessero a contenere tutto il male che si vuole comunicare, e questo esondasse dalla gola al resto del corpo, schizzando fuori come un veleno di scorpione da qualche estremità improbabile, come le dita, l’incavo del braccio, i genitali. Il medio allora ci ricorda che per arrivare all’animo di qualcuno, a volte, è necessario tracimare da noi stessi, esagerare, letteralmente “spararla grossa”, oltre le parole.
Ma se, posto a svettare tra le altre dita, il medio ha questa tendenza grossolanamente esagerata, non appena si pone a riposo tra le sue dita sorelle torna ad essere colui che sta in mezzo, il punto d’equilibrio, l’acconcia misura che non eccede. Il medio è allora l’aurea mediocritas dei latini, la virtus che stava, appunto, in medio.
In questa posizione di mediazione, se si sforza di non essere egocentrico, il dito medio mi ricorda il lavoro dell’antropologo, costretto per sua scelta a starsene a cavallo tra differenze, e cocciutamente proteso a comunicare agli uni la diversità degli altri. L’antropologo, da buon medio mediatore, deve evitare di farsi notare, di svettare come un energumeno, e più modestamente prova a dare una forma armonica al quadro che lo include. Senza medio la mano sarebbe paradossalmente più simmetrica, ma decisamente più brutta. Mi piace pensare che nel suo ruolo di mediatore tra culture l’antropologo abbia anche questo compito estetico, di tenere assieme la bellezza delle diversità.
Il medio quindi oscilla tra due diversi dei che lo tutelano. È vicino alla razionalità di Apollo quando sta al pari con le altre dita, e come Apollo ama la misura, ma si trasforma in un Dioniso incontrollabile non appena si erge separato, e come lui pretende che si esageri, che non ci si ponga limiti.
Per chi fosse interessato al rapporto tra gesto e linguaggio suggerisco il saggio di Michael Corballis, Dalla mano alla bocca, di recente tradotto da Raffaello Cortina. Per chi invece volesse approfondire il ruolo dell’antropologo nel suo lavoro di difficile mediazione, allora consiglio la lettura del bellissimo libro di Leonardo Piasere, L’etnografo imperfetto, pubblicato da Laterza.