Valeria aveva già fatto il grosso, sistemando le cose sue, quelle di Rebecca e quelle di Amanda, quando ha fatto l’ondata di freddo il mese scorso. Io me l’ero cavata ancora per un po’ con i vestiti di mezza stagione, qualche completo e un paio di maglie pesanti rimaste dalle vacanze di Erice la scorsa estate. Ma girare con lo scooter al mattino presto con i vestiti estivi non era più possibile, così sono sceso “in cantina” (in realtà lo sgabuzzino che sta a fianco del garage) e ho tirato fuori le due valigie con i miei vestiti invernali, le mie giacche e pantaloni rigorosamente di lana, quasi tutti scuri, così comodi da scegliere se devo pescare qualcosa nella cabina armadio mentre Valeria ancora dorme.
Ho portato su tutto e ho “fatto il cambio di stagione”, un rituale al quale mi sottraggo fin quando è possibile, e che poi realizzo in tempi solitamente brevi. Seleziono le cose da lavare e le metto da parte, mentre ripiego le giacche e i pantaloni puliti e li sistemo in valigia al posto di quelli che tiro fuori.
Ogni anno, due volte l’anno, l’operazione più delicata è la ripulitura delle tasche. Prima di portare le cose in lavanderia frugo nelle tasche e nei taschini, e ne tiro fuori fazzoletti usati, spiccioli, foglietti che Rebecca ha scritto per me (o che ha scritto per altri ma che trovano in me il loro ricettacolo inevitabile, tipo “me lo tieni un secondo”), sorprese mutilate degli ovetti Kinder, liste della spesa compilate sui quei fogli quadrati che si comprano a blocchi, biglietti della metro, il gettone di una sala giochi. Cose così. Quasi sempre non significano nulla, sono ancora freschi d’uso, lasciati sopire al massimo per qualche settimane. Mi ricordo di tutti loro. Ero distratto, non ci pensavo più, lo ammetto, ma ogni volta che ne rivedo uno posso ricostruirne la storia, che è sempre piuttosto breve.
Mi piace scrivere un diario, ma sono sempre stato uno scrittore infedele. Posso resistere per un mese, anche un anno di seguito, ma non sono uno che “tiene il diario”, sono uno che “tiene dei diari, ogni tanto”. Così la mia memoria (che è il vero motivo per cui tengo un diario, perché mi fa ricordare le cose dentro il mio corpo, non perché le imprigiona fuori di esso, dato che non rileggo mai i miei diari), la mia memoria è piena di alti e bassi, di buchi, come dicono sia lo spazio profondo, pieno di vuoti in mezzo ai pieni, un groviera del tempo.
Allora, quest’anno l’ho fatto apposta, visto che non sto tenendo un diario. Invece di ripulire le tasche e di portare in lavanderia tutto quello che non era perfettamente immacolato, ho deciso di portare a lavare solo quello che era decisamente sporco, e ficcare il resto (la gran parte, quindi) in valigia con un paio di tavolette antitarme. Senza ripulire le tasche. Non so, veramente non so cosa posso aver dimenticato apposta nelle tasche dei vestiti e dei pantaloni che ho messo in valigia, e che rivedrò non prima di aprile o maggio. Allora, sarà passato abbastanza tempo per rendere quelle cose meno ovvie, ma spero non abbastanza tempo da rendermele sconosciute. Quando troverà quel bigliettino di Rebecca, il mio io futuro non dirà subito “Ah, sì!”, ma dovrà aggrottare la fronte e fare uno sforzo, cercare di ricostruire i frammenti sparpagliati. Il biglietto del cinema che avrò tra le mani dovrà fare i conti con una trama che non ricordo bene, con attori vaghi e innominati, che sarà piacevole sforzarmi di ricostruire nei gesti e nelle battute.
Lo so, è un piccolo trucco per far finta che la vita abbia una continuità di senso, che le cose si succedano in qualche ordine, che possiamo ricostruire con un po’ di pazienza e un po’ di memoria.
È una piccola consolazione, lo so.
Ma so anche che la prossima primavera sarà meno tedioso fare il cambio di stagione.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
▼
mercoledì 25 novembre 2009
martedì 24 novembre 2009
E io che pensavo che due guerre mondiali, la Shoa e la decolonizzazione c'entrassero qualcosa con la perdita di centralità dell'Occidente!
Invece, sto scrivendo un pezzo su come "la rete" ha trattato la morte di Claude Lévi-Strauss per cui mi trovo a leggere diversi post e qualche necrologio. Evito quelli pubblicati sui giornali (ci pensa già una collega a recensire quelli) ma il capolavoro di Lucetta Scaraffia, brillante storica della Sapienza, pubblicato sull'Osservatore Romano il 5 novembre scorso non può passare inosservato.
Commentando l'opera forse più famosa di Lévi-Strauss, quella che gli ha dato fama di grande scrittore, vale a dire Tristi tropici, pubblicata nel 1955, dice infatti Scaraffia (se volete, leggete anche il resto):
Quindi, si badi bene, l'OCCIDENTE (e scriviamolo tutto maiuscolo, come merita, no?) ha perso il suo sex appeal non perché c'era una banda di pazzi nazisti (con buona parte dell'Occidente dietro) che voleva sterminare gli ebrei e i diversi, producendo quindi nei sopravvissuti orrore per quell'immagine monolitica dell'OCCIDENTE, ma perché un ebreo in fuga dai nazisti si era preso la briga di studiare come vivevano alcune sparute e inermi popolazioni indigene brasiliane.
L'OCCIDENTE è stato ferito a morte non dal delirio delle guerre nazionaliste, dalle dittature, dalla brutalità feroce del colonialismo cristiano, ma dalle miti considerazioni scettiche di un professorino francese che amava l'arte e raccontava (stupito lui per primo) di strane pratiche culturali.
L'OCCIDENTE, ovviamente, non è morto perché si è suicidato impiccandosi all'illusione fallimentare di essere la norma assoluta, trascinandosi dietro le macerie della sua protervia violenta che pretendeva di assimiliare tutto il mondo assoggettandolo al suo sistema di valori, ma è stato invece brutalmente assassinato da un libro, da pagine tristi, appunto, scritte da un uomo schivo e un po' snob, come molti suoi connazionali.
Peccato, non ce ne eravamo accorti. Provvederemo ovviamente a rimuovere un tale pericolo pubblico dalle nostre biblioteche, soprattutto quelle rivolte alla nostra sana gioventù in formazione.
In attesa della clonazione del defunto OCCIDENTE, si intende...
Commentando l'opera forse più famosa di Lévi-Strauss, quella che gli ha dato fama di grande scrittore, vale a dire Tristi tropici, pubblicata nel 1955, dice infatti Scaraffia (se volete, leggete anche il resto):
Grazie a questo libro, infatti, il mondo occidentale non è più la norma assoluta, ma solo una maniera fra le altre di percepire il mondo o di entrare in contatto con esso.Si capisce poi dal senso del necrologio che "grazie a questo libro" è un eufemismo cortese al posto di "per colpa di questo libro". Devo ammettere che una tale fiducia nella forza distruttrice della scrittura umana mi pare eccessiva. L'autrice dice che l'Occidente (qualunque cosa significhi questo termine) non è più la norma assoluta, vale a dire il riferimento di tutto il mondo, il punto a cui avrebbe dovuto tendere l'umanità in quanto tale, e non solo quella parte che geograficamente vi appartiene, a causa di un libro di malinconiche memorie di un filosofo francese con l'allergia per i viaggi ma costretto a qualche anno di esilio sud- e nord-americano per via delle sue origini ebraiche che lo esponevano al rischio della morte se fosse rimasto in Francia.
Quindi, si badi bene, l'OCCIDENTE (e scriviamolo tutto maiuscolo, come merita, no?) ha perso il suo sex appeal non perché c'era una banda di pazzi nazisti (con buona parte dell'Occidente dietro) che voleva sterminare gli ebrei e i diversi, producendo quindi nei sopravvissuti orrore per quell'immagine monolitica dell'OCCIDENTE, ma perché un ebreo in fuga dai nazisti si era preso la briga di studiare come vivevano alcune sparute e inermi popolazioni indigene brasiliane.
L'OCCIDENTE è stato ferito a morte non dal delirio delle guerre nazionaliste, dalle dittature, dalla brutalità feroce del colonialismo cristiano, ma dalle miti considerazioni scettiche di un professorino francese che amava l'arte e raccontava (stupito lui per primo) di strane pratiche culturali.
L'OCCIDENTE, ovviamente, non è morto perché si è suicidato impiccandosi all'illusione fallimentare di essere la norma assoluta, trascinandosi dietro le macerie della sua protervia violenta che pretendeva di assimiliare tutto il mondo assoggettandolo al suo sistema di valori, ma è stato invece brutalmente assassinato da un libro, da pagine tristi, appunto, scritte da un uomo schivo e un po' snob, come molti suoi connazionali.
Peccato, non ce ne eravamo accorti. Provvederemo ovviamente a rimuovere un tale pericolo pubblico dalle nostre biblioteche, soprattutto quelle rivolte alla nostra sana gioventù in formazione.
In attesa della clonazione del defunto OCCIDENTE, si intende...
Convegno
Inizia oggi (tra qualche minuto, mannaggia al mio tempismo), il Convegno
LA STORIA DOPO IL CINEMA. PERCEZIONE, SENSO, AZIONE NEL MONDO VISTO.
Qui trovate il pdf del programma completo del Convegno, che si tiene a Roma, al Cinema Sala Trevi, in via del puttarello, 25 (dietro Fontana di Trevi).
Domani mattina, alle 9.30, ci sarò anch'io, a presentare una relazione dal titolo:
La finzione nazionale. La rifrazione dell'identità cinese nel prisma della narrazione televisiva
Non conosco il cinese, tanto per chiarirci, e lavoro tutto su fonti già pubblicate, ma provo a inquadrare una mia riflessione sull'uso della fictionù, con un po' di Zizek, un po' di Althusser e un po' di teoria del nation building. Lo so, fa molto cultural studies, ma mi è venuta così.
Ecco l'abstract del mio intervento:
LA STORIA DOPO IL CINEMA. PERCEZIONE, SENSO, AZIONE NEL MONDO VISTO.
Qui trovate il pdf del programma completo del Convegno, che si tiene a Roma, al Cinema Sala Trevi, in via del puttarello, 25 (dietro Fontana di Trevi).
Domani mattina, alle 9.30, ci sarò anch'io, a presentare una relazione dal titolo:
La finzione nazionale. La rifrazione dell'identità cinese nel prisma della narrazione televisiva
Non conosco il cinese, tanto per chiarirci, e lavoro tutto su fonti già pubblicate, ma provo a inquadrare una mia riflessione sull'uso della fictionù, con un po' di Zizek, un po' di Althusser e un po' di teoria del nation building. Lo so, fa molto cultural studies, ma mi è venuta così.
Ecco l'abstract del mio intervento:
La narrazione per immagini ha anche in Cina un profondo impatto sulla rappresentazione delle identità collettive, ma non è solo il cinema a farsi carico di questa dimensione, dato che la produzione televisiva ha avuto fin dal suo apparire un’attenzione peculiare per la narrativa. Nella Cina del dopo Mao, il ruolo dell’indottrinamento è stato completamente sottratto agli apparati ideologi tradizionali per essere assunto quasi completamente dalla televisione e da altre forme di cultura popolare. Per lungo tempo, quindi, sono state la televisione e in generale la cultura popolare orientata dalle indicazioni dal Partito a costituire gli “apparati ideologici di Stato”, le strutture attraverso cui il sistema riproduce i rapporti di potere esistenti. In questo intervento analizzo il ruolo di alcune fiction tramesse negli anni Novanta nell'articolare una nuova immagine dell'identità nazionale cinese. In particolare, mi soffermo sulle soap operas Kewang, (Brame, 1990), Beijngren zai Niuyue (Pechinesi a New York, 1993), Eluosi gunian zai Harbin (Ragazze russe a Harbin, 1994), Yangniu zai Beijing (Ragazze straniere a Pechino, 1996).
L'analisi presentata porta a conclude che i melodrammi televisivi cinesi hanno un spessore simbolico notevole, che investe le caratteristiche sessuali e “razziali” della nazione cinese, e lo Stato nazionale sembra non essere estraneo all’orientamento del dibattito su queste tematiche attraverso l'uso delle fiction televisive.
Scusate!
Avevo disattivato la possibilità di commentare senza moderazione i post di questo blog (la cosa ovviamente non vale per chi mi legge sulle "note" di Fb, che arrivano dal blog) ma pensavo che blogger mi avvisasse via mail che c'erano stati commenti. Invece vedo che i commenti in attesa di essere visionati se ne stanno lì buoni buoni fin quando non entro per postare nuovamente, al che mi compare l'avviso che ci sono commenti da visionare. Quindi le mie scuse a quelli che hanno commentato in questi giorni e non hanno visto pubblicato il loro commento finora! Ho pubblicato i loro commenti e li ringrazio scusandomi nuovamente della mia sciatteria. D'ora in poi sarò più scrupoloso.
giovedì 19 novembre 2009
Secondi a chi?
Ieri, nella Sala del Mappamondo, della Camera dei Deputati, si è tenuta una conferenza stampa della Rete nazionale di seconde generazioni G2, per presentare la Campagna Cittadinanza G2 e il disegno di legge Sarubbi-Granata sulla possibilità di estendere la cittadinanza agli immigrati in regola residenti da almeno cinque anni e la garanzia che i figli di immigrati, nati in Italia o comunque qui cresciuti, possano accedere alla cittadinanza italiana senza particolari (e particolarmente odiose) trafile burocratiche.
Abbiamo sentito le testimonianze di Qenia (di origini brasiliane e nigeriane) e di Neva (di origini croate), italiane che non vedono riconosciuti i loro diritti, che non possono votare; che hanno forti limitazioni agli spostamenti (di fatto non possono viaggiare fuori dall’Italia mentre il loro permesso di soggiorno è in rinnovo, vale a dire per molti mesi all’anno, e spesso una volta rinnovato scade poco dopo); che non possono accedere ai concorsi pubblici anche quando ne avrebbero i titoli (perché molti concorsi sono riservati ai cittadini italiani o UE); che spesso non possono aprire una partita IVA (se la chiedono una volta esaurite le “quote”); che hanno enormi problemi a recuperare i documenti necessari per il matrimonio; che devono subire la trafila umiliante del rinnovo (spesso annuale!) del permesso di soggiorno, anche se sono nate qui come me o hanno fatto buona parte delle scuole qui, come me, che non mi sento certo in obbligo di “chiedere permesso” per restare in Italia; che quindi vivono sistematicamente come cittadini di serie B.
Ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa e lo scambio di informazioni, e propongo al dibattito queste mie riflessioni.
1. Chi vota la legge? La proposta di legge Sarubbi-Granata è sicuramente interessante (per quanto migliorabile), ma il vero rovello è un altro: chi effettivamente sarà disposto a votarla? Con questa maggioranza di Governo, tenuta in scacco dal razzismo della Lega, non vedo proprio come sia possibile un’operazione bi-partisan che sembra destinata a morire sul nascere, o a vivacchiare solo e fino a quando rimane un ballon d’essai senza alcuna velleità di effettiva realizzazione. La Rete G2, che si dichiara (giustamente!) apartitica deve fare i conti con il fatto che non solo nella società civile, ma dentro il cuore del Parlamento esistono spezzoni evidenti e consistenti del corpo politico che non hanno alcuna intenzione di lavorare in favore di una qualsivoglia integrazione dei cittadini immigrati e dei loro figli, e che anzi articolano i loro programmi politici sul razzismo, l’esclusione sociale del culturalmente o razzialmente diverso, e l’assimilazionismo più spudorato. Per quanto voglia giustamente trovare degli interlocutori istituzionali, la Rete G2 deve avere ben chiaro che nelle istituzioni alcuni sono referenti potenziali, ma altri sono chiaramente dei nemici, e come tali andrebbero trattati. Inutile farsi illusioni su questo punto, che è legato a quello successivo.
2. L’identità italiana. La Rete G2 sta chiedendo un diritto fondamentale per i propri aderenti e per tutti coloro che hanno una cultura italiana (parlano in italiano, pensano e scrivono in italiano, conoscono chi è Pippo Baudo e sanno riconoscere di chi sono i versi Sempre caro mi fu quest’ermo colle e Nel mezzo del cammin di nostra vita) ma non hanno il diritto di vedersi riconosciuti come italiani. Bisogna tuttavia avere chiaro in mente che questa loro richiesta coinvolge tutti noi italiani, anche quelli che credono di aver accesso garantito alla cittadinanza. Chiedere che si possa avere la cittadinanza italiana anche se si ha la pelle scura o gli occhi a mandorla, se si è musulmani o si crede nella reincarnazione, significa SGANCIARE una volta per tutte l’identità italiana dal colore della pelle e dalla religione. Significa che noi-che-abbiamo-la-cittadinanza-italiana-come-dato-di-fatto dobbiamo ammettere che è ora di finirla di concepire l’italianità come inevitabilmente associata a uno stereotipo fisico (la Cuccinotta?) o culturale (Padre Pio?) per riconoscere che l’identità italiana è qualcosa che costruiamo tutti insieme dibattendone. Significa ammettere che essere italiani è un processo identitario, un’appartenenza sempre in fieri, e che questi nostri connazionali dai colori “strani” ci stanno sollecitando su questo tema. Siamo disposti ad ammettere che italiani si diventa e che l’appartenenza nazionale non è un bene ereditato per via genetica o anche per via culturale direttamente parentale? Siamo pronti ad accettare il fatto che si possa essere pienamente italiani senza essere nati da genitori italiani, ma perché si è stati esposti alla cultura italiana nel processo di socializzazione?
Attenzione, il punto è cruciale: siamo disposti ad accettare il fatto che l’identità italiana NON DIPENDA DIRETTAMENTE DALLA FAMIGLIA CHE CI HA GENERATI?
Io ovviamente sono entusiasta di questa prospettiva dinamica, ma non so quanti connazionali possano al momento condividerla. Mi sembra doveroso ricordare agli amici della Rete G2 che parlando dei loro (sacrosanti) diritti stanno in effetti anche parlando dell’identità italiana di tutti gli italiani, e su questo punto è probabile che trovino le resistenze di tutti quegli italiani che (vedi punto 1) si fanno rappresentare da esponenti esplicitamente razzisti e intolleranti, che articolano invece un’ideologia dell’appartenenza completamente diversa, delegando alla famiglia di origine il diritto/dovere di inculcare l’identità nazionale. Il lavoro da fare, in questo senso, è complicatissimo, perché prevedere la possibilità che persone somaticamente e/o culturalmente eccentriche rispetto al modello steretipicamente normativo dell’identità nazionale italiana siano riconosciute come interlocutori legittimi per parlare dell’italianità e per contribuire alla sua costruzione.
3. La questione del nome. Per quanto, come si capisce, io sia del tutto in accordo con le richieste della Rete G2, trovo fuorviante il nome che si sono scelti, e mi azzardo a proporre una sua modifica. “Rete nazionale di seconde generazioni G2” lascia in sospeso a cosa si riferisca il “seconde”, producendo facilmente nella mente di chi legge o sente un effetto da “spazio bianco da riempire” con l’inevitabile etichetta “immigrate”, producendo un risultato finale “seconde generazioni di immigrati” che è errato (in quanto non parliamo di immigrati, ma di nati qui o arrivati a un’età in cui non si può proprio essere immigrati) e politicamente deleterio (dato che conferma nella mente di chi legge o ascolta “seconde generazioni” la convinzione che si tratti comunque di immigrati, di altri, mica di italiani con i quali fare i conti). Il rischio di questa denominazione, secondo me, è quindi quello di tagliare alla radice lo scandalo della condizione dei G2, che è invece quello di essere italiani non riconosciuti come tali, per essere ricondotto all’ennesima richiesta dell’ennesima lamentosa minoranza che si rivolge umilmente alla maggioranza per rivendicare qualche briciola di diritto.
No, io credo che la cosa, anche terminologicamente, andrebbe presa di petto, con un’espressione del tipo Italiani di Prima Generazione (IPG), a indicare che gli IPG sono i Primi nel susseguirsi delle Generazioni della loro famiglia, ad essere di cultura Italiana e quindi Italiani e basta. Mentre io, diciamo, sono italiano da diverse generazioni, gli IPG lo sono da una generazione (la loro), ma dato che nel nostro sistema giuridico l’appartenenza nazionale non è un sistema dinastico (dove si acquisisce prestigio tanto più quanto si allunga il pedigrée dall’antenato fondatore) ma è invece un sistema di diritti/doveri, gli IPG possono sensatamente battersi affinché la loro condizione di PG non intacchi in alcun modo i loro diritti di I(taliani).
Abbiamo sentito le testimonianze di Qenia (di origini brasiliane e nigeriane) e di Neva (di origini croate), italiane che non vedono riconosciuti i loro diritti, che non possono votare; che hanno forti limitazioni agli spostamenti (di fatto non possono viaggiare fuori dall’Italia mentre il loro permesso di soggiorno è in rinnovo, vale a dire per molti mesi all’anno, e spesso una volta rinnovato scade poco dopo); che non possono accedere ai concorsi pubblici anche quando ne avrebbero i titoli (perché molti concorsi sono riservati ai cittadini italiani o UE); che spesso non possono aprire una partita IVA (se la chiedono una volta esaurite le “quote”); che hanno enormi problemi a recuperare i documenti necessari per il matrimonio; che devono subire la trafila umiliante del rinnovo (spesso annuale!) del permesso di soggiorno, anche se sono nate qui come me o hanno fatto buona parte delle scuole qui, come me, che non mi sento certo in obbligo di “chiedere permesso” per restare in Italia; che quindi vivono sistematicamente come cittadini di serie B.
Ho ascoltato con attenzione la conferenza stampa e lo scambio di informazioni, e propongo al dibattito queste mie riflessioni.
1. Chi vota la legge? La proposta di legge Sarubbi-Granata è sicuramente interessante (per quanto migliorabile), ma il vero rovello è un altro: chi effettivamente sarà disposto a votarla? Con questa maggioranza di Governo, tenuta in scacco dal razzismo della Lega, non vedo proprio come sia possibile un’operazione bi-partisan che sembra destinata a morire sul nascere, o a vivacchiare solo e fino a quando rimane un ballon d’essai senza alcuna velleità di effettiva realizzazione. La Rete G2, che si dichiara (giustamente!) apartitica deve fare i conti con il fatto che non solo nella società civile, ma dentro il cuore del Parlamento esistono spezzoni evidenti e consistenti del corpo politico che non hanno alcuna intenzione di lavorare in favore di una qualsivoglia integrazione dei cittadini immigrati e dei loro figli, e che anzi articolano i loro programmi politici sul razzismo, l’esclusione sociale del culturalmente o razzialmente diverso, e l’assimilazionismo più spudorato. Per quanto voglia giustamente trovare degli interlocutori istituzionali, la Rete G2 deve avere ben chiaro che nelle istituzioni alcuni sono referenti potenziali, ma altri sono chiaramente dei nemici, e come tali andrebbero trattati. Inutile farsi illusioni su questo punto, che è legato a quello successivo.
2. L’identità italiana. La Rete G2 sta chiedendo un diritto fondamentale per i propri aderenti e per tutti coloro che hanno una cultura italiana (parlano in italiano, pensano e scrivono in italiano, conoscono chi è Pippo Baudo e sanno riconoscere di chi sono i versi Sempre caro mi fu quest’ermo colle e Nel mezzo del cammin di nostra vita) ma non hanno il diritto di vedersi riconosciuti come italiani. Bisogna tuttavia avere chiaro in mente che questa loro richiesta coinvolge tutti noi italiani, anche quelli che credono di aver accesso garantito alla cittadinanza. Chiedere che si possa avere la cittadinanza italiana anche se si ha la pelle scura o gli occhi a mandorla, se si è musulmani o si crede nella reincarnazione, significa SGANCIARE una volta per tutte l’identità italiana dal colore della pelle e dalla religione. Significa che noi-che-abbiamo-la-cittadinanza-italiana-come-dato-di-fatto dobbiamo ammettere che è ora di finirla di concepire l’italianità come inevitabilmente associata a uno stereotipo fisico (la Cuccinotta?) o culturale (Padre Pio?) per riconoscere che l’identità italiana è qualcosa che costruiamo tutti insieme dibattendone. Significa ammettere che essere italiani è un processo identitario, un’appartenenza sempre in fieri, e che questi nostri connazionali dai colori “strani” ci stanno sollecitando su questo tema. Siamo disposti ad ammettere che italiani si diventa e che l’appartenenza nazionale non è un bene ereditato per via genetica o anche per via culturale direttamente parentale? Siamo pronti ad accettare il fatto che si possa essere pienamente italiani senza essere nati da genitori italiani, ma perché si è stati esposti alla cultura italiana nel processo di socializzazione?
Attenzione, il punto è cruciale: siamo disposti ad accettare il fatto che l’identità italiana NON DIPENDA DIRETTAMENTE DALLA FAMIGLIA CHE CI HA GENERATI?
Io ovviamente sono entusiasta di questa prospettiva dinamica, ma non so quanti connazionali possano al momento condividerla. Mi sembra doveroso ricordare agli amici della Rete G2 che parlando dei loro (sacrosanti) diritti stanno in effetti anche parlando dell’identità italiana di tutti gli italiani, e su questo punto è probabile che trovino le resistenze di tutti quegli italiani che (vedi punto 1) si fanno rappresentare da esponenti esplicitamente razzisti e intolleranti, che articolano invece un’ideologia dell’appartenenza completamente diversa, delegando alla famiglia di origine il diritto/dovere di inculcare l’identità nazionale. Il lavoro da fare, in questo senso, è complicatissimo, perché prevedere la possibilità che persone somaticamente e/o culturalmente eccentriche rispetto al modello steretipicamente normativo dell’identità nazionale italiana siano riconosciute come interlocutori legittimi per parlare dell’italianità e per contribuire alla sua costruzione.
3. La questione del nome. Per quanto, come si capisce, io sia del tutto in accordo con le richieste della Rete G2, trovo fuorviante il nome che si sono scelti, e mi azzardo a proporre una sua modifica. “Rete nazionale di seconde generazioni G2” lascia in sospeso a cosa si riferisca il “seconde”, producendo facilmente nella mente di chi legge o sente un effetto da “spazio bianco da riempire” con l’inevitabile etichetta “immigrate”, producendo un risultato finale “seconde generazioni di immigrati” che è errato (in quanto non parliamo di immigrati, ma di nati qui o arrivati a un’età in cui non si può proprio essere immigrati) e politicamente deleterio (dato che conferma nella mente di chi legge o ascolta “seconde generazioni” la convinzione che si tratti comunque di immigrati, di altri, mica di italiani con i quali fare i conti). Il rischio di questa denominazione, secondo me, è quindi quello di tagliare alla radice lo scandalo della condizione dei G2, che è invece quello di essere italiani non riconosciuti come tali, per essere ricondotto all’ennesima richiesta dell’ennesima lamentosa minoranza che si rivolge umilmente alla maggioranza per rivendicare qualche briciola di diritto.
No, io credo che la cosa, anche terminologicamente, andrebbe presa di petto, con un’espressione del tipo Italiani di Prima Generazione (IPG), a indicare che gli IPG sono i Primi nel susseguirsi delle Generazioni della loro famiglia, ad essere di cultura Italiana e quindi Italiani e basta. Mentre io, diciamo, sono italiano da diverse generazioni, gli IPG lo sono da una generazione (la loro), ma dato che nel nostro sistema giuridico l’appartenenza nazionale non è un sistema dinastico (dove si acquisisce prestigio tanto più quanto si allunga il pedigrée dall’antenato fondatore) ma è invece un sistema di diritti/doveri, gli IPG possono sensatamente battersi affinché la loro condizione di PG non intacchi in alcun modo i loro diritti di I(taliani).
domenica 15 novembre 2009
La miseria di Roma
Ai miei studenti di Urban & Global Rome al Trinity College Rome Campus cerco di far vedere una Roma che altrimenti non vedrebbero. Non vedrebbero se rimanessero in centro a studiare la Roma classica e papalina, o a svagarsi tra Trastevere e Campo de’ Fiori.
Per questo visitiamo Pietralata e la sua borgata storica circondata dal quartiere abusivo (dove abito anch’io). Per questo li porto a Torpignattara a conoscere gli esponenti della comunità bengalese che hanno rivitalizzato un quartiere che si andava spopolando. Per questo andiamo in visita alla Moschea e alla Sinagoga, o parliamo con i figli dei negozianti cinesi dell’Esquilino e con gli occupanti di CasaPound. In questi walking tours (qui avete le mappe del giro a Pietralata e all’Esquilino) vediamo e sentiamo tante cose, quando possiamo mangiamo anche, per provare a incorporare un po’ meglio la diversità che ci circonda.
Il “giro” più impegnativo, questo semestre, è stato però in centro. Siamo stati al Joel Nafuma Refugee Center, un centro diurno gestito dalla chiesa episcopale di San Paolo entro le mura. Se guardate la facciata della chiesa, su via Nazionale, fate caso al cancello alla sinistra. Dalle 8 alle 14 è aperto e vedrete molti stranieri entrare e uscire. Lungo il corridoio che segue il muro esterno della Chiesa, si arriva sul retro, e da lì si può scendere in quella che era la cripta della Chiesa, ora trasformata in un centro diurno di accoglienza per persone che hanno fatto domanda di asilo politico nel nostro paese.
Abbiamo conosciuto D., curdo irakeno, arrivato da quasi due mesi. Ha tutte le carte in regola dal punto di vista legale, ma dorme per strada in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo è stata accolta. Dice che non se l’aspettava, non si aspettava che non avrebbe avuto alcun sostegno dallo stato italiano, mentre un gruppo di volontari americani gli insegna un po’ di italiano, o gli passa un po’ di schiuma da barba o un tè in un bicchiere di carta e cinque biscotti. Twana, il responsabile del centro, ci racconta che hanno un budget di circa mille euro al mese per tutte le spese del centro, che viene tutto da donazioni, e quindi da quest’anno chiudono alle 14, invece che alle 16.30 com’era fino all’anno scorso.
Conosciamo I.O., dalla Nigeria, in Italia da sei anni. Dorme a Termini sperando di trovare il modo di tornare al suo paese, a coltivare cassava se qualche ONG finanzierà il suo progetto. Ci parla del razzismo degli italiani, del razzismo della polizia italiana, di come a volte non si senta neppure considerato un essere umano.
Le storie che raccolgo e che sento sono spesso dolorose, o sono storie di rabbia.
C’è però un posto dove non ho ancora avuto il coraggio di portare i miei studenti, e questo posto non esiste più da quattro giorni. È il campo irregolare di Centocelle, un accampamento rom/romeno che il Comune ha raso al suolo la mattina dell'11 novembre scorso.
Che posso dire di quel posto? Forse l’unica cosa che mi sento di dire è che i bambini del campo andavano nella stessa scuola di mia figlia Rebecca, che due bambine erano in classe con mia figlia. Le famiglie si sono trovate smembrate, qualcuno spedito a Ponte Galeria, qualcuno spinto al rimpatrio in tutta fretta. Chi è rimasto ha dormito una notte a Villa de Sanctis, lì vicino, oltre un cordone di polizia che ha impedito ai cittadini che lo volessero (ed erano in molti) di portare qualche coperta, un po’ di cibo caldo o anche solo un po’ di solidarietà. Il tentativo di occupare un dismesso stabilimento industriale in via dei Gordiani (sede di un campo regolare poco più avanti) è stato bloccato di nuovo dalle forze dell’ordine.
Io proprio non ce la faccio a pensare ai miei doveri didattici, penso solo alla bimba romena da settembre compagna di classe di Rebecca che ho visto giovedì. All’uscita è venuto a prenderla un uomo in evidente stato di stress. Aveva i vestiti luridi e sembrava preda di una profonda angoscia. Non so che fine abbia fatto la mamma di quella bambina, né se lei tornerà nella classe di Rebecca, lunedì.
Non posso portare i miei studenti americani a confrontarsi con situazioni come questa, ma credo sia arrivato il momento di ripensare seriamente cosa siamo diventati, noi italiani, e cosa vogliamo diventare. Vedevo il pulmino che portava ogni giorno a scuola i bambini da quel campo e lì li riportava, mi sembrava un passo importante di inserimento sociale. Ora non so cosa vedrò la settimana prossima, ma posso immaginare che andare a scuola, per quei bambini, non sia più una priorità, e non mi pare un passo in avanti.
O, come cittadini, apriamo gli occhi sulla miseria che attraversa questa città e cominciamo a farcene carico, oppure ogni volta che la espelliamo con la forza o la neghiamo con l’indifferenza ne verremo invasi fino in fondo al nostro animo, inaridendoci ancora di più fino a seccare completamente, come società civile (nel senso letterale dell’espressione: raggruppamento di esseri umani che non vive allo stato ferino, società civile).
Per questo visitiamo Pietralata e la sua borgata storica circondata dal quartiere abusivo (dove abito anch’io). Per questo li porto a Torpignattara a conoscere gli esponenti della comunità bengalese che hanno rivitalizzato un quartiere che si andava spopolando. Per questo andiamo in visita alla Moschea e alla Sinagoga, o parliamo con i figli dei negozianti cinesi dell’Esquilino e con gli occupanti di CasaPound. In questi walking tours (qui avete le mappe del giro a Pietralata e all’Esquilino) vediamo e sentiamo tante cose, quando possiamo mangiamo anche, per provare a incorporare un po’ meglio la diversità che ci circonda.
Il “giro” più impegnativo, questo semestre, è stato però in centro. Siamo stati al Joel Nafuma Refugee Center, un centro diurno gestito dalla chiesa episcopale di San Paolo entro le mura. Se guardate la facciata della chiesa, su via Nazionale, fate caso al cancello alla sinistra. Dalle 8 alle 14 è aperto e vedrete molti stranieri entrare e uscire. Lungo il corridoio che segue il muro esterno della Chiesa, si arriva sul retro, e da lì si può scendere in quella che era la cripta della Chiesa, ora trasformata in un centro diurno di accoglienza per persone che hanno fatto domanda di asilo politico nel nostro paese.
Abbiamo conosciuto D., curdo irakeno, arrivato da quasi due mesi. Ha tutte le carte in regola dal punto di vista legale, ma dorme per strada in attesa di sapere se la sua richiesta di asilo è stata accolta. Dice che non se l’aspettava, non si aspettava che non avrebbe avuto alcun sostegno dallo stato italiano, mentre un gruppo di volontari americani gli insegna un po’ di italiano, o gli passa un po’ di schiuma da barba o un tè in un bicchiere di carta e cinque biscotti. Twana, il responsabile del centro, ci racconta che hanno un budget di circa mille euro al mese per tutte le spese del centro, che viene tutto da donazioni, e quindi da quest’anno chiudono alle 14, invece che alle 16.30 com’era fino all’anno scorso.
Conosciamo I.O., dalla Nigeria, in Italia da sei anni. Dorme a Termini sperando di trovare il modo di tornare al suo paese, a coltivare cassava se qualche ONG finanzierà il suo progetto. Ci parla del razzismo degli italiani, del razzismo della polizia italiana, di come a volte non si senta neppure considerato un essere umano.
Le storie che raccolgo e che sento sono spesso dolorose, o sono storie di rabbia.
C’è però un posto dove non ho ancora avuto il coraggio di portare i miei studenti, e questo posto non esiste più da quattro giorni. È il campo irregolare di Centocelle, un accampamento rom/romeno che il Comune ha raso al suolo la mattina dell'11 novembre scorso.
Che posso dire di quel posto? Forse l’unica cosa che mi sento di dire è che i bambini del campo andavano nella stessa scuola di mia figlia Rebecca, che due bambine erano in classe con mia figlia. Le famiglie si sono trovate smembrate, qualcuno spedito a Ponte Galeria, qualcuno spinto al rimpatrio in tutta fretta. Chi è rimasto ha dormito una notte a Villa de Sanctis, lì vicino, oltre un cordone di polizia che ha impedito ai cittadini che lo volessero (ed erano in molti) di portare qualche coperta, un po’ di cibo caldo o anche solo un po’ di solidarietà. Il tentativo di occupare un dismesso stabilimento industriale in via dei Gordiani (sede di un campo regolare poco più avanti) è stato bloccato di nuovo dalle forze dell’ordine.
Io proprio non ce la faccio a pensare ai miei doveri didattici, penso solo alla bimba romena da settembre compagna di classe di Rebecca che ho visto giovedì. All’uscita è venuto a prenderla un uomo in evidente stato di stress. Aveva i vestiti luridi e sembrava preda di una profonda angoscia. Non so che fine abbia fatto la mamma di quella bambina, né se lei tornerà nella classe di Rebecca, lunedì.
Non posso portare i miei studenti americani a confrontarsi con situazioni come questa, ma credo sia arrivato il momento di ripensare seriamente cosa siamo diventati, noi italiani, e cosa vogliamo diventare. Vedevo il pulmino che portava ogni giorno a scuola i bambini da quel campo e lì li riportava, mi sembrava un passo importante di inserimento sociale. Ora non so cosa vedrò la settimana prossima, ma posso immaginare che andare a scuola, per quei bambini, non sia più una priorità, e non mi pare un passo in avanti.
O, come cittadini, apriamo gli occhi sulla miseria che attraversa questa città e cominciamo a farcene carico, oppure ogni volta che la espelliamo con la forza o la neghiamo con l’indifferenza ne verremo invasi fino in fondo al nostro animo, inaridendoci ancora di più fino a seccare completamente, come società civile (nel senso letterale dell’espressione: raggruppamento di esseri umani che non vive allo stato ferino, società civile).
domenica 8 novembre 2009
Commenti sui post
Da un paio di settimane il mio blog è infestato di commenti ai post prodotti chiaramente da qualche sistema automatico. Qualcuno sa che senso abbia questo tipo di azioni e chi le organizza?
Credo che per rimediare alla situazione dovrò disattivare i commenti per qualche giorno. Chiedo scusa a tutti. Chi vuole e ha l'account, può comunque commentare il travaso di questi post sulle note di Facebook.
Credo che per rimediare alla situazione dovrò disattivare i commenti per qualche giorno. Chiedo scusa a tutti. Chi vuole e ha l'account, può comunque commentare il travaso di questi post sulle note di Facebook.
venerdì 6 novembre 2009
Blasfemi 2 La vendetta
Il post di Pietro Clemente ha aperto un piccolo dibattito travasato nelle mie note su Facebook (dove vanno a finire in copia tutti i post di questo blog). Ne riporto un paio rispettosamente critici nei confronti di quel che diceva Clemente.
Angelo Romano ha commentato:
E ha continuato Maurizio Palucci:
Non è in gioco il "diritto" di usare le parole. E' scontato che ognuno usa quelle che vuole, ci mancherebbe. Il punto è se quelle parole significano qualcosa per chi le dice o sono solo orecchiate e usate perché di moda. Gli antropologi hanno lavorato da decenni sul concetto di cultura, di tradizione e di identità, e hanno quindi imparato che sono parole difficili, dietro cui spesso si nascondono pervicaci questioni di potere. Clemente dice che manca la consapevolezza della rete semantica in cui quelle parole sono imbrigliate, che però continua a funzionare anche se non se ne rendono conto.
Quanto a Clara Gallini, non ha scritto un articolo, ma due libri interi. Eppure, andate a leggere i giornali e guardate a chi hanno chiesto un parere su questa questione: praticamente a tutti tranne che a chi se ne è occupato professionalmente. Questo è l'altro punto del post di Clemente (e leggete quel che dice Bourdieu sul ruolo dell'intellettuale se volete approfondire): il problema è che viviamo in un mondo di opinionisti, per cui se sei esperto in un campo (la botanica nucleare filiforme) ma per qualche ragione diventi noto (hai litigato in tv con Sgarbi), allora verrai interpellato anche sull'arte gotica, sulle tette in silicone e sul ruolo dei sensi unici nei centri storici. Questo è deleterio per il concetto stesso di sapere, che coincide con quello di fama, dal quale dovrebbe invece rimanere ben separato (episteme e doxa, dicevano gli antichi parlando di una questione molto simile). La comunicazione di massa è la principale artefice e vittima di questo meccanismo. Lo si vede anche con la morte di Lévi-Strauss: tutti i giornali ne hanno parlato perché Lévi-Strauss era famoso (per aver litigato con alcuni intellettuali negli anni Settanta), e quindi da famoso era trattato dai giornalisti italiani, non perché il pensiero di Lévi-Strauss fosse in qualche modo conosciuto o ritenuto importante (tant’è vero che l’hanno descritto come “il primo che ha studiato i primitivi” e scemenze del genere). Quando è morto Geertz due anni fa non se l’è cagato nessuno, anche se Geertz aveva cose molto più importanti e attuali da dire di Lévi-Strauss. La sua morte è passata inosservata perché Geertz non era famoso in Italia, non aveva fatto alcuna polemica, non aveva partecipato ai talk show, non era stato processato.
Chiaro che la battaglia per noi sembra persa in partenza: se vogliamo farci sentire sembriamo costretti a entrare nel gioco della fama, per cui non importerà più a nessuno cosa vogliamo dire, e ci limiteremo a essere famosi in quanto noti. Oppure siamo costretti alla marginalità per cui diciamo cose interessanti (a volte, almeno a volta, dai) ma non ci ascolta nessuno perché non siamo famosi (vedi i libri di Chiara Gallini).
La terza opzione è invece quella lenta, quella che più ci compete: poco alla volta, provare a scheggiare il monolite della fama e provare a lasciare un segno sulla struttura culturale: lavorare per una slow culture ecologica mi pare l’unica possibilità, e forse è per questo che rimango ottimista rispetto all’uso dei social network, dove questa dimensione ha ancora spazio.
Angelo Romano ha commentato:
c'è una cosa che non mi condivince di fondo. Che ci siano parole degli antropologi: tradizione identità senso comune. Attraverso le parole si comunica, ci sono gli antropologi, i politici, le persone, quelle persone del cui senso comune noi con un pò di presunzione ci riteniamo esegeti.
E ha continuato Maurizio Palucci:
Angelo ha ragione! Ci manca solo che per usare una parola dobbiamo chiedere il permesso a qualcunoVolevo rispondere direttamente nei commenti, ma mi è uscita una cosa un poco più lunga:
Con tutta la simpatia per il prof. Clemente il fatto che nessuno conosca l'articolo della Gallini la dice lunga sulla circolazione in ambiti ridottissimi di alcune ricerche e sull'interesse generale su alcune tematiche.
Non è in gioco il "diritto" di usare le parole. E' scontato che ognuno usa quelle che vuole, ci mancherebbe. Il punto è se quelle parole significano qualcosa per chi le dice o sono solo orecchiate e usate perché di moda. Gli antropologi hanno lavorato da decenni sul concetto di cultura, di tradizione e di identità, e hanno quindi imparato che sono parole difficili, dietro cui spesso si nascondono pervicaci questioni di potere. Clemente dice che manca la consapevolezza della rete semantica in cui quelle parole sono imbrigliate, che però continua a funzionare anche se non se ne rendono conto.
Quanto a Clara Gallini, non ha scritto un articolo, ma due libri interi. Eppure, andate a leggere i giornali e guardate a chi hanno chiesto un parere su questa questione: praticamente a tutti tranne che a chi se ne è occupato professionalmente. Questo è l'altro punto del post di Clemente (e leggete quel che dice Bourdieu sul ruolo dell'intellettuale se volete approfondire): il problema è che viviamo in un mondo di opinionisti, per cui se sei esperto in un campo (la botanica nucleare filiforme) ma per qualche ragione diventi noto (hai litigato in tv con Sgarbi), allora verrai interpellato anche sull'arte gotica, sulle tette in silicone e sul ruolo dei sensi unici nei centri storici. Questo è deleterio per il concetto stesso di sapere, che coincide con quello di fama, dal quale dovrebbe invece rimanere ben separato (episteme e doxa, dicevano gli antichi parlando di una questione molto simile). La comunicazione di massa è la principale artefice e vittima di questo meccanismo. Lo si vede anche con la morte di Lévi-Strauss: tutti i giornali ne hanno parlato perché Lévi-Strauss era famoso (per aver litigato con alcuni intellettuali negli anni Settanta), e quindi da famoso era trattato dai giornalisti italiani, non perché il pensiero di Lévi-Strauss fosse in qualche modo conosciuto o ritenuto importante (tant’è vero che l’hanno descritto come “il primo che ha studiato i primitivi” e scemenze del genere). Quando è morto Geertz due anni fa non se l’è cagato nessuno, anche se Geertz aveva cose molto più importanti e attuali da dire di Lévi-Strauss. La sua morte è passata inosservata perché Geertz non era famoso in Italia, non aveva fatto alcuna polemica, non aveva partecipato ai talk show, non era stato processato.
Chiaro che la battaglia per noi sembra persa in partenza: se vogliamo farci sentire sembriamo costretti a entrare nel gioco della fama, per cui non importerà più a nessuno cosa vogliamo dire, e ci limiteremo a essere famosi in quanto noti. Oppure siamo costretti alla marginalità per cui diciamo cose interessanti (a volte, almeno a volta, dai) ma non ci ascolta nessuno perché non siamo famosi (vedi i libri di Chiara Gallini).
La terza opzione è invece quella lenta, quella che più ci compete: poco alla volta, provare a scheggiare il monolite della fama e provare a lasciare un segno sulla struttura culturale: lavorare per una slow culture ecologica mi pare l’unica possibilità, e forse è per questo che rimango ottimista rispetto all’uso dei social network, dove questa dimensione ha ancora spazio.
giovedì 5 novembre 2009
Blasfemi al governo e all'opposizione
Volevo scriverlo io, questo post. Invece ci ha già pensato Pietro Clemente, che fa finta di fare il nonno ma invece è ancora bello pimpante sull'attualità.
E poi non ditemi che noi antropologi non ci occupiamo del presente. Siete voi che continuate a consultare i sociologi e i filosofi...
Il post è perfetto perché coglie il punto che tutti sottovalutano: il Potere è la posta in gioco, non la Tradizione o la Fede. POTER esporre il Crocefisso è in questo momento l'unica cosa che conta per chi si straccia le vesti per una sentenza ragionevole.
E poi non ditemi che noi antropologi non ci occupiamo del presente. Siete voi che continuate a consultare i sociologi e i filosofi...
Il post è perfetto perché coglie il punto che tutti sottovalutano: il Potere è la posta in gioco, non la Tradizione o la Fede. POTER esporre il Crocefisso è in questo momento l'unica cosa che conta per chi si straccia le vesti per una sentenza ragionevole.
Clara Gallini ha scritto nel 2007 il libro Croce e delizia. Usi e abuso di un simbolo, ed. Bollati Boringieri, nel 2009 ha scritto Il ritorno delle croci, ed. Manifestolibri, e anche la voce Crocefisso, in "Antropologia Museale" n.22.
Ha anticipato il dibattito attuale, ma pur avendo pubblicato con editori significativi, è come se nessuno dovesse far riferimento alla sua ricerca.
Ieri se avessi avuto un blog avrei intitolato :
Blasfemi al governo e all'opposizione, infatti sia il Ministro Gelmini, sia il segretario del PD Bersani ci hanno fatto sapere che non si può togliere il Crocefisso dalle scuole perchè è una antica tradizione, e perchè costituisce l'identità italiana, e, ha aggiunto Bersani il diritto è andato contro il senso comune.Tradizione identità senso comune sono parole degli antropologi, quando le usano i politici dovrebbero essere più attenti, Bersani ha equiparato il Crocifisso a Babbo Natale e a Re Carnevale, e la Gelmini alla pizza e alla pastasciutta. Mi sembra che più blasfemi di così non si possa essere. Per negare che il Crocefisso è un simbolo della fede cristiana, che però si usa esporre nei luoghi istituzionalmente laici solo nel cattolicissmo mondo d'Italia, e che quindi privilegia una religione sulle altre, lo si fa diventare un simbolo generico. Cosa c'è di più contrario al senso comune del crocifisso? Nella narrazione cristiana la crocifissione è stato un sacrificio straordinario per il bene degli uomini, come è possibile ridurlo al senso comune, all'identità e alla tradizione.
Direi che chi rispetta quel simbolo sente che c'è sotto una questione di potere, di voti, di paura della laicità.
Leggete per piacere e fate leggere gli scritti di Clara Gallini
pietro
mercoledì 4 novembre 2009
Pensieri de-strutturati sulla morte di Claude Lévi-Strauss
Non lo sentivo da mesi, il mio amico ed ex allievo Elia Romanelli. Ma ieri mi ha chiamato per la morte di Lévi-Strauss, gli è sembrato un gesto necessario, sono stato il primo a insegnargli un po' di antropologia e Lévi-Strauss era morto, come se tra le due cose vi fosse un legame necessario ed evidente.
Non ho saputo dirgli nulla di sensato, gli ho chiesto invece di lui, del suo lavoro di regista, e gli ho raccontato delle mie ricerche, di come va la famiglia. Poi ho pensato che avrei voluto dirgli questo.
Dovrei dire qualcosa, ma non riesco a organizzare un discorso anche solo abbozzato.
Era l’antropologo più famoso al mondo, in Italia forse l’unico antropologo famoso (a parte Augé divenuto di moda più come tuttologo, mi pare), comunque l’unico antropologo che faceva debolmente luccicare l’occhio dei giornalisti delle redazioni culturali. Per me ha significato l’antropologia tout court fino alla fine degli anni Ottanta, quando ho scoperto Geertz.
Per me ha significato l’effimera illusione che “formale” coincidesse con “scientifico”.
Per me è stato l’ultimo antropologo dell’Ottocento (sua definizione) a morire curiosamente nel Terzo Millennio.
Per me è stato la verginità intellettuale, la convinzione che si potesse studiare l’Altro senza farsene sostanzialmente intaccare, ma limitandosi ad osservarlo come un insetto in formalina.
Ci ha illuso che l’antropologia potesse essere una disciplina “semplice” come l’intendeva lui, fatta di prescrizioni operative, di cose da scegliere e combinare. Ci ha illuso che la conoscenza fosse un esercizio solitario, e non un processo relazionale.
Uno dei cervelli più acuminati del Novecento, terrorizzato dal lavoro che avrebbe dovuto fare, direi. Di lui ricordo un ricordo di un amico francese, che nei primi anni Novanta ancora lo vedeva zoppicare nella biblioteca dell’Ecole. Ricordo il ricordo di Sperber, che non frequentò i suoi corsi per protesta, per poi pentirsene. E allora ricordo il ricordo/citazione di Clifford, mi pare da New York pre e post-figurativa: l’indiano con le penne in testa e la penna Parker per prendere appunti nella biblioteca di New York durante la seconda guerra mondiale, che lui, collezionista di stampe di ritratti di pellirosse, aveva frainteso come una sopravvivenza di un passato in via di sparizione, mentre era il vivissimo prodromo di un mondo meticcio di là da venire ma di cui, se avesse avuto un po’ meno paura dei suoi oggetti di studio, avrebbe dovuto cogliere i vagiti.
Per tutti, è stato il punto fermo delle nostre critiche degli ultimi trent’anni. Non siamo post-strutturalisti, siamo post-lévistraussiani, perché è sostanzialmente contro di lui che abbiamo scritto, almeno dal 1986 in avanti.
Io ero stregato dalle strutture, dall’operatore totemico che sembrava un diamante, e poi ho letto “Il cristallo e la fiamma” di Calvino, e assieme alla lettura di Geertz quel diamante mi si è sbriciolato in mano.
Mi è rimasto il gioco euristico di sparare opposizioni quando non capisco una cosa che cerco di studiare, e spesso mi vengono fuori associazioni che funzionano e mi fanno capire meglio.
Mi è rimasta tutta la mia distanza per il suo sguardo da lontano, che non capisco più, che trovo orrendamente disinteressato agli uomini vivi. Mi è rimasto lo sbigottimento per il suo elogio dell’etnocentrismo con la sua visione delle culture come vagoni di treni separati, e tutta la distanza che voglio mettere tra quell’immagine e la mia concezione delle culture e del modo di studiarle.
Mi è rimasta la voglia intellettuale di uccidere il Buddha, ogni volta che l’incontro, che è quello che spero di insegnare ai miei studenti.