Ho letto il 18 aprile 2025 sul Foglio il resoconto di un incontro della Commissione parlamentare sugli enti previdenziali, dove i funzionari dell’Inps hanno osato ricordare ai parlamentari che, udite udite, la legge va rispettata. Non solo: che esistono dati, proiezioni, perfino tabelle attuariali. Non era un attacco alla sovranità popolare, ma poco ci mancava. Uno di loro ha pure pronunciato con fierezza l’espressione “speranza di vita”, mettendo in serio imbarazzo la componente leghista presente, visibilmente disturbata da questa nozione eversiva.
Da antropologo, potrei
cavarmela con un’alzata di spalle: lo Stato è una finzione, un’astrazione, un
“cattivo oggetto” del pensiero critico. Ce lo insegnano molti colleghi (e l’amico e maestro Michael Herzfeld, con il suo Lo Stato-nazione e i suoi mali, è solo
l’ultimo, e uno dei più brillanti, della lista): lo Stato è solo un Vuoto Burocratico, la Nazione
è invece il sanguinolento Peccato Originale, e la loro unione è il patto faustiano che ha
dato origine al moderno Leviatano.
Ma sarà vero?
Intanto, questa visione ipostatizza
lo Stato: lo tratta come un’entità compatta, con un’unica
volontà, un solo volto, un cuore nero che batte all’unisono con la burocrazia.
Ma quello che abbiamo davanti – e l’articolo sul Foglio lo mostra bene –
non è un monolite, ma un campo di tensione. Non c’è “lo Stato”, ma ci
sono amministratori e politici, tecnici e tribuni, ragionieri e romantici.
Alcuni (pochi) che fanno i conti, altri (molti) che fanno i proclami.
Alcuni che parlano di responsabilità amministrativa, altri che invocano il
popolo come se fosse una truppa da scagliare contro i numeri.
E poi c’è la Nazione,
che è l’altro grande frainteso. Perché quando critichiamo “lo Stato-nazione” lo
facciamo spesso con una idea etnicizzata, tribale, di Nazione: un branco
identitario, un’unità di sangue, lingua, magari anche di stomaco (con
preferenze culinarie vincolanti). Ma esiste anche un’idea civica di
Nazione: un patto tra diversi, un progetto condiviso, una
comunità che si regge su valori generalizzabili, se non universali.
La distinzione tra nazionalismo
“etnico” e “civico” – un tempo cara ai politologi quando si trattava di
spiegare la dissoluzione della Jugoslavia o le contraddizioni dell’URSS – è
stata via via archiviata come semplificazione ideologica. Eppure, se
torniamo con l’occhio dell’antropologo a osservare i gesti, le parole e gli
stili di appartenenza, la distinzione regge. L’etnico esclude, il civico
include. L’etnico è competitivo (pensa alla vendetta), il civico è cooperativo
(pensa alla reciprocità). E se vogliamo proprio dirla con Mauss, l’etnico
accumula debiti e rancori, il civico costruisce circuiti di dono.
Così lo Stato-nazione può
essere, alternativamente, un disastro o una benedizione. Dipende da
che tipo di Nazione gli mettiamo dentro.
Quando i dirigenti Inps parlano
di “danno erariale” e di “adeguamento alle aspettative di vita”, non stanno
difendendo uno Stato cinico o oppressivo. Stanno, forse, provando a fare la
parte dei custodi del bene comune. E se la politica li deride o li
contrasta, non è per difendere la gente, ma per blandirla. È il gioco
populista: dire a ciascuno che ha ragione, anche quando i conti dicono il
contrario.
In questo senso, lo Stato non è
il problema. È un’arena, una piattaforma, un meccanismo. Può essere
riempito di contenuti etnici o civici, tribali o solidali. La questione vera è
quale idea di Nazione vogliamo far passare attraverso di esso. Vogliamo
un’Italia di clan e segmenti, ognuno col suo diritto acquisito come
privilegio? O un’Italia di cittadini, dove i diritti sono tali proprio
perché sono per tutti?
Una volta, durante un
seminario, un collega mi chiese: “ma tu ci credi ancora allo Stato?”. Gli
risposi che non credo mai alle astrazioni, ma mi affeziono facilmente
agli strumenti. Lo Stato, se funziona, è uno strumento bellissimo. Il
problema, semmai, è capire a chi lo mettiamo in mano. E con quale idea di
"noi" alle spalle.
Perché, come diceva Flaiano,
“l’Italia è una Repubblica fondata sullo Stato, ma anche lo Stato è fondato
sull’italiano medio. E l’italiano medio è fondato, purtroppo, sul sospetto che
qualcuno stia fregando la pensione a suo zio.”