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sabato 19 aprile 2025

Il problema non è lo Stato. È il concetto di Nazione

Ho letto il 18 aprile 2025 sul Foglio il resoconto di un incontro della Commissione parlamentare sugli enti previdenziali, dove i funzionari dell’Inps hanno osato ricordare ai parlamentari che, udite udite, la legge va rispettata. Non solo: che esistono dati, proiezioni, perfino tabelle attuariali. Non era un attacco alla sovranità popolare, ma poco ci mancava. Uno di loro ha pure pronunciato con fierezza l’espressione “speranza di vita”, mettendo in serio imbarazzo la componente leghista presente, visibilmente disturbata da questa nozione eversiva.

Da antropologo, potrei cavarmela con un’alzata di spalle: lo Stato è una finzione, un’astrazione, un “cattivo oggetto” del pensiero critico. Ce lo insegnano molti colleghi (e l’amico e maestro Michael Herzfeld, con il suo Lo Stato-nazione e i suoi mali, è solo l’ultimo, e uno dei più brillanti, della lista): lo Stato è solo un Vuoto Burocratico, la Nazione è invece il sanguinolento Peccato Originale, e la loro unione è il patto faustiano che ha dato origine al moderno Leviatano.

Ma sarà vero?

Intanto, questa visione ipostatizza lo Stato: lo tratta come un’entità compatta, con un’unica volontà, un solo volto, un cuore nero che batte all’unisono con la burocrazia. Ma quello che abbiamo davanti – e l’articolo sul Foglio lo mostra bene – non è un monolite, ma un campo di tensione. Non c’è “lo Stato”, ma ci sono amministratori e politici, tecnici e tribuni, ragionieri e romantici. Alcuni (pochi) che fanno i conti, altri (molti) che fanno i proclami. Alcuni che parlano di responsabilità amministrativa, altri che invocano il popolo come se fosse una truppa da scagliare contro i numeri.

E poi c’è la Nazione, che è l’altro grande frainteso. Perché quando critichiamo “lo Stato-nazione” lo facciamo spesso con una idea etnicizzata, tribale, di Nazione: un branco identitario, un’unità di sangue, lingua, magari anche di stomaco (con preferenze culinarie vincolanti). Ma esiste anche un’idea civica di Nazione: un patto tra diversi, un progetto condiviso, una comunità che si regge su valori generalizzabili, se non universali.

La distinzione tra nazionalismo “etnico” e “civico” – un tempo cara ai politologi quando si trattava di spiegare la dissoluzione della Jugoslavia o le contraddizioni dell’URSS – è stata via via archiviata come semplificazione ideologica. Eppure, se torniamo con l’occhio dell’antropologo a osservare i gesti, le parole e gli stili di appartenenza, la distinzione regge. L’etnico esclude, il civico include. L’etnico è competitivo (pensa alla vendetta), il civico è cooperativo (pensa alla reciprocità). E se vogliamo proprio dirla con Mauss, l’etnico accumula debiti e rancori, il civico costruisce circuiti di dono.

Così lo Stato-nazione può essere, alternativamente, un disastro o una benedizione. Dipende da che tipo di Nazione gli mettiamo dentro.

Quando i dirigenti Inps parlano di “danno erariale” e di “adeguamento alle aspettative di vita”, non stanno difendendo uno Stato cinico o oppressivo. Stanno, forse, provando a fare la parte dei custodi del bene comune. E se la politica li deride o li contrasta, non è per difendere la gente, ma per blandirla. È il gioco populista: dire a ciascuno che ha ragione, anche quando i conti dicono il contrario.

In questo senso, lo Stato non è il problema. È un’arena, una piattaforma, un meccanismo. Può essere riempito di contenuti etnici o civici, tribali o solidali. La questione vera è quale idea di Nazione vogliamo far passare attraverso di esso. Vogliamo un’Italia di clan e segmenti, ognuno col suo diritto acquisito come privilegio? O un’Italia di cittadini, dove i diritti sono tali proprio perché sono per tutti?

Una volta, durante un seminario, un collega mi chiese: “ma tu ci credi ancora allo Stato?”. Gli risposi che non credo mai alle astrazioni, ma mi affeziono facilmente agli strumenti. Lo Stato, se funziona, è uno strumento bellissimo. Il problema, semmai, è capire a chi lo mettiamo in mano. E con quale idea di "noi" alle spalle.

Perché, come diceva Flaiano, “l’Italia è una Repubblica fondata sullo Stato, ma anche lo Stato è fondato sull’italiano medio. E l’italiano medio è fondato, purtroppo, sul sospetto che qualcuno stia fregando la pensione a suo zio.”