Victor
Davis Hanson non è un
intellettuale facile da inquadrare, soprattutto per chi è abituato alle
coordinate europee. Storico militare
di formazione classica, editorialista conservatore, coltivatore di uva passa,
Hanson è una figura ibrida che si muove con disinvoltura tra Tucidide e le elezioni presidenziali americane, tra Omero e i droni sopra il
Golfo Persico. Lo seguo sempre con attenzione – anche quando non ne condivido
le conclusioni – perché ha una qualità rara: sa di cosa parla.
Che cosa
significa “sapere di cosa si parla”? Significa avere competenze adeguate. E questo non è affatto scontato, in un’epoca
in cui le opinioni si moltiplicano
più velocemente delle analisi, e le emozioni
si sostituiscono volentieri alle deduzioni. Hanson, invece, è uno che deduce. E qualche volta, come accade
nel testo da cui prendo spunto, deduce con precisione quasi profetica,
ma non perché sia ispirato da visioni apocalittiche, bensì perché osserva, collega, conclude.
Nel suo commento del 24 febbraio scorso, Hanson analizzava con freddezza – e una certa urgenza – il rischio che l’Iran entri nel club delle potenze nucleari. La stima che circolava era netta: un mese di tempo, forse meno, se Teheran decide di spingere sull’arricchimento dell’uranio. Gli equilibri regionali ne sarebbero sconvolti. Eppure, nessuno agisce davvero. Qui entra in gioco la sua metafora: quella della favola di Esopo sull’assemblea dei topi. Tutti d’accordo che bisogna mettere il campanello al collo del gatto, ma chi si prende la responsabilità di farlo?
Hanson nota
che mentre l’Iran è tecnicamente isolato – economia in crisi, blackout, alleati
regionali fiaccati o sconfitti – nessuno sembra disposto ad approfittare della situazione. Né gli europei, né i
cinesi, né i russi, né gli americani. E ovviamente neppure Israele, che però è
il soggetto più direttamente minacciato. L’Iran, sostiene Hanson, è al tempo
stesso pericoloso e vulnerabile: il momento per un intervento
preventivo, se mai ci sarà, è adesso.
Domani potrebbe essere troppo tardi. Soprattutto se, come lui stesso sostiene,
la bomba Teheran è giusto a un passo dall’averla disponibile.
L’elemento
interessante non è solo la lucidità dell’analisi geopolitica, ma il fatto che
Hanson pensa a scenari reali, con
opzioni praticabili. Due quelle
principali:
1. Massima pressione economica, fino a un eventuale blocco navale;
2. Intervento militare preventivo, con il supporto degli Stati Uniti, che dovrebbero
però dichiarare sin da subito: “Se colpite, noi vi copriamo”.
È una posizione
che si può condividere o contestare, ma non si può ignorare. Perché si fonda su un principio che andrebbe ricordato
sempre: non si può analizzare il mondo con strumenti retorici, con gli
slogan da talk show o con l’autosuggestione identitaria. Serve competenza. Serve conoscenza dei dossier, dei precedenti storici, degli equilibri
strategici, dei dati tecnici. E magari anche un po’ di latino e agronomia,
perché la mente si forma anche zappando e leggendo Cicerone.
In un’epoca in
cui si confonde l’attivismo con
l’analisi e la morale con la
strategia, gente come Victor Davis Hanson può non piacere, ma serve. Serve
perché ci ricorda che per dire cose serie bisogna sapere cose serie. E che a forza di prendere le distanze dai
“profeti di sventura” finisce che ignoriamo anche quelli che – con metodo e non
con isteria – ci mostrano un pericolo reale.
Non è detto
che abbiano sempre ragione. Ma è certo che sbagliare dopo averli letti è
diverso dallo sbagliare perché li si è ignorati. E la differenza sta tutta lì: nelle
competenze.
Chi mette il
campanellino al gatto? Magari nessuno. Ma intanto ascoltiamo almeno quelli che
conoscono i gatti, i topi, e anche le dinamiche delle assemblee.