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lunedì 16 giugno 2025

Chi mette il campanellino al gatto? Sull’importanza di sapere quel che si dice

Victor Davis Hanson non è un intellettuale facile da inquadrare, soprattutto per chi è abituato alle coordinate europee. Storico militare di formazione classica, editorialista conservatore, coltivatore di uva passa, Hanson è una figura ibrida che si muove con disinvoltura tra Tucidide e le elezioni presidenziali americane, tra Omero e i droni sopra il Golfo Persico. Lo seguo sempre con attenzione – anche quando non ne condivido le conclusioni – perché ha una qualità rara: sa di cosa parla.

Che cosa significa “sapere di cosa si parla”? Significa avere competenze adeguate. E questo non è affatto scontato, in un’epoca in cui le opinioni si moltiplicano più velocemente delle analisi, e le emozioni si sostituiscono volentieri alle deduzioni. Hanson, invece, è uno che deduce. E qualche volta, come accade nel testo da cui prendo spunto, deduce con precisione quasi profetica, ma non perché sia ispirato da visioni apocalittiche, bensì perché osserva, collega, conclude.

Nel suo commento del 24 febbraio scorso, Hanson analizzava con freddezza – e una certa urgenza – il rischio che l’Iran entri nel club delle potenze nucleari. La stima che circolava era netta: un mese di tempo, forse meno, se Teheran decide di spingere sull’arricchimento dell’uranio. Gli equilibri regionali ne sarebbero sconvolti. Eppure, nessuno agisce davvero. Qui entra in gioco la sua metafora: quella della favola di Esopo sull’assemblea dei topi. Tutti d’accordo che bisogna mettere il campanello al collo del gatto, ma chi si prende la responsabilità di farlo?


Hanson nota che mentre l’Iran è tecnicamente isolato – economia in crisi, blackout, alleati regionali fiaccati o sconfitti – nessuno sembra disposto ad approfittare della situazione. Né gli europei, né i cinesi, né i russi, né gli americani. E ovviamente neppure Israele, che però è il soggetto più direttamente minacciato. L’Iran, sostiene Hanson, è al tempo stesso pericoloso e vulnerabile: il momento per un intervento preventivo, se mai ci sarà, è adesso. Domani potrebbe essere troppo tardi. Soprattutto se, come lui stesso sostiene, la bomba Teheran è giusto a un passo dall’averla disponibile.

L’elemento interessante non è solo la lucidità dell’analisi geopolitica, ma il fatto che Hanson pensa a scenari reali, con opzioni praticabili. Due quelle principali:

1.   Massima pressione economica, fino a un eventuale blocco navale;

2.   Intervento militare preventivo, con il supporto degli Stati Uniti, che dovrebbero però dichiarare sin da subito: “Se colpite, noi vi copriamo”.

È una posizione che si può condividere o contestare, ma non si può ignorare. Perché si fonda su un principio che andrebbe ricordato sempre: non si può analizzare il mondo con strumenti retorici, con gli slogan da talk show o con l’autosuggestione identitaria. Serve competenza. Serve conoscenza dei dossier, dei precedenti storici, degli equilibri strategici, dei dati tecnici. E magari anche un po’ di latino e agronomia, perché la mente si forma anche zappando e leggendo Cicerone.

In un’epoca in cui si confonde l’attivismo con l’analisi e la morale con la strategia, gente come Victor Davis Hanson può non piacere, ma serve. Serve perché ci ricorda che per dire cose serie bisogna sapere cose serie. E che a forza di prendere le distanze dai “profeti di sventura” finisce che ignoriamo anche quelli che – con metodo e non con isteria – ci mostrano un pericolo reale.

Non è detto che abbiano sempre ragione. Ma è certo che sbagliare dopo averli letti è diverso dallo sbagliare perché li si è ignorati. E la differenza sta tutta lì: nelle competenze.

Chi mette il campanellino al gatto? Magari nessuno. Ma intanto ascoltiamo almeno quelli che conoscono i gatti, i topi, e anche le dinamiche delle assemblee.