In un saggio che – salvo imprevisti in peer review – dovrebbe uscire tra qualche mese su una rivista di antropologia, lo dico chiaramente: nel codice etico che si è imposto nell'accademia, il “popolo” è sempre nel giusto (perché oppresso), lo “Stato” sempre dalla parte del torto (perché esercita il potere). Se poi quello Stato è occidentale, liberale, bianco, magari persino democratico, allora è colpevole prima ancora di aver agito. In questo schema, Israele è sempre Stato, e quindi sempre colpevole. I palestinesi, invece, sono sempre popolo, e quindi sempre nel giusto.
Non è questione di geopolitica, è
questione di logica simbolica. Perché mentre Israele è visto come un soggetto saturo,
ipermoderno, insidiosamente simile a “noi”, la Cina – per quanto potente e
invasiva – resta simbolicamente altra, distante, opaca,
esotica. E quindi non mobilita indignazione, nonostante detenga, nel solo
Xinjiang, almeno un milione di persone in strutture di detenzione con accuse
documentate di sterilizzazioni forzate, sorveglianza biometrica e rieducazione
culturale.
Giulia Pompili,
sul Foglio,
ha scritto il 4 giugno un pezzo perfetto per raccontare come la Cina stia vincendo
non solo sul piano economico, ma anche su quello narrativo. Nessuno
parla più del genocidio uiguro, nessuno protesta per le “vacanze
forzate” con cui Pechino silenzia i dissidenti durante le commemorazioni
sensibili, nessuno chiede il boicottaggio delle università cinesi che
collaborano apertamente con l’industria della sorveglianza di Stato. Tutti
zitti. Troppo grande, troppo lontana, troppo poco occidentale per
scandalizzare i nostri paladini della giustizia.
Contro Israele, invece, si organizzano
seminari, toolkit, scioperi della fame e lettere collettive. Si parla di apartheid,
si invocano le sanzioni. A volte si arriva a negare perfino che esista un
“popolo israeliano”, pur di non dover riconoscere che anche tra gli ebrei ci
sono civili, vittime, storie, vite. Tutto viene assorbito dallo Stato, che
diventa un’unica entità astratta da colpire con zelo moralistico. A Gaza,
invece, ogni combattente armato è anche, prima di tutto, parte del popolo. E
quindi, per definizione, dalla parte giusta.
È questo il doppio standard che
analizzo nel mio articolo: un popolo vale quando l’oppressore ha la nostra
faccia. Altrimenti no. E infatti, chi oggi firma petizioni per Gaza, tace sullo
Xinjiang. Chi chiede il boicottaggio degli atenei israeliani,
stipula accordi con i politecnici cinesi che collaborano con il
ministero della difesa. Chi invoca la morale, seleziona accuratamente i
destinatari. Perché nella nuova etica selettiva, la giustizia non è un
principio universale, ma una leva per posizionarsi simbolicamente nel
mercato globale della virtù.
Sta vincendo la Cina. Non solo perché
cresce, ma perché si mimetizza. Ha trasformato i campi di rieducazione
in mete turistiche, ha spento la memoria di Tiananmen, ha ridotto al
silenzio ogni voce dissidente. E noi, nel frattempo, tutti indignati con
Israele, tutti convinti che lì – e solo lì – si giochi la partita decisiva del
Bene contro il Male. Lì, e non altrove.
Questa estate, lo dice Pompili, cinque
milioni di persone visiteranno lo Xinjiang. È la nuova frontiera del turismo
esperienziale. Magari qualcuno tornerà a casa con un foulard uiguro e il
cuore leggero. Tutti in vacanza nei campi di cotone. Ma con coscienza etica. Purché
non si parli ebraico.