Durante uno degli ultimi esami, mentre correggevo i compiti in una sessione già abbastanza rognosa, ho chiesto a uno studente – preparato, per carità, ha preso 28 – chi fossero i responsabili dei bombardamenti a Gaza. Stavamo parlando di nazionalismo, il tema c’entrava. Il ragazzo ci pensa un attimo, poi sussurra: “Iran?” Alla mia faccia perplessa, ha subito reagito con grande sicurezza morale: “Io ho comunque un'opinione molto chiara: i palestinesi si battono per la loro libertà, Israele sta commettendo un genocidio.”
Ora, può darsi che l'agitazione dell’esame
abbia fatto effetto. Ma a me è venuta in mente una scenetta su Facebook dell’anno
scorso: una signora – laureata e insegnante, ci teneva a specificarlo –
mi contattò perché, in quanto antropologo e persona "dalla faccia
giusta", avrei dovuto per forza sottoscrivere la sua indignazione contro
quei nazisti dei sionisti. Bastarono tre domande (non retoriche) perché svanisse
nel silenzio digitale.
Mi colpisce sempre di più quanto il
senso comune sia fatto di piccoli prestiti ideologici messi insieme come un
outfit da Zara: l’importante è che non stoni troppo nella bolla dove ci si
muove. Se sei nella bolla giusta, il potere è sempre dall'altra parte. E
tu, ovviamente, sei l’oppressə.
Ora, qui entra in scena il povero
Foucault. Che povero non è, certo, ma maltrattato sì. Il suo pensiero –
sottile, radicale, pieno di paradossi – viene oggi ridotto a una pantomima
militante in cui il potere è diventato un'entità maligna, una specie di
Sauron invisibile incarnato in comode figurine da esorcizzare: il
Capitalismo, il Patriarcato, lo Stato, il Neoliberismo. Non si analizzano,
si denunciano. Non si pensano, si accusano. Come se la realtà fosse un film
Marvel e bastasse individuare il supercattivo per stare dalla parte dei buoni.
Ma Foucault diceva altro. Diceva che il
potere non piove dall’alto: si infiltra, si distribuisce, si moltiplica.
Non è un cappio, è un tessuto. Non è un ordine, è un desiderio.
E infatti la ricerca empirica – quella
roba noiosa che i meme non leggono – ci racconta che il potere più forte non
è quello che comanda, ma quello che conforma. Uno studio di Tennie, Call e
Tomasello (2009) ci ricorda che noi umani non siamo tanto “animali politici”
quanto animali conformisti. Fin da bambini non solo imitiamo gli altri,
ma ci indigniamo se qualcuno esce dal copione. Protestiamo contro la
deviazione anche quando è più efficace. Perché? Perché non è quella giusta.
E "giusta" vuol dire: quella che fanno gli altri. Non quella
che ha senso, non quella che funziona, ma quella che conferma l’appartenenza.
Il potere, insomma, non è nei comandi.
È nel bisogno di essere dentro. Di non stonare. Di non sembrare fuori moda,
fuori sincrono, fuori contesto. Il conformismo non è una gabbia imposta: è
un desiderio condiviso. È la nostra brama di essere accettati, accolti,
riconosciuti. E quindi: imitati.
Ecco allora che il controllo non arriva
più dal re o dal colonnello, ma dal gruppo Whatsapp. Dal profilo Instagram.
Dalla compagna di scuola che ti corregge il linguaggio. Il potere diventa
diffuso, impersonale, eppure implacabile: ti dice cosa pensare senza mai
parlare. E quando parla, è con la voce della tua cerchia. Della tua bolla.
Della tua comfort zone ideologica.
Questo spiega perché Israele, che non è
affatto il centro dell’universo morale ma nemmeno il Male assoluto, oggi perda
la battaglia che conta davvero: quella dell’immaginario. Non perché esista
un complotto. Ma perché, in questo gioco di conformismo moralmente
prêt-à-porter, il frame è già cucito. E Israele non veste bene. Troppo
complicato, troppo divisivo, troppo fuori taglia.
Alla fine, ciò che chiamiamo “opinione”
è spesso solo una postura conformista con pretese morali. Una giacca ben
stirata, un look coerente, un outfit intellettuale da indossare con
disinvoltura. La domanda su chi stia bombardando Gaza può essere un vuoto
informativo. Ma l’opinione morale dev’essere netta. E deve stare bene
addosso, come una giacca Armani della collezione indignazione primavera/estate.
Forse è il momento di ricordare che il
potere non ci schiaccia solo dall’alto. A volte, ci avvolge in un abbraccio di
gruppo. E ci piace pure.
Qui
potete leggere l’articolo originale:
Tennie, Claudio, Josep Call, e Michael Tomasello. 2009. «Ratcheting
up the Ratchet: On the Evolution of Cumulative Culture». Philosophical
Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences 364 (1528):
2405–15. https://doi.org/10.1098/rstb.2009.0052.