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domenica 26 aprile 2020

La scuola, lo spazio pubblico, la famiglia e il virus

Il modo in cui il Governo e le autorità preposte alla gestione della crisi del Covid-19 stanno gestendo l’organizzazione della fase 2 è degno di un’analisi simbolica. È la mia fissa: continuo a dire che questa crisi deve renderci consapevoli che l’utilità è l’ultima delle motivazioni dell’agire umano se si pensa che l’utilità delle azioni sia razionalmente, o oggettivamente o, peggio, naturalmente fondata, dato che le culture stabiliscono ciò che è utile, e una volta che l’hanno deciso con procedure culturali (non economicamente, non politicamente, non biologicamente) iniziano a perseguirlo tutte tronfie della loro presunta razionalità (motivo per cui chi fa proposte diverse da quelle che noi propugniamo come ovvie, giuste e ragionevoli, o è un ignorante, o è uno stupido, o è un manigoldo, con tutto quel che ne consegue sulla tenuta politica delle società in cui domina questa concezione della practical reason).

Giovedì 23 aprile il presidente dell’ISS, Franco Locatelli e membro del Comitato tecnico-scientifico che consiglia il governo per la fase 2, ha spiegato la ragionevolezza della decisione, unica in Europa, di non riaprire le scuole almeno fino a settembre, perché altrimenti l’indice di R zero salirebbe oltre l’1 per cento. È non solo utile, ma addirittura necessario, contenere l’indice R zero sotto l’uno per rallentare la diffusione del contagio e impedire il collasso del sistema sanitario. Circola da un paio di settimane un video della Cancelliera Merkel che spiega, con la precisione che il suo invidiabilissimo dottorato in chimica quantistica le garantisce, quanto sia utile tenere l’indice R zero inferiore a 1: a seconda della percentuale di superamento di quella soglia, si può prevedere con una precisione quasi assoluta il momento in cui il sistema sanitario verrebbe saturato.

Dovrebbe però far riflettere sul concetto di “utilità” il fatto che in Germania la fase due, iniziata già da una settimana, ha previsto anche l’apertura (parziale, modulata, ricca di precauzioni) delle scuole. Evidentemente, direbbe uno strenuo difensore dell’oggettività dei numeri, da noi non ci sono le condizioni per poter pensare a una riapertura delle scuole, anche se la gran parte dei paesi europei colpiti dal virus hanno programmato la riapertura (oppure non avevano mai chiuso le scuole).
Ci sono però due differenze oggettive tra la condizione italiana e quella di tutti gli altri paesi europei.
1. Diversamente che nel resto d’Europa (tranne Spagna e Regno Unito, dove comunque si sollevano dubbi sulle direttive governative) non c’è alcuna progettazione in vista. Siamo all’aspetta e spera.
2. Diversamente che nel resto del mondo, c’è una sorta di soddisfazione sadichella e paternalistica nel parlare della cosa. Sempre lo stesso Locatelli, ha infatti aggiunto: «scordiamoci i campi estivi e gli oratori. Questo deve essere chiarissimo».

Da padre, la prima reazione di fronte a un tale livello di odioso paternalismo è stata “ma come te ne esci?”. Ma da antropologo mi pare un sintomo interessante, una di quelle crepe del Reale attraverso cui traspare la sua strutturazione simbolica.

La totale mancanza di alcuna progettazione su quando e come apriranno le scuole sembra la delega allo spazio domestico del problema della riproduzione sociale, mentre si è deciso di affrontare la soluzione del problema della produzione economica, come se le due fossero separabili. Soprattutto, si delega la riproduzione sociale per intero alla sfera privata, dentro lo spazio domestico, mentre ci si organizza praticamente nello spazio pubblico su come ripartirà la produzione.

Come ho già detto, la concezione di fondo è quella che contrappone uno spazio privato, domestico, sostanzialmente sicuro, a uno spazio pubblico invece pericoloso in sé, nonostante i dati del mese di aprile pubblicati dalla Fondazione Bruno Kessler pongano la casa (con il 24%) al secondo posto (dopo le RSA, cioè altre case, che hanno il 44%) per numero di persone contagiate. Se cioè si mettono assieme le case di riposo, gli spazi domestici e gli ospedali (quasi l’11%), quattro casi su cinque di contagio nel mese di aprile si sono avuti negli spazi chiusi che presuntivamente avrebbero dovuto essere quelli più sicuri.

Incuranti del dato di fatto, si continua quindi a progettare quel che “utile” simbolicamente (la separazione tra spazio privato della cura e spazio pubblico della produzione) e pur di confermare la legittimazione morale di quella contrapposizione sociale si traduce la produzione di cittadinanza (ché questo è il lavoro dell’educazione scolastica) in cura privata dei corpi fanciulli (“teneteveli a casa e scordatevi alternative”).

Lo so che non è un concetto semplice e che spesso il gergo delle scienze sociali diventa incomprensibile, ma voglio provare a essere chiaro, in modo che chiunque faccia un po’ di sforzo possa comprendere la vera natura di quel che sta succedendo.

Quando Locatelli dice “scordatevi i centri estivi e gli oratori” sta dicendo: dovete continuare a tenervi i figli minori a casa e a non far loro condividere spazi pubblici con altri bambini.
Dice questo mentre dice anche: dovete pensare a tornare al lavoro, abbiamo bisogno di far ripartire l’economia, lo faremo con tutte le cautele ma lo faremo, lo stiamo facendo.

Per quanto riguarda invece l’educazione, la vita sociale dei vostri figli, non stiamo facendo nulla e anzi vi facciamo notare che il nostro piano è che ve li cucchiate voi, ancora a lungo. Senza alcuna indicazione del progetto, dato che progetto non c’èci può essere in questa condizione.
Perché data questa condizione (non abbiamo idea se ci sia immunità, né quanto duri, né abbiamo all’orizzonte un vaccino o una cura per la malattia conclamata) non ci sarà mai la possibilità di pensare al ritorno della socialità pubblica per i bambini, quindi la riapertura di scuole e oratori, dato che non ci sarà mai un tempo (nella condizione attuale) secondo cui i bambini potranno relazionarsi da vicino, giocare, interagire e, ma guarda un po’, contaminarsi anche con virus e batteri, come sempre hanno fatto i bambini.

Siamo di fatto paralizzati in questa concezione dello spazio: se tutto il pubblico è pericoloso, si privatizza quel che si può, riconducendolo alla presunta sicurezza della sfera domestica, addomesticandolo letteralmente. “Scordatevi gli oratori e i centri estivi”, con il tono irritante del patrigno di fronte ai figliastri riottosi, significa solo che mentre la produzione non regge più di tanto alla sua riduzione al domestico, e tocca tornare nei “posti deputati”; l’educazione dei nostri figli, la loro socializzazione come cittadini che condividono lo spazio pubblico (la scuola, l’oratorio, il centro estivo, il parco, il campo sportivo) si può posporre a piacere o, meglio, a dovere, perché “non ci sono alternative” e dobbiamo essere pratici, mica possiamo perder tempo a far filosofia sulla bellezza dell’educazione e sulla funzione socializzante del gioco.

Basterebbe prendere sul serio i dati sui contagi di aprile e impostare una strategia consona, per ribaltare tutta la prospettiva. Poniamo che il nostro sistema culturale avesse posto come primariamente utile il trasferimento intergenerazionale dei valori, quella che chiamiamo appunto educazione, e non il contenimento dei contagi. Poniamo eh! Il mio vuole essere solo un esperimento mentale.

Se quel che conta è il trasferimento delle conoscenze attraverso le generazioni e non, poniamo, la “solidità del nucleo domestico”, come ministro dell’istruzione il mio obiettivo sarebbe stato antitetico a quello che si è finora praticato. Qui abbiamo ridotto l’educazione a una rogna che devono sbrigare i genitori a casa (senza ottenere alcuna esenzione dai doveri lavorativi, se non a caro prezzo) con il risultato che ci si infetta tra parenti conviventi a forza di stare assieme. In un altro contesto valoriale si sarebbero tenute le scuole aperte, si sarebbero controllati regolarmente tutti gli adulti del settore educativo (come si sarebbe dovuto fare, e nei casi di successo si è fatto, con il personale medico e paramedico degli ospedali) e si sarebbero imposte forme di controllo dentro la famiglia, per evitare che le giovani generazioni infettassero genitori e nonni coi virus presi a scuola, che i figli e i nipoti venissero infettati dai virus portati a casa dalle RSA o che i genitori infettassero nonni conviventi e figli con i virus presi sul posto di lavoro.

In questo strano mondo, le lezioni e i compiti i ragazzi li avrebbero fatti a scuola, così come a scuola, al parco e all’oratorio avrebbero potuto giocare e infettarsi; mentre le norme di prevenzione i parenti conviventi le avrebbero fatte rispettare dentro casa: mascherina, distanza di sicurezza, lavaggi frequenti, evitazione del contatto fisico.

Vedo già lo sguardo perplesso del familismo italiano: ma come, e ogni scarrafone? E i piezz’e core? E le mamme che imbiancano? Io non ho nulla contro questo sistema di valori, ma mi basta che si riconosca pubblicamente che “l’utilità” della chiusura delle scuole dipende da questa primazia morale dell’immagine della famiglia come sistema sociale protetto che occupa uno spazio fisico protettivo, la casa. Un’immagine che io chiamo culturale, ma che qualcuno potrebbe serenamente dire ideologica. Non sto dicendo che paesi come la Danimarca o la Corea del Sud siano “meno ideologici”, ma piuttosto che hanno messo in atto un’altra ideologia, una gerarchia di valori diversa dalla nostra.

Non siamo condannati a tenere le scuole chiuse, non è vero che l’indice R zero si alzerebbe necessariamente se le scuole riaprissero domani. Si alzerebbe (e si alzerà comunque, quando le scuole apriranno) perché pensiamo pregiudizialmente che le strade siano insicure e che le case siano sicure, e quindi non facciamo abbastanza per tenere il virus sotto controllo dentro le mura domestiche. Che lo spazio privato della casa sia sicuro è una favola. Neppure molto bella se aggiungiamo i dati della violenza domestica. E credere alle favole è parte essenziale della nostra condizione umana. Non dimentichiamoci, però, che possiamo ancora scegliere che favole vogliamo raccontarci, e quella alle quali vogliamo credere.