Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
📍Mattina a San Cesareo:
Alle ore 11:00 e 12:00, partendo da Via Casilina 17 (km 25+500), verrete accompagnati in una visita tematica “Dalla stazione al museo: in viaggio da 109 anni”, alla scoperta del fascino perduto delle rotaie e del mondo dei treni in miniatura, presso il Museo della Stazione di Colonna.
📍Pomeriggio a Zagarolo:
Alle 16:00 visita guidata al Museo del Giocattolo, e alle 16:45 la lezione itinerante nel centro storico “Giocare è una cosa seria”, con il sostegno imprescindibile di Alessandro D'Ambrosi, esperto di cultura e storia locale. Al termine, un momento conviviale per condividere insieme l’esperienza.
🎯 Due appuntamenti, un solo grande viaggio tra memoria, gioco e paesaggio urbano.
📩 Prenotazione obbligatoria: info@museumgrandtour.org
💛 Vi aspettiamo numerosi, sarà un piacere camminare con voi tra binari, giocattoli e storie!
Non se
ne può più. Davvero. Ogni volta che si muove una critica a Israele – ogni
singola volta – qualcuno salta su a gridare “antisemita!”. Ma si può ancora
dire qualcosa su Gaza, sull’occupazione, sui bombardamenti, sui coloni, senza
essere schedati come nuovi nazisti? È mai possibile che chiunque dica “Free
Palestine” venga messo sullo stesso piano di un negazionista? Davvero?
Calma.
Rilassiamoci. Respiriamo. Perché, forse, la questione è un po’ più complicata.
«Lo Stato
è male. Israele è uno Stato. Quindi Israele è il Male». Questo è il sillogismo
morale di una nuova religione politica: l’antistatalismo radicale. E
come ogni religione, produce i suoi martiri, e i suoi carnefici.
Negli
ambienti intellettuali che si autodefiniscono “critici”, c’è una parola che da
tempo fa paura più di altre: Stato. Non capitalismo, non patriarcato,
non oppressione ma Stato. Lo Stato è divenuto il bersaglio
privilegiato di un’intera generazione accademica, militante e mediatica. Non
perché produca diseguaglianze (che lo fa), né perché eserciti violenza (che
accade), ma perché incarna – nella sua forma più limpida – l’idea di ordine
normativo legittimato, impersonale e universale. In altre parole, perché
ricorda che esiste un potere che non si fonda né sul sangue, né sulla
razza, né sul clan, ma sulla legge. Questa forma di potere fa orrore a
chi sogna una società senza centro, senza gerarchie, senza confini,
senza responsabilità ma anche, si noti bene, senza diritti che
non siano semplici rivendicazioni identitarie.
Dopo
l’assassinio a Washington di due giovani ebrei, Yaron Lischinsky e Sarah
Milgrim, da parte di Elias Rodriguez – attivista di sinistra, istruito,
militante pro-Palestina – i commenti si sono divisi. Non tra chi condanna e chi
giustifica, ma tra chi vede l’antisemitismo e chi lo negain nome dell’antisionismo. Diversi editoriali odierni descrivono con
precisione questo fenomeno: l’omicidio ritualizzato dell’ebreo divenuto
diplomatico dello Stato. Non è più l’ebreo come tale ad essere odiato – un
sentimento fuori moda, signora mia – ma l’ebreo funzionario, l’ebreo che
incarna lo Stato, l’ebreo che lavora per Israele.
La vittima
non è più vittima. È colpevole due volte: per la sua identità e per la sua
lealtà istituzionale. È il sionista, non l’ebreo. Ma “sionista”, oggi, è
semplicemente un’altra parola per dire: colui che crede nello Stato come
forma di convivenza organizzata, come argine alla barbarie, come progetto
comune.
Da qualche
decennio, nelle scienze sociali, serpeggia una corrente potente: lo Stato è
il Male. Non lo Stato autoritario, lo Stato illiberale, lo Stato
teocratico. No: lo Stato in quanto tale. L’idea stessa di potere
sovrano, di autorità normativa, di confine, di gerarchia, di cittadinanza. Una
fobia che, più che con Marx o Weber, ha a che fare con Agamben, con il
suo delirio sul campo di concentramento come paradigma ultimo della modernità (sì,
lo stesso Agamben che durante il Covid sosteneva che il Green Pass fosse come
il tatuaggio ad Auschwitz. È caduto in disgrazia, e meno male).
In questa
cornice, lo Stato moderno diventa intrinsecamente sospetto: meccanismo di esclusione,
macchina di violenza, struttura oppressiva. Il liberalismo? Una
maschera per nascondere il dominio. Il diritto? Uno strumento per
normalizzare la devianza. La democrazia? Una pantomima tecnocratica.
In questo
clima, Israele appare come l’epitome dello Stato inaccettabile:
è armato → quindi violento;
è occidentale → quindi coloniale;
è identitario → quindi razzista;
è ebraico → quindi suprematista;
è efficiente → quindi tecnocratico;
è legittimato → quindi illegittimo.
Non è un
caso che l’odio si concentri lì. Israele è lo Stato che resiste alla
dissoluzione. Uno Stato che non si discolpa per esistere, che non chiede scusa
per difendersi, che non smette di essere uno Stato anche quando si fa
impopolare. È, in altre parole, una provocazione vivente per chi ha
teorizzato la fine del potere statuale come emancipazione assoluta.
L’antisionismo
contemporaneo non è solo la critica a una politica, cosa più che è legittima.
È, più profondamente, una forma di rigetto viscerale del principio di
sovranità politica. Israele è detestato non per ciò che fa (e non
sempre fa bene), ma per ciò che rappresenta: l’idea che uno Stato possa
esistere per proteggere un’identità storica, per unire una
diaspora, per garantire sicurezza a chi per secoli è stato perseguitato.
Questa
idea è inaccettabile per chi rifiuta ogni forma di identità collettiva che non
sia fluida, decentrata, performativa. È l’odio per il confine, per la
bandiera, per l’autorità condivisa. È, in definitiva, l’odio per la
cittadinanza come legame politico, sostituita da un’identità immediata ed
emozionale, fondata solo sul trauma e sulla lotta.
In un
tempo in cui il termine “Stato” è usato quasi solo in senso negativo (macchina
burocratica, repressione poliziesca, patriarcato istituzionale) c’è bisogno di
ricordare che solo lo Stato, nella forma liberale, è stato in grado di difendere
le donne, le minoranze, i lavoratori, i bambini. La
storia della modernità democratica è la storia di un’espansione progressiva
della protezione legale, non della sua compressione.
Se il razzismo
si manifesta con maggiore intensità dove lo Stato è debole, come in
Afghanistan, in Somalia, nella Cecenia di Kadyrov, allora il problema non è
lo Stato, ma la sua assenza. E quel che può sembrare un rigurgito di
antisemitismo, che prenderebbe solo la forma apparente dell’odio per il
“sionista”, va piuttosto compreso come il trickling up del sospetto
anti-istituzionale tipico in tutte le epoche dei veri emarginati.
Oggi quel sentimento di sospetto pregiudizievole verso tutto quel che puzzi di “istituzione”
è divenuto luogo comune delle classi medie e, ahimè, soprattutto della Classe
Professionale Manageriale, composta da coloro che Musa al-Gharbi (2024) chiama “Capitalisti simbolici”.
Si tratta dei cittadini ben saldi nei loro diritti garantiti dallo Stato
liberale, ma che hanno il vantaggio di individuare un bel Nemicone Generale
contro cui lanciare i loro strali cercando di lucrare visibilità, finanziamenti
o like sui social. Costruiscono così un nuovo senso comune (antipolitica
e populismo sono la faccia di destra, anticapitalismo e antisionismo
sono la sua faccia di sinistra) che gravita attorno alla nuova moda: l’odio
per lo Stato, per il principio di ordine politico razionale, di autorità
legittima, di convivenza civile.
Non c’è
nulla di scandaloso nel criticare Israele. Ma c’è molto di scandaloso
nel giustificare chi uccide in nome di “Free Palestine” senza sapere
nulla della Palestina, se non che rappresenta un mondo senza Stato. La
retorica della “rivoluzione dell’intifada globale” è l’ennesima incarnazione di
una teologia politica che disprezza la forma statuale perché la
considera “bianca”, “borghese”, “imperialista”. In realtà, è solo il residuo
più avanzato della civiltà occidentale, quella che ancora distingue tra
colpa e pena, tra cittadino e terrorista, tra critica e omicidio.
Chi uccide
lo fa in odio allo Stato. E chi odia Israele odia lo Stato perché è
Israele, cioè perché è lo Stato di una minoranza che non si inginocchia,
che non chiede scusa a nessuno per essere diventata sovrana.
E qui
veniamo al punto. Se l’antisionismo non è antisemitismo (quasi mai lo è
in modo cosciente, di questo sono certo, ho troppi amici antisionisti che so
non essere antisemiti) allora deve diventare una teoria politica seria.
Non può più essere un hashtag, uno slogan da corteo, una raffica di
indignazioni selettive.
Chi si
dice antisionista, oggi, deve spiegare:
se crede ancora nel principio
dello Stato;
se ammette la possibilità di
una sovranità legittima;
se riconosce la differenza tra
diritto e sopraffazione;
se riesce a pensare l’identità
collettiva fuori dai soli codici di vittimizzazione.
Altrimenti
il sospetto di antisemitismo non sarà una paranoia, ma una deduzione logica.
Chi odia
Israele in quanto Stato, non può cavarsela con la scusa che “si critica
solo la politica di Netanyahu”. Perché non si spara ai diplomatici turchi
o indiani, o sauditi. Non si gridano “a morte i suprematisti coreani”. Non
si vandalizzano le ambasciate cinesi gridando “Fuck China”. Chi odia
Israele deve spiegare cosa odia di Israele. E deve spiegare perché
tutto ciò che odia è lo stesso che odia dello Stato in quanto tale.
Se
l’antisionismo è coerente, allora è antistatalismo. E se è
antistatalismo, allora lo si dica apertamente. Si accetti il dibattito
politico, la critica, il confronto. Si dica: non crediamo più nello Stato
moderno, e Israele è il simbolo supremo di quello Stato. Benissimo.
Ma lo si dica, con coraggio e coerenza. E con tutte le conseguenze
del caso. Altrimenti resterà solo l’ambiguità. L’ambiguità tra la critica
e l’odio. Tra la militanza e il linciaggio. Tra la solidarietà e
il pogrom. In quel silenzio, in quella zona grigia, l’antisemitismo tornerà a
vestirsi da anticolonialismo, da anticapitalismo, da antirazzismo. E, com’è già
accaduto tante volte nella storia, i peggiori crimini saranno commessi in nome
delle migliori cause.
C'è una frase che da qualche anno si aggira per le stanze
della psicologia pop come un mantra che pretende di guarire tutto:
"Dovresti essere più vicino alla tua parte emotiva.".
È detta con la voce morbida di chi ha letto due pagine di
Daniel Goleman e tre di Osho, e si accompagna spesso a una tisana, un cuscino
etnico, o un certo sguardo d’intensa comprensione. Ma a ben vedere, è una delle
frasi più pericolosamente stupide del nostro tempo.
Un collega straniero, persona colta e intensa, me l’ha
riportata con un certo disorientamento dopo una sessione di terapia. Gli
avevano appena detto che era troppo distante dalle sue emozioni. E io,
conoscendolo, ho pensato: ma se questo è uno che quando parla del suo lavoro
ti fa venire la pelle d’oca?
Un uomo che soffre, si entusiasma, si arrabbia, riflette,
e nel farlo mantiene sempre una compostezza, una misura, una forma, come
dicevano i miei vecchi — e anche un po’ mia nonna: “puoi anche piangere,
figlio mio, ma con dignità.”
È da Aion, uno dei testi più densamente simbolici
di Carl Gustav Jung, che ho trovato una risposta più seria di tutta questa
psicologia dei cuscini. Jung, parlando dell’ombra — la parte in ombra della
psiche — osserva che le emozioni non sono attività coscienti, ma eventi che
accadono all’individuo. Sono possessive, dice, non partecipative.
Non si scelgono, ti prendono. E se non sei pronto, ti portano giù, come le
correnti d’acqua sotto i moli abbandonati.
E aggiunge — con la precisione clinica di chi ha studiato
l’anima più della metà dei suoi colleghi messi insieme — che, in assenza di
controllo, l’individuo regredisce a uno stato primitivo, diventando
incapace di vero giudizio morale. Detto in parole semplici: essere “in contatto
con le emozioni” non significa niente, se non si è in grado di educarle.
Il Cristianesimo lo sa da duemila anni. La civiltà non è
il contrario delle emozioni, ma il loro giardino murato: un luogo in cui
possono crescere senza diventare infestanti. L’autocontrollo non è rimozione. È
disciplina. È la distanza che ci permette di vedere e valutare, non solo di sentire.
“Chi segue il cuore” senza guida finisce spesso dove il cuore non abita più.
La moda attuale vuole l’individuo trasparente,
accessibile, vulnerabile, in process, con lo zainetto emotivo sempre
aperto come il bagagliaio di una Panda scassata. Ma il mondo non è una
terapia di gruppo. E se pure lo fosse, i migliori terapeuti sono quelli che
insegnano a distinguere, non a sprofondare.
Perché quando le emozioni diventano l’unico metro, quando
“sentire” sostituisce “pensare” e “reagire” scalza “giudicare”, allora non si è
diventati più autentici: si è solo diventati più fragili, più
manipolabili, più primitivi.
E a quel punto — come diceva sempre mia zia Aurelia — “non è più sentimento,
è solo melassa.”
Chi continua a chiedere alla Chiesa cattolica di
“stare al passo coi tempi” forse dovrebbe rivedere le proprie aspettative
istituzionali. Capisco la buona fede di certi commentatori, e capisco anche che
in un mondo dove tutto si vota, si rinnova e si twitta, l’idea che
un’organizzazione millenaria resti fedele a un corpus dottrinale invece
che a un algoritmo predittivo può risultare un tantino straniante. Ma è così.
Lo è sempre stato.
Mi era già capitato di scriverlo,
con tono un po’ più serio, a proposito del modo in cui l’etnocentrismo
secolare guarda alla Chiesa come a una ONG lenta e ostinata che non riesce
a capire da che parte tira il vento. Oggi lo riprendo con un sorriso sulle
labbra e un ospite d’onore: Thomas
Sowell, economista afroamericano, conservatore scomodo e impresentabile
per i woke, che ha recentemente commentato con lucidità
il significato politico di certe prese di posizione ecclesiali.
Nel suo ultimo intervento Sowell difende l’idea che la missione
della Chiesa sia quella di custodire verità eterne, non di
riflettere le mode sociali del momento. Un pensiero a dir poco
rivoluzionario per chi vive immerso nel presente permanente e considera
reazionario tutto ciò che non cambia almeno due volte al giorno.
Sowell, tra l’altro, ci ricorda che le istituzioni
rispondono a incentivi. E che quando questi incentivi diventano la
popolarità a breve termine, la deriva è certa. Vale per i partiti, vale
per i giornali, e vale anche per la Chiesa. Per questo non bisogna stupirsi se,
dopo un papa “grillino” – diciamolo, con venia – si affaccia all’orizzonte un
pontefice più ancorato alla dottrina. È un pendolo, non una frattura.
E se questo nuovo corso dovesse risultare indigesto ai filosofi nord-europei, ai vescovi progressisti, o ai giornalisti
post-cattolici, pazienza. La Chiesa non è il Partito Democratico,
non ha bisogno di raccogliere consensi al Family Day, né deve elaborare mozioni
sui diritti LGBTQ+ da presentare al sinodo come se fosse il congresso
dell’ANPI.
La Chiesa è un’istituzione religiosa. E come ogni
religione che si rispetti, sopravvive perché non si adatta troppo. Non ha
l'obbligo di essere moderna, ha il compito di essere vera.
Lo dice bene Sowell quando descrive il nuovo papa Leone
come uno che ha scelto di “sopportare ritorsioni” pur di non compromettere
l’identità spirituale della Chiesa. Un papa che, invece di rincorrere l’inclusività
come se fosse un hashtag, ha scelto di riaffermare la verità. Con tutti
i costi politici del caso.
Ora, se uno crede davvero che la verità non esista,
allora ha senso pretendere che la Chiesa si aggiorni a ogni cambio di stagione.
Ma se si ammette che esista un nucleo immutabile di senso – anche solo
come ipotesi culturale – allora si può anche tollerare che qualcuno, da duemila
anni a questa parte, provi ostinatamente a testimoniarlo.
E per quanto possa sembrare strano, è proprio questa
ostinazione che fa della Chiesa una delle poche agenzie morali non
ancora colonizzate dalla narrativa dominante.
Come direbbe Sowell: “Il compito della Chiesa è
confrontarsi con la realtà, non conformarsi alle visioni delle élite”.
[Visto che dice spesso delle cose interessanti, le ultime
anche su papa Leone, questo post è una specie di introduzione ad altri in cui
riprenderò le sue cose]
Thomas
Sowell è uno degli intellettuali più lucidi e controversi del
panorama conservatore americano contemporaneo. Nato nel 1930 a Gastonia,
North Carolina, e cresciuto ad Harlem in un contesto di povertà, ha costruito
una carriera accademica e pubblicistica di straordinaria influenza, diventando
un riferimento per il pensiero liberale classico e libertario. Oggi
è emerito presso la Hoover Institution della Stanford University. Economista
di formazione, con studi a Harvard, Columbia e un dottorato conseguito
all’Università di Chicago sotto la guida di George Stigler, Sowell ha
insegnato in numerose università americane e ha pubblicato oltre 40 libri su
economia, politica, razza e cultura. Tra
le sue opere più note: Basic Economics, A Conflict of Visions, The
Vision of the Anointed, Intellectuals and Society e Black
Rednecks and White Liberals.
Proprio quest’ultimo libro
lo ha reso particolarmente scomodo per il progressismo radicale: in esso,
Sowell sostiene che molti tratti disfunzionali attribuiti alla “cultura ghetto”
afroamericana derivino in realtà dalla “redneck culture” degli immigrati
scozzesi e irlandesi del Sud degli Stati Uniti. Una tesi che, se formulata da
un autore bianco, sarebbe probabilmente bollata come razzista,
ma che nel suo caso mette in crisi le categorie
ideologiche del pensiero woke.
Sowell è un critico implacabile delle élite intellettuali
progressiste, che definisce “gli Unti” (the
Anointed), accusandole di imporre visioni ideologiche scollegate
dalla realtà empirica e di promuovere politiche paternalistiche
che danneggiano proprio le minoranze che dichiarano di voler aiutare. La sua
critica alle quote etniche, al multiculturalismo e al vittimismo
razziale lo ha reso una voce isolata ma rispettata, difficile da ridurre
al silenzio proprio per la sua identità afroamericana.
La sua traiettoria personale — da giovane marxista a
convinto sostenitore del libero mercato — e la sua capacità di smontare con
dati e logica le narrazioni dominanti, fanno di Thomas Sowell una figura
intellettuale dirompente, spesso ignorata o evitata dai media
mainstream, ma centrale nel dibattito conservatore e libertario.
Daniela
mi racconta di aver ricominciato a pregare. Non meditare, non fare yoga,
non respirare consapevolmente – proprio pregare. A voce bassa, da
sola, quando possibile, tenendo assieme il cuore e la recitazione.
Fateci caso, le preghiere non hanno paura di essere una messa in scena, e
infatti si recitano. Mi colpiva quel verbo usato con naturalezza, come se nulla
fosse cambiato negli ultimi secoli, come se la preghiera fosse ancora una cosa ovvia.
E invece no. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta o Novanta – in quella lunga
transizione dall’Italia democristiana all’Italia senza Dio – la preghiera è
diventata un gesto raro, quasi strano, sicuramente da giustificare.
Daniela no. Daniela pregava. E in quel suo piccolo ritorno mi è sembrato che si
giocasse qualcosa di più grande.
L’idea che oggi esista una distinzione netta tra
“preghiera” e “meditazione” sembra ormai un dato acquisito, come se si
trattasse di due binari separati, due mondi incompatibili. Da un lato la
meditazione: laica, neutra, buona per l’ansia e l’equilibrio
psicosomatico. Dall’altro la preghiera: confessionale, imbarazzante,
rivolta a un Altro che molti non nominano più. Eppure non è sempre stato così.
La separazione è figlia di un’epoca precisa, quella della soggettività
secolarizzata, che ha progressivamente espulso il trascendente
dall’esperienza interiore, riducendo l’anima a psiche e l’ascesi a tecnica. È
una trasformazione culturale sottile, ma profonda. E ci ha portato dove siamo:
a un mondo dove ci si osserva dentro con microscopi sempre più
sofisticati, ma ognuno per conto suo, e soprattutto si parla sempre meno
con Dio.
Prima di Agostino, l’interiorità non era un problema. La
vita si proiettava verso l’esterno, in un’etica del gesto, dell’impresa,
dell’onore da difendere pubblicamente. Poi arriva lui, Agostino, e filtra il
messaggio cristiano alla luce della filosofia, in un modo che cambia tutto. Con
le Confessioni, inaugura un nuovo modo di cercare Dio: non nei templi o
nei sacrifici, ma nel cuore. “Tardi ti amai, bellezza così antica e così
nuova…” – lo dice a sé stesso, lo dice a Dio, e dice a tutti che la via per
incontrare il divino passa da un movimento verso l’interno. È lì che
preghiera e meditazione si intrecciano, si confondono, diventano un’unica
azione: cercare la Verità dialogando con Essa, nel profondo.
La modernità, però, rompe questa unità. Con l’affermarsi
del soggetto autonomo e della razionalità secolare, l’interiorità si svuota di
Dio e si riempie di sé. Il soggetto diventa l’oggetto della sua stessa
indagine, e la meditazione si laicizza: da preghiera che cerca un tu, a
introspezione che osserva un io. La preghiera, in questo nuovo orizzonte,
appare sospetta: troppo ingenua, troppo dipendente da una figura paterna,
troppo “infantile”. Eppure non scompare: resiste, come gesto di minoranza, come
testimonianza eccentrica di una relazione che non si è interrotta. Ma certo
cambia: spesso diventa più rarefatta, più intellettualizzata, a volte ridotta a
sistema etico, come se Dio fosse solo un principio regolativo, un’idea-guida,
non una presenza viva.
Ed è qui che il ritorno di Daniela acquista valore.
Perché non è una conversione teorica o una nostalgia da calendario. È una fame.
È il bisogno di rispondere a una domanda che la meditazione, da sola, non può
più soddisfare: quella di essere in relazione. Non semplicemente ascoltarsi,
ma essere ascoltati. Non semplicemente osservarsi, ma dirsi.
Dire qualcosa, a qualcuno. Magari in silenzio, magari senza parole, ma sempre
nella consapevolezza che un Altro – non io, non il mio benessere, non il mio
equilibrio – è lì ad accogliere quella parola. Daniela non cerca pace. Cerca
Presenza.
Forse allora non serve scegliere. Forse il punto non è
decidere se siamo per la preghiera o per la meditazione, come se fossero
squadre avversarie. Forse la nostra epoca ha bisogno di entrambe, ma riportate
al loro significato originario, vale a dire unitario. La meditazione può essere
una via di discesa in sé, una forma di attenzione radicale. La preghiera, una
salita, una relazione che ci sposta oltre noi stessi. Una domanda aperta al
cielo. Un atto d’amore.
In fondo, lo dice anche Agostino: In interiore homine
habitat veritas. Ma quella verità, per lui, non era l’io. Era Dio.
Perché siamo religiosi: potere, gratitudine e la fine
della trascendenza
Lezione numero 14 registrata il 18 dicembre 2024
La lezione finale e la struttura del testo di Sahlins
La quattordicesima e ultima lezione del Modulo B si è
concentrata sulla lettura e discussione dei primi due capitoli del libro di Marshall
Sahlins, The New Science of the Enchanted Universe. Dopo aver
chiarito la struttura quadripartita del libro — finitudine umana, immanenza,
metapersonhood, e sistema politico cosmico — la lezione ha
affrontato in modo dettagliato i primi due nuclei, partendo dal presupposto che
l’uomo non è autosufficiente e che la sua esistenza è sempre interrelata
a poteri metaumani.
La finitudine umana come base del religioso
Nel primo capitolo, Sahlins sostiene che l’essere umano
si riconosce come essere finito, incapace di controllare pienamente il
proprio destino. In questo senso, la religione emerge non solo come risposta
alla paura e all’incertezza, ma anche come forma di gratitudine. Non è
solo la sventura a suscitare il ricorso agli spiriti o agli dei, ma anche — e
forse soprattutto — il successo. In questa chiave, Sahlins rovescia
l’idea che la religione sia un semplice palliativo per l’angoscia, proponendo
invece un'antropologia della riconoscenza.
Il complesso di Caino e la dimensione politica
dell’invidia
Uno dei momenti più significativi della lezione è
l’introduzione del “complesso di Caino”: l’idea che il successo
altrui, soprattutto se percepito come immeritato o sproporzionato, può
generare odio e desiderio di punizione. Questa dinamica viene estesa a fenomeni
storici e politici globali: il risentimento verso popoli che, dopo secoli di
persecuzioni, diventano prosperi e potenti. La religione, allora, non è solo un
rifugio esistenziale, ma anche uno specchio delle tensioni sociali e
politiche più profonde.
Gli ex voto: tra bisogno e ringraziamento
Collegandosi alla prossima uscita sul campo, si introduce
il tema degli ex voto. Due le motivazioni principali che spingono a
offrire un ex voto: la richiesta di aiuto in situazioni di crisi e la
gratitudine per un beneficio ricevuto. L’economia del dono religiosa si
muove tra queste due polarità, rafforzando l’idea che il divino sia coinvolto
tanto nei fallimenti quanto nei successi. In questo senso, la religione si
configura come un meccanismo relazionale e non solo simbolico.
L’immanenza come visione ontologica alternativa
Nel secondo capitolo, il concetto di immanenza
diventa centrale. In molte culture tradizionali, gli spiriti, gli antenati,
le divinità non abitano un “al di là”, ma sono presenze concrete
nel mondo. Non esiste una netta distinzione tra naturale e soprannaturale, tra
umano e divino. Tutto ciò che esiste è persona, e l’animismo è una
teoria ontologica che riconosce volizione, carattere e agency a ogni
essere.
Contro l’antropologia simbolista: oltre “credenza” e
“mito”
Sahlins critica l’uso delle categorie occidentali di
“credenza” e “mito”, che distorcono la comprensione delle religioni
immanentiste. Secondo lui, parlare di "simbolismo" o di
"finzione" per descrivere le pratiche religiose altrui è un errore
metodologico. Piuttosto, queste pratiche devono essere comprese come esperienze
concrete, analoghe al “pensiero veloce” di Daniel Kahneman:
immediate, intuitive, non filtrate da una riflessione razionalistica, salvo che
non si verifichino dissonanze cognitive.
Una scienza sociale che generalizza: il richiamo di
Edmund Leach
Ritornando a Edmund Leach, Sahlins invoca
un’antropologia capace di formulare enunciati generali, contro la deriva
descrittiva “tra gli X, gli Y, gli Z”. La comparazione, se ben condotta,
permette di cogliere regolarità strutturali — come il fatto che ogni sistema di
parentela prevede relazioni di incorporazione (che costruiscono un
“noi”) e relazioni di alleanza (che mettono in relazione più gruppi). Le
prime sono legate alla sostanza condivisa, le seconde all’influenza
mistica. È un invito a superare la “sindrome di Funes” che paralizza
l’antropologia contemporanea.
Il rituale come invocazione di agency
Un punto teorico centrale è il ribaltamento del
concetto di agency: nel mondo immanentista, non è l’umano a causare,
ma sono i poteri spirituali a trasformare l’umano da potenza ad atto. Il
rituale, dunque, è una strategia per coinvolgere i metaumani, e la
“magia” è la tecnica operativa del mondo immanente. In questo quadro, non
c’è distinzione tra tecnica e magia, tra politica e religione.
Vico contro Durkheim: due visioni della religione
Sahlins mette a confronto Vico e Durkheim:
per il primo, Dio è un potere esterno assorbito nella società; per il secondo,
Dio è la società stessa proiettata nell’oltremondo. Sahlins li considera
due modelli ontologici: uno immanentista, l’altro trascendentalista.
Il suo invito è a non confondere il secondo con la religione tout court. In
questo senso, Geertz ha tentato una strada interpretativa che guarda
alla religione come forza interna al mondo sociale, avvicinandosi alla
posizione di Vico.
Secolarismo metodologico e deriva post-strutturalista
La lezione si conclude con una riflessione
epistemologica. La cosiddetta “svolta linguistica” avrebbe potuto condurre
l’antropologia verso una scienza abductiva, capace di formulare ipotesi
generali. Invece, l’influenza di Foucault e del post-strutturalismo
francese ha spinto verso la decostruzione del potere e l’abbandono
dell’analisi della religione come forma concreta di conoscenza del mondo.
L’antropologia ha così proiettato su altri popoli il suo secolarismo
metodologico, fraintendendone profondamente l’ontologia religiosa.
Conclusione: la religione come forza nelle faccende
quotidiane
Sahlins invita a considerare la religione non come
ideologia, né come compensazione simbolica, ma come forza essenziale nelle
faccende quotidiane. Le divinità sono presenti, non credute;
i riti non sono drammaturgie ma strategie operative; il sacro non
è oltre ma dentro il mondo. In questo senso, il suo progetto si
avvicina alla cosiddetta svolta ontologica, pur rimanendo saldamente
ancorato alla ragione. Riconoscere l’immanenza come forma di realtà e
non come superstizione è, per Sahlins, la condizione necessaria per restituire
dignità conoscitiva al religioso.
“Lo Stato Nazione e i suoi mali” è il volume dell’antropologo Michael Herzfeld che sarà presentato giovedì 15 maggio 2025 alle 15.00 a Roma presso la Sala Misiti dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irrps) – Via Palestro, 32 (II piano). Interverranno, oltre all’autore, il direttore del Dipartimento scienze umane e sociali, patrimonio culturale (Cnr-Dsu) Salvatore Capasso per i saluti istituzionali e, a seguire, Francesco Faeta della Sapienza Università degli studi di Roma, Alexander Koensler dell’Università degli studi di Perugia e Pietro Vereni dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata. L’evento sarà moderato da Azzurra Malgieri del Cnr-Irpps.
Sarà un piacere poter discutere ancora con Michael Herzfeld e i colleghi Francesco Faeta e Alexander Koensler di questo importante libro e dei molteplici spunti che offre.
Per informazioni
eventi.dsu@cnr.it
Silvia Mattoni, Responsabile relazioni con i media CNR-DSU, cell. 328/6250729, e-mail silvia.mattoni@cnr.it
Il potere degli dèi: ripensare l'autorità
nell'antropologia delle religioni
Perché pensiamo che ogni forma di potere sia
inevitabilmente oppressiva? Quando è iniziata questa nostra diffidenza nei
confronti dell’autorità? E soprattutto: siamo sicuri che questa visione
rispecchi l’esperienza storica dell’umanità?
La tredicesima lezione di antropologia delle religioni,
registrata il 16 dicembre2024, ci
invita a seguire Marshall Sahlins in un viaggio radicale attraverso la
genealogia del potere. Con il suo libro The New Science of the Enchanted
Universe, Sahlins ci propone una tesi dirompente: per gran parte della storia
umana, il potere non è stato una prerogativa degli uomini, ma un dono – o un
furto – degli dèi, degli spiriti, degli antenati. Il potere, in altre parole, non
nasce con la politica, ma con la cosmologia.
Nel mondo incantato delle società immanentiste, il potere
non è dominio ma relazione. È una forza che circola tra umano e
non-umano, tra vivi e morti, tra la terra e l’aldilà. Ed è proprio questa
concezione sacrale e relazionale del potere ad essere stata cancellata – o
meglio, sfrattata – dalla modernità, che ha confinato il sacro altrove,
rendendo il mondo un luogo inerte e disincantato. Ma è davvero questa la realtà
in cui viviamo?
Questa lezione non è solo un’esegesi di un testo, ma una
provocazione filosofica: e se il potere non fosse sempre e solo dominio? E
se fosse anche cura, attenzione, responsabilità? E infine: possiamo davvero
parlare di “diritti umani” o di “valori universali” se prima non decidiamo se
il mondo abbia, o meno, un significato?
Il contesto teorico: svolta ontologica e relativismo
La lezione si apre con un richiamo alla “svolta
ontologica” in antropologia, sviluppatasi a partire dai primi anni 2000
grazie ai lavori di Eduardo Viveiros de Castro e Philippe Descola.
Questi autori sostengono che le cosmologie dei popoli studiati non vadano solo
interpretate come rappresentazioni del mondo, ma come ontologie alternative,
cioè come mondi effettivamente diversi.
La proposta, che flirta con un relativismo ontologico
radicale, viene tuttavia messa in discussione da Sahlins, il quale
pur riconoscendo la serietà delle visioni cosmologiche indigene, mantiene una
distinzione tra mondo reale condiviso e pluralità di prospettive culturali. La
sua è quindi una versione moderata della svolta ontologica: le
cosmologie sono visioni del mondo, non creazioni di mondi alternativi.
Potere e antropologia politica: critica al senso comune
delle scienze sociali
Sahlins attacca l’assunto dominante nelle scienze sociali
secondo cui il potere è un meccanismo auto-riproduttivo finalizzato al
controllo e al dominio. Tale visione, sostenuta tra gli altri da Noam
Chomsky, identifica il potere con l’oppressione e ne deduce la necessità
etica della resistenza. È una prospettiva che ha assunto i tratti di un dogma
epistemologico, diffondendo una concezione “cratofobica” (dal greco kratos
= potere, phobos = paura) per cui ogni esercizio di autorità è visto come
sospetto e intrinsecamente malvagio.
Sahlins, invece, propone una rivalutazione del potere
come cura, come forma di trasformazione positiva dell’altro, in una
relazione asimmetrica ma non necessariamente oppressiva. Una madre che allatta
esercita un potere, ma lo fa per nutrire e non per dominare. Questa concezione
“terapeutica” del potere è marginalizzata dall’epistemologia contemporanea,
che rifiuta qualsiasi visione positiva della gerarchia.
La genealogia sacrale del potere
Il cuore del ragionamento di Sahlins è una teoria
storico-antropologica della genesi del potere, che ribalta la prospettiva
materialista classica. Egli sostiene che gli esseri umani hanno sempre
saputo di non avere un potere proprio, e di doverlo attingere da una
sorgente meta-umana: spiriti, divinità, antenati, forze impersonali come il
mana.
Il potere autentico non è umano, ma è donato,
sottratto, contrattato o rubato da questi powerful beings. È solo con il trasferimento
della sorgente del potere al trascendente, avvenuto con la cosiddetta età
assiale (secondo Karl Jaspers), che si crea l’illusione moderna di
una politica secolare, autonoma e autosufficiente.
Religione e potere: il mondo come società cosmica
Nelle cosmologie immanentiste pre-assiali, il mondo
stesso era sacro, e il potere permeava la materia. Ogni azione efficace
(una caccia, una guarigione, una nascita) era possibile grazie al consenso o
all’intervento di forze non umane.
Con l’età assiale, invece, la divinità viene sfrattata
dalla realtà immanente e trasferita in un “altro mondo”, separato e
trascendente. L’uomo viene così lasciato solo, in un mondo disincantato,
a gestire rapporti di forza puramente umani. Questo passaggio segna la nascita
della concezione laica del potere, che diventerà centrale con la modernità
occidentale, da Machiavelli ad Adam Smith.
La seconda età assiale e l’individualismo moderno
Sahlins introduce poi la nozione di “seconda età
assiale”, che si apre tra Medioevo e Illuminismo, e in cui l’individuo
diventa autonomo rispetto alle forze cosmiche. Nasce così l’idea moderna
di soggetto, dotato di razionalità e volontà autonoma, libero di creare
istituzioni e cultura senza bisogno del divino. Si afferma il paradigma scientifico,
economico e culturale secolare, in cui il sacro è definitivamente
marginalizzato come sovrastruttura.
Hocart e la religione come fondamento del potere
Sahlins si appoggia alla figura di Arthur Maurice
Hocart, autore seminale ma poco noto, che aveva già indicato due tesi
fondamentali:
1.Gli uomini hanno vissuto con gli dei prima che con i re, cioè la gerarchia
religiosa precede quella politica.
2.Le istituzioni burocratiche moderne derivano dai riti
religiosi, che sono forme codificate di accesso al potere.
Questa eredità consente a Sahlins di rovesciare l’intero
schema materialista: non è la struttura economico-produttiva a determinare
il sistema simbolico-religioso, ma viceversa.
Immanentismo vs trascendenza: l’ontologia dell’azione
Il concetto di “società cosmica” è centrale per
Sahlins: una rete in cui umani e meta-umani agiscono insieme, producendo la
vita, la morte, il senso. La distinzione moderna tra materiale e spirituale è
una costruzione recente e culturalmente specifica. In molte società
tradizionali, la cultura non è il risultato di azioni umane, ma l’effetto di
interazioni con esseri potenti.
Importante in questo quadro è anche Alan Strathern,
che nel suo libro Unearthly Powers distingue tra culture immanentiste (in cui
il potere è distribuito nel mondo) e culture trascendentiste (in cui il potere
risiede in un’altra realtà). Nell’immanentismo, gli umani possono negoziare
o addirittura appropriarsi del potere, mentre nel trascendentismo non
possono far altro che sottomettersi.
L’opposizione tra islam e cristianesimo
Nel confronto tra religioni, emerge un’interessante
distinzione tra islam e cristianesimo. L’islam – come anche l’ebraismo
arcaico – propone una visione in cui Dio è totalmente altro, l’uomo non
può che sottomettersi (islām). Il cristianesimo,
invece, elabora una teologia dell’amore in cui Dio è sì trascendente, ma
sceglie di entrare in relazione con l’uomo.
Questo è possibile attraverso la figura di Gesù,
che rende Dio accessibile senza annullarne la trascendenza. Qui il concetto
agostiniano di persona diventa essenziale: ogni individuo è definito dal
suo rapporto personale con il divino, e da questa relazione trae valore,
dignità e potere. È un individualismo
relazionale, fondato sull’amore.
Critica alla secolarizzazione e alla cratofobia
Sahlins critica duramente le scienze sociali
contemporanee, che hanno accettato in pieno il modello laico e secolare del
potere. L’antropologia, secondo lui, ha trasferito la propria visione
secolarizzata sui popoli studiati, trattando i loro riti non come atti
efficaci, ma come simboli o compensazioni psicologiche (come in Malinowski).
Questa riduzione impedisce di cogliere la densità
ontologica delle pratiche rituali, che per molte culture sono strumenti
concreti di relazione con gli esseri potenti. L’antropologia ha dimenticato che
per la maggior parte dell’umanità, il mondo è ancora incantato.
Conclusione: un nuovo paradigma antropologico
Sahlins propone una nuova scienza dell’universo
incantato, che riconosca la presenza attiva di esseri meta-umani e rivaluti
la dimensione sacrale del potere. Solo così è possibile rimettere al centro
la questione del significato, recuperando la possibilità di una morale, di
un giudizio, di una scala del bene.
La lezione si chiude con una riflessione provocatoria: senza
una differenza qualitativa tra pratiche e valori, tra bene e male, non c’è
possibilità di difendere i diritti umani, la giustizia o la dignità. La scienza
sociale deve decidere: o il mondo ha un significato, oppure non ha alcun
valore. E, nel primo caso, bisogna riconoscere la presenza di Dio –
o almeno di una mente ordinante.
“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”
(Mt 16,16). Comincia tutto da qui. Ma non per il papa, non solo per la Chiesa:
comincia da qui, o dovrebbe cominciare da qui, anche l’antropologia
culturale. Non nel senso che tutti dobbiamo convertirci al cristianesimo
(non sia mai), ma nel senso che l’atto di riconoscere una posizione radicalmente
altra, di prenderla sul serio nelle sue condizioni di verità interne,
di ascoltarla prima di ridurla al nostro schema interpretativo, è il
fondamento stesso del nostro mestiere.
La prima omelia di Leone XIV è, da
questo punto di vista, una lectio magistralis. E ci ricorda che questo
papa non è né bergogliano né anti-bergogliano, né conservatore
né progressista, né populista né elitarista. È, ed è qui
che molti inciampano, un papa cristiano.
A volerlo incasellare – come già si sta
facendo, e peggio si farà – si tradisce un riflesso tipico dell’etnocentrismo:
quello per cui ogni enunciato, ogni gesto, ogni parola deve necessariamente
rientrare in uno dei nostri schemi di senso, pena l’irrilevanza. Come se
la realtà fosse lì per essere confermata dalla nostra griglia
interpretativa, e non per metterla in crisi. Come se Cristo, per parlare
alla storia, dovesse diventare un po’ socialdemocratico, oppure un
po’ tradizionalista con sensibilità ecologista.
Quello che Leone XIV fa, invece, è esattamente
il contrario. Si mette fuori da tutti i circuiti prevedibili dell’analisi.
Non è “contro” il mondo: semplicemente non lo prende come riferimento
prioritario. Non dice che la fede cristiana è più ragionevole del
pensiero moderno, dice che è un’altra cosa. Non chiede che la Chiesa
diventi rilevante nei dibattiti della società contemporanea: dice che la
Chiesa è il corpo vivente del Cristo, il luogo in cui l’umano viene trasfigurato
perché Dio si è fatto carne.
Questa distinzione, che è teologica, è
anche un richiamo epistemologico per chi fa il nostro mestiere: è la
differenza tra interpretare a partire dai soggetti e interpretare sui
soggetti. E noi, diciamolo chiaramente, troppo spesso facciamo la seconda. Come
se gli attori sociali non sapessero quel che dicono, come se i nostri informatori
andassero decodificati, smascherati, “tradotti” nel nostro gergo
teorico.
Ma Leone XIV ci invita a un’altra postura:
quella di chi ascolta senza precomprensioni, di chi assume come plausibile
– almeno come punto di partenza – ciò che viene detto in nome di un altro
mondo possibile. È l’approccio emic, lo ripeto in tutti i miei corsi: assumere il punto di vista interno, non per rinunciare alla critica,
ma per evitare l'arroganza di chi pensa di sapere già come stanno le cose.
E c’è di più. Leone XIV sembra esigere questa serietà
dell’ascolto anche dai cristiani stessi. Lo fa quando critica quello
che chiama “ateismo di fatto”, cioè la riduzione del Cristo a un profeta
tra gli altri, a un uomo esemplare, magari anche stimato e seguito, ma
pur sempre addomesticato dentro le nostre categorie culturali e morali.
È proprio contro questo atteggiamento che si scaglia: contro quel modo di fare finta
di ascoltare, per poi imporre alla parola dell’Altro le nostre griglie
interpretative. Come a dire: “sì, parla pure, tu, Altro. Tanto io so già
come la pensi, e appena taci te lo dico”. No, dice Leone XIV: l’Altro ha
un messaggio sconvolgente da portare, e non possiamo addomesticarlo
nelle nostre scatoline predisposte.
Quando il papa parla della fede come
testimonianza che può essere disprezzata, compatita, ridotta a superstizione;
quando descrive la figura di Gesù rifiutato dai potenti e abbandonato dai
suoi; quando chiede che chi ha autorità nella Chiesa impari a “sparire
perché rimanga Cristo”... non sta facendo né politica, né sociologia,
né etica pubblica. Sta dicendo qualcosa che ha senso solo se si accetta
la premessa: che Cristo è davvero il Figlio del Dio vivente.
E se così è, allora tutto il resto – le etichette,
le classificazioni, le griglie interpretative – va messo tra
parentesi. È un cambio di sguardo. È il punto zero dell’analisi
culturale: non capire per giudicare, ma capire per lasciarsi
interrogare.