2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

mercoledì 28 maggio 2025

Storie di treni e giocattoli


🚂🧸 Sabato 31 maggio vi invitiamo a vivere una giornata ricca di storie, giochi e scoperte, all’interno della terza edizione del Museumgrandtour, il progetto del Sistema Museale Territoriale dei Castelli Romani e Prenestini dedicato alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

📍Mattina a San Cesareo:
Alle ore 11:00 e 12:00, partendo da Via Casilina 17 (km 25+500), verrete accompagnati in una visita tematica “Dalla stazione al museo: in viaggio da 109 anni”, alla scoperta del fascino perduto delle rotaie e del mondo dei treni in miniatura, presso il Museo della Stazione di Colonna.

📍Pomeriggio a Zagarolo:
Alle 16:00 visita guidata al Museo del Giocattolo, e alle 16:45 la lezione itinerante nel centro storico “Giocare è una cosa seria”, con il sostegno imprescindibile di Alessandro D'Ambrosi, esperto di cultura e storia locale. Al termine, un momento conviviale per condividere insieme l’esperienza.

🎯 Due appuntamenti, un solo grande viaggio tra memoria, gioco e paesaggio urbano.

📩 Prenotazione obbligatoria: info@museumgrandtour.org
💛 Vi aspettiamo numerosi, sarà un piacere camminare con voi tra binari, giocattoli e storie!

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venerdì 23 maggio 2025

Nuovo antisemitismo? No, è solo il vecchio odio per lo Stato

Non se ne può più. Davvero. Ogni volta che si muove una critica a Israele – ogni singola volta – qualcuno salta su a gridare “antisemita!”. Ma si può ancora dire qualcosa su Gaza, sull’occupazione, sui bombardamenti, sui coloni, senza essere schedati come nuovi nazisti? È mai possibile che chiunque dica “Free Palestine” venga messo sullo stesso piano di un negazionista? Davvero?

Calma. Rilassiamoci. Respiriamo. Perché, forse, la questione è un po’ più complicata.

«Lo Stato è male. Israele è uno Stato. Quindi Israele è il Male». Questo è il sillogismo morale di una nuova religione politica: l’antistatalismo radicale. E come ogni religione, produce i suoi martiri, e i suoi carnefici.

Negli ambienti intellettuali che si autodefiniscono “critici”, c’è una parola che da tempo fa paura più di altre: Stato. Non capitalismo, non patriarcato, non oppressione ma Stato. Lo Stato è divenuto il bersaglio privilegiato di un’intera generazione accademica, militante e mediatica. Non perché produca diseguaglianze (che lo fa), né perché eserciti violenza (che accade), ma perché incarna – nella sua forma più limpida – l’idea di ordine normativo legittimato, impersonale e universale. In altre parole, perché ricorda che esiste un potere che non si fonda né sul sangue, né sulla razza, né sul clan, ma sulla legge. Questa forma di potere fa orrore a chi sogna una società senza centro, senza gerarchie, senza confini, senza responsabilità ma anche, si noti bene, senza diritti che non siano semplici rivendicazioni identitarie.

Dopo l’assassinio a Washington di due giovani ebrei, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, da parte di Elias Rodriguez – attivista di sinistra, istruito, militante pro-Palestina – i commenti si sono divisi. Non tra chi condanna e chi giustifica, ma tra chi vede l’antisemitismo e chi lo nega in nome dell’antisionismo. Diversi editoriali odierni descrivono con precisione questo fenomeno: l’omicidio ritualizzato dell’ebreo divenuto diplomatico dello Stato. Non è più l’ebreo come tale ad essere odiato – un sentimento fuori moda, signora mia – ma l’ebreo funzionario, l’ebreo che incarna lo Stato, l’ebreo che lavora per Israele.

La vittima non è più vittima. È colpevole due volte: per la sua identità e per la sua lealtà istituzionale. È il sionista, non l’ebreo. Ma “sionista”, oggi, è semplicemente un’altra parola per dire: colui che crede nello Stato come forma di convivenza organizzata, come argine alla barbarie, come progetto comune.

Da qualche decennio, nelle scienze sociali, serpeggia una corrente potente: lo Stato è il Male. Non lo Stato autoritario, lo Stato illiberale, lo Stato teocratico. No: lo Stato in quanto tale. L’idea stessa di potere sovrano, di autorità normativa, di confine, di gerarchia, di cittadinanza. Una fobia che, più che con Marx o Weber, ha a che fare con Agamben, con il suo delirio sul campo di concentramento come paradigma ultimo della modernità (sì, lo stesso Agamben che durante il Covid sosteneva che il Green Pass fosse come il tatuaggio ad Auschwitz. È caduto in disgrazia, e meno male).

In questa cornice, lo Stato moderno diventa intrinsecamente sospetto: meccanismo di esclusione, macchina di violenza, struttura oppressiva. Il liberalismo? Una maschera per nascondere il dominio. Il diritto? Uno strumento per normalizzare la devianza. La democrazia? Una pantomima tecnocratica.

In questo clima, Israele appare come l’epitome dello Stato inaccettabile:

  • è armato quindi violento;
  • è occidentale quindi coloniale;
  • è identitario quindi razzista;
  • è ebraico quindi suprematista;
  • è efficiente quindi tecnocratico;
  • è legittimato quindi illegittimo.

Non è un caso che l’odio si concentri lì. Israele è lo Stato che resiste alla dissoluzione. Uno Stato che non si discolpa per esistere, che non chiede scusa per difendersi, che non smette di essere uno Stato anche quando si fa impopolare. È, in altre parole, una provocazione vivente per chi ha teorizzato la fine del potere statuale come emancipazione assoluta.

L’antisionismo contemporaneo non è solo la critica a una politica, cosa più che è legittima. È, più profondamente, una forma di rigetto viscerale del principio di sovranità politica. Israele è detestato non per ciò che fa (e non sempre fa bene), ma per ciò che rappresenta: l’idea che uno Stato possa esistere per proteggere un’identità storica, per unire una diaspora, per garantire sicurezza a chi per secoli è stato perseguitato.

Questa idea è inaccettabile per chi rifiuta ogni forma di identità collettiva che non sia fluida, decentrata, performativa. È l’odio per il confine, per la bandiera, per l’autorità condivisa. È, in definitiva, l’odio per la cittadinanza come legame politico, sostituita da un’identità immediata ed emozionale, fondata solo sul trauma e sulla lotta.

In un tempo in cui il termine “Stato” è usato quasi solo in senso negativo (macchina burocratica, repressione poliziesca, patriarcato istituzionale) c’è bisogno di ricordare che solo lo Stato, nella forma liberale, è stato in grado di difendere le donne, le minoranze, i lavoratori, i bambini. La storia della modernità democratica è la storia di un’espansione progressiva della protezione legale, non della sua compressione.

Se il razzismo si manifesta con maggiore intensità dove lo Stato è debole, come in Afghanistan, in Somalia, nella Cecenia di Kadyrov, allora il problema non è lo Stato, ma la sua assenza. E quel che può sembrare un rigurgito di antisemitismo, che prenderebbe solo la forma apparente dell’odio per il “sionista”, va piuttosto compreso come il trickling up del sospetto anti-istituzionale tipico in tutte le epoche dei veri emarginati. Oggi quel sentimento di sospetto pregiudizievole verso tutto quel che puzzi di “istituzione” è divenuto luogo comune delle classi medie e, ahimè, soprattutto della Classe Professionale Manageriale, composta da coloro che Musa al-Gharbi (2024) chiama “Capitalisti simbolici”. Si tratta dei cittadini ben saldi nei loro diritti garantiti dallo Stato liberale, ma che hanno il vantaggio di individuare un bel Nemicone Generale contro cui lanciare i loro strali cercando di lucrare visibilità, finanziamenti o like sui social. Costruiscono così un nuovo senso comune (antipolitica e populismo sono la faccia di destra, anticapitalismo e antisionismo sono la sua faccia di sinistra) che gravita attorno alla nuova moda: l’odio per lo Stato, per il principio di ordine politico razionale, di autorità legittima, di convivenza civile.

Non c’è nulla di scandaloso nel criticare Israele. Ma c’è molto di scandaloso nel giustificare chi uccide in nome di “Free Palestine” senza sapere nulla della Palestina, se non che rappresenta un mondo senza Stato. La retorica della “rivoluzione dell’intifada globale” è l’ennesima incarnazione di una teologia politica che disprezza la forma statuale perché la considera “bianca”, “borghese”, “imperialista”. In realtà, è solo il residuo più avanzato della civiltà occidentale, quella che ancora distingue tra colpa e pena, tra cittadino e terrorista, tra critica e omicidio.

Chi uccide lo fa in odio allo Stato. E chi odia Israele odia lo Stato perché è Israele, cioè perché è lo Stato di una minoranza che non si inginocchia, che non chiede scusa a nessuno per essere diventata sovrana.

E qui veniamo al punto. Se l’antisionismo non è antisemitismo (quasi mai lo è in modo cosciente, di questo sono certo, ho troppi amici antisionisti che so non essere antisemiti) allora deve diventare una teoria politica seria. Non può più essere un hashtag, uno slogan da corteo, una raffica di indignazioni selettive.

Chi si dice antisionista, oggi, deve spiegare:

  • se crede ancora nel principio dello Stato;
  • se ammette la possibilità di una sovranità legittima;
  • se riconosce la differenza tra diritto e sopraffazione;
  • se riesce a pensare l’identità collettiva fuori dai soli codici di vittimizzazione.

Altrimenti il sospetto di antisemitismo non sarà una paranoia, ma una deduzione logica.

Chi odia Israele in quanto Stato, non può cavarsela con la scusa che “si critica solo la politica di Netanyahu”. Perché non si spara ai diplomatici turchi o indiani, o sauditi. Non si gridano “a morte i suprematisti coreani”. Non si vandalizzano le ambasciate cinesi gridando “Fuck China”. Chi odia Israele deve spiegare cosa odia di Israele. E deve spiegare perché tutto ciò che odia è lo stesso che odia dello Stato in quanto tale.

Se l’antisionismo è coerente, allora è antistatalismo. E se è antistatalismo, allora lo si dica apertamente. Si accetti il dibattito politico, la critica, il confronto. Si dica: non crediamo più nello Stato moderno, e Israele è il simbolo supremo di quello Stato. Benissimo. Ma lo si dica, con coraggio e coerenza. E con tutte le conseguenze del caso. Altrimenti resterà solo l’ambiguità. L’ambiguità tra la critica e l’odio. Tra la militanza e il linciaggio. Tra la solidarietà e il pogrom. In quel silenzio, in quella zona grigia, l’antisemitismo tornerà a vestirsi da anticolonialismo, da anticapitalismo, da antirazzismo. E, com’è già accaduto tante volte nella storia, i peggiori crimini saranno commessi in nome delle migliori cause.

martedì 20 maggio 2025

“Devi essere più vicino alla tua parte emotiva” (e altre chiacchiere da divano IKEA)

 C'è una frase che da qualche anno si aggira per le stanze della psicologia pop come un mantra che pretende di guarire tutto:

"Dovresti essere più vicino alla tua parte emotiva.".

È detta con la voce morbida di chi ha letto due pagine di Daniel Goleman e tre di Osho, e si accompagna spesso a una tisana, un cuscino etnico, o un certo sguardo d’intensa comprensione. Ma a ben vedere, è una delle frasi più pericolosamente stupide del nostro tempo.

Un collega straniero, persona colta e intensa, me l’ha riportata con un certo disorientamento dopo una sessione di terapia. Gli avevano appena detto che era troppo distante dalle sue emozioni. E io, conoscendolo, ho pensato: ma se questo è uno che quando parla del suo lavoro ti fa venire la pelle d’oca?

Un uomo che soffre, si entusiasma, si arrabbia, riflette, e nel farlo mantiene sempre una compostezza, una misura, una forma, come dicevano i miei vecchi — e anche un po’ mia nonna: “puoi anche piangere, figlio mio, ma con dignità.

È da Aion, uno dei testi più densamente simbolici di Carl Gustav Jung, che ho trovato una risposta più seria di tutta questa psicologia dei cuscini. Jung, parlando dell’ombra — la parte in ombra della psiche — osserva che le emozioni non sono attività coscienti, ma eventi che accadono all’individuo. Sono possessive, dice, non partecipative. Non si scelgono, ti prendono. E se non sei pronto, ti portano giù, come le correnti d’acqua sotto i moli abbandonati.

E aggiunge — con la precisione clinica di chi ha studiato l’anima più della metà dei suoi colleghi messi insieme — che, in assenza di controllo, l’individuo regredisce a uno stato primitivo, diventando incapace di vero giudizio morale. Detto in parole semplici: essere “in contatto con le emozioni” non significa niente, se non si è in grado di educarle.

Il Cristianesimo lo sa da duemila anni. La civiltà non è il contrario delle emozioni, ma il loro giardino murato: un luogo in cui possono crescere senza diventare infestanti. L’autocontrollo non è rimozione. È disciplina. È la distanza che ci permette di vedere e valutare, non solo di sentire. “Chi segue il cuore” senza guida finisce spesso dove il cuore non abita più.

La moda attuale vuole l’individuo trasparente, accessibile, vulnerabile, in process, con lo zainetto emotivo sempre aperto come il bagagliaio di una Panda scassata. Ma il mondo non è una terapia di gruppo. E se pure lo fosse, i migliori terapeuti sono quelli che insegnano a distinguere, non a sprofondare.

Perché quando le emozioni diventano l’unico metro, quando “sentire” sostituisce “pensare” e “reagire” scalza “giudicare”, allora non si è diventati più autentici: si è solo diventati più fragili, più manipolabili, più primitivi.
E a quel punto — come diceva sempre mia zia Aurelia — “non è più sentimento, è solo melassa.”

 

lunedì 19 maggio 2025

La Chiesa non è l’ANPI

 Chi continua a chiedere alla Chiesa cattolica di “stare al passo coi tempi” forse dovrebbe rivedere le proprie aspettative istituzionali. Capisco la buona fede di certi commentatori, e capisco anche che in un mondo dove tutto si vota, si rinnova e si twitta, l’idea che un’organizzazione millenaria resti fedele a un corpus dottrinale invece che a un algoritmo predittivo può risultare un tantino straniante. Ma è così. Lo è sempre stato.

Mi era già capitato di scriverlo, con tono un po’ più serio, a proposito del modo in cui l’etnocentrismo secolare guarda alla Chiesa come a una ONG lenta e ostinata che non riesce a capire da che parte tira il vento. Oggi lo riprendo con un sorriso sulle labbra e un ospite d’onore: Thomas Sowell, economista afroamericano, conservatore scomodo e impresentabile per i woke, che ha recentemente commentato con lucidità il significato politico di certe prese di posizione ecclesiali.

Nel suo ultimo intervento Sowell difende l’idea che la missione della Chiesa sia quella di custodire verità eterne, non di riflettere le mode sociali del momento. Un pensiero a dir poco rivoluzionario per chi vive immerso nel presente permanente e considera reazionario tutto ciò che non cambia almeno due volte al giorno.

Sowell, tra l’altro, ci ricorda che le istituzioni rispondono a incentivi. E che quando questi incentivi diventano la popolarità a breve termine, la deriva è certa. Vale per i partiti, vale per i giornali, e vale anche per la Chiesa. Per questo non bisogna stupirsi se, dopo un papa “grillino” – diciamolo, con venia – si affaccia all’orizzonte un pontefice più ancorato alla dottrina. È un pendolo, non una frattura.


E se questo nuovo corso dovesse risultare indigesto ai filosofi nord-europei, ai vescovi progressisti, o ai giornalisti post-cattolici, pazienza. La Chiesa non è il Partito Democratico, non ha bisogno di raccogliere consensi al Family Day, né deve elaborare mozioni sui diritti LGBTQ+ da presentare al sinodo come se fosse il congresso dell’ANPI.

La Chiesa è un’istituzione religiosa. E come ogni religione che si rispetti, sopravvive perché non si adatta troppo. Non ha l'obbligo di essere moderna, ha il compito di essere vera.

Lo dice bene Sowell quando descrive il nuovo papa Leone come uno che ha scelto di “sopportare ritorsioni” pur di non compromettere l’identità spirituale della Chiesa. Un papa che, invece di rincorrere l’inclusività come se fosse un hashtag, ha scelto di riaffermare la verità. Con tutti i costi politici del caso.

Ora, se uno crede davvero che la verità non esista, allora ha senso pretendere che la Chiesa si aggiorni a ogni cambio di stagione. Ma se si ammette che esista un nucleo immutabile di senso – anche solo come ipotesi culturale – allora si può anche tollerare che qualcuno, da duemila anni a questa parte, provi ostinatamente a testimoniarlo.

E per quanto possa sembrare strano, è proprio questa ostinazione che fa della Chiesa una delle poche agenzie morali non ancora colonizzate dalla narrativa dominante.

Come direbbe Sowell: “Il compito della Chiesa è confrontarsi con la realtà, non conformarsi alle visioni delle élite”.

Amen.

domenica 18 maggio 2025

Razzista… anche no!

 [Visto che dice spesso delle cose interessanti, le ultime anche su papa Leone, questo post è una specie di introduzione ad altri in cui riprenderò le sue cose]

Thomas Sowell è uno degli intellettuali più lucidi e controversi del panorama conservatore americano contemporaneo. Nato nel 1930 a Gastonia, North Carolina, e cresciuto ad Harlem in un contesto di povertà, ha costruito una carriera accademica e pubblicistica di straordinaria influenza, diventando un riferimento per il pensiero liberale classico e libertario. Oggi è emerito presso la Hoover Institution della Stanford University. Economista di formazione, con studi a Harvard, Columbia e un dottorato conseguito all’Università di Chicago sotto la guida di George Stigler, Sowell ha insegnato in numerose università americane e ha pubblicato oltre 40 libri su economia, politica, razza e cultura. Tra le sue opere più note: Basic Economics, A Conflict of Visions, The Vision of the Anointed, Intellectuals and Society e Black Rednecks and White Liberals

Proprio quest’ultimo libro lo ha reso particolarmente scomodo per il progressismo radicale: in esso, Sowell sostiene che molti tratti disfunzionali attribuiti alla “cultura ghetto” afroamericana derivino in realtà dalla “redneck culture” degli immigrati scozzesi e irlandesi del Sud degli Stati Uniti. Una tesi che, se formulata da un autore bianco, sarebbe probabilmente bollata come razzista, ma che nel suo caso mette in crisi le categorie ideologiche del pensiero woke.

Sowell è un critico implacabile delle élite intellettuali progressiste, che definisce “gli Unti” (the Anointed), accusandole di imporre visioni ideologiche scollegate dalla realtà empirica e di promuovere politiche paternalistiche che danneggiano proprio le minoranze che dichiarano di voler aiutare. La sua critica alle quote etniche, al multiculturalismo e al vittimismo razziale lo ha reso una voce isolata ma rispettata, difficile da ridurre al silenzio proprio per la sua identità afroamericana.

La sua traiettoria personale — da giovane marxista a convinto sostenitore del libero mercato — e la sua capacità di smontare con dati e logica le narrazioni dominanti, fanno di Thomas Sowell una figura intellettuale dirompente, spesso ignorata o evitata dai media mainstream, ma centrale nel dibattito conservatore e libertario.

sabato 17 maggio 2025

Preghiera e meditazione


Daniela mi racconta di aver ricominciato a pregare. Non meditare, non fare yoga, non respirare consapevolmente – proprio pregare. A voce bassa, da sola, quando possibile, tenendo assieme il cuore e la recitazione. Fateci caso, le preghiere non hanno paura di essere una messa in scena, e infatti si recitano. Mi colpiva quel verbo usato con naturalezza, come se nulla fosse cambiato negli ultimi secoli, come se la preghiera fosse ancora una cosa ovvia. E invece no. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta o Novanta – in quella lunga transizione dall’Italia democristiana all’Italia senza Dio – la preghiera è diventata un gesto raro, quasi strano, sicuramente da giustificare. Daniela no. Daniela pregava. E in quel suo piccolo ritorno mi è sembrato che si giocasse qualcosa di più grande.

L’idea che oggi esista una distinzione netta tra “preghiera” e “meditazione” sembra ormai un dato acquisito, come se si trattasse di due binari separati, due mondi incompatibili. Da un lato la meditazione: laica, neutra, buona per l’ansia e l’equilibrio psicosomatico. Dall’altro la preghiera: confessionale, imbarazzante, rivolta a un Altro che molti non nominano più. Eppure non è sempre stato così. La separazione è figlia di un’epoca precisa, quella della soggettività secolarizzata, che ha progressivamente espulso il trascendente dall’esperienza interiore, riducendo l’anima a psiche e l’ascesi a tecnica. È una trasformazione culturale sottile, ma profonda. E ci ha portato dove siamo: a un mondo dove ci si osserva dentro con microscopi sempre più sofisticati, ma ognuno per conto suo, e soprattutto si parla sempre meno con Dio.

Prima di Agostino, l’interiorità non era un problema. La vita si proiettava verso l’esterno, in un’etica del gesto, dell’impresa, dell’onore da difendere pubblicamente. Poi arriva lui, Agostino, e filtra il messaggio cristiano alla luce della filosofia, in un modo che cambia tutto. Con le Confessioni, inaugura un nuovo modo di cercare Dio: non nei templi o nei sacrifici, ma nel cuore. “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova…” – lo dice a sé stesso, lo dice a Dio, e dice a tutti che la via per incontrare il divino passa da un movimento verso l’interno. È lì che preghiera e meditazione si intrecciano, si confondono, diventano un’unica azione: cercare la Verità dialogando con Essa, nel profondo.

La modernità, però, rompe questa unità. Con l’affermarsi del soggetto autonomo e della razionalità secolare, l’interiorità si svuota di Dio e si riempie di sé. Il soggetto diventa l’oggetto della sua stessa indagine, e la meditazione si laicizza: da preghiera che cerca un tu, a introspezione che osserva un io. La preghiera, in questo nuovo orizzonte, appare sospetta: troppo ingenua, troppo dipendente da una figura paterna, troppo “infantile”. Eppure non scompare: resiste, come gesto di minoranza, come testimonianza eccentrica di una relazione che non si è interrotta. Ma certo cambia: spesso diventa più rarefatta, più intellettualizzata, a volte ridotta a sistema etico, come se Dio fosse solo un principio regolativo, un’idea-guida, non una presenza viva.

Ed è qui che il ritorno di Daniela acquista valore. Perché non è una conversione teorica o una nostalgia da calendario. È una fame. È il bisogno di rispondere a una domanda che la meditazione, da sola, non può più soddisfare: quella di essere in relazione. Non semplicemente ascoltarsi, ma essere ascoltati. Non semplicemente osservarsi, ma dirsi. Dire qualcosa, a qualcuno. Magari in silenzio, magari senza parole, ma sempre nella consapevolezza che un Altro – non io, non il mio benessere, non il mio equilibrio – è lì ad accogliere quella parola. Daniela non cerca pace. Cerca Presenza.

Forse allora non serve scegliere. Forse il punto non è decidere se siamo per la preghiera o per la meditazione, come se fossero squadre avversarie. Forse la nostra epoca ha bisogno di entrambe, ma riportate al loro significato originario, vale a dire unitario. La meditazione può essere una via di discesa in sé, una forma di attenzione radicale. La preghiera, una salita, una relazione che ci sposta oltre noi stessi. Una domanda aperta al cielo. Un atto d’amore.

In fondo, lo dice anche Agostino: In interiore homine habitat veritas. Ma quella verità, per lui, non era l’io. Era Dio.

 


venerdì 16 maggio 2025

Il complesso di Caino: potere, gratitudine e la fine della trascendenza - Lezione #14 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni 18 dicembre 2024

 Perché siamo religiosi: potere, gratitudine e la fine della trascendenza

Lezione numero 14 registrata il 18 dicembre 2024

La lezione finale e la struttura del testo di Sahlins

La quattordicesima e ultima lezione del Modulo B si è concentrata sulla lettura e discussione dei primi due capitoli del libro di Marshall Sahlins, The New Science of the Enchanted Universe. Dopo aver chiarito la struttura quadripartita del libro — finitudine umana, immanenza, metapersonhood, e sistema politico cosmico — la lezione ha affrontato in modo dettagliato i primi due nuclei, partendo dal presupposto che l’uomo non è autosufficiente e che la sua esistenza è sempre interrelata a poteri metaumani.


La finitudine umana come base del religioso

Nel primo capitolo, Sahlins sostiene che l’essere umano si riconosce come essere finito, incapace di controllare pienamente il proprio destino. In questo senso, la religione emerge non solo come risposta alla paura e all’incertezza, ma anche come forma di gratitudine. Non è solo la sventura a suscitare il ricorso agli spiriti o agli dei, ma anche — e forse soprattutto — il successo. In questa chiave, Sahlins rovescia l’idea che la religione sia un semplice palliativo per l’angoscia, proponendo invece un'antropologia della riconoscenza.


Il complesso di Caino e la dimensione politica dell’invidia

Uno dei momenti più significativi della lezione è l’introduzione del “complesso di Caino”: l’idea che il successo altrui, soprattutto se percepito come immeritato o sproporzionato, può generare odio e desiderio di punizione. Questa dinamica viene estesa a fenomeni storici e politici globali: il risentimento verso popoli che, dopo secoli di persecuzioni, diventano prosperi e potenti. La religione, allora, non è solo un rifugio esistenziale, ma anche uno specchio delle tensioni sociali e politiche più profonde.


Gli ex voto: tra bisogno e ringraziamento

Collegandosi alla prossima uscita sul campo, si introduce il tema degli ex voto. Due le motivazioni principali che spingono a offrire un ex voto: la richiesta di aiuto in situazioni di crisi e la gratitudine per un beneficio ricevuto. L’economia del dono religiosa si muove tra queste due polarità, rafforzando l’idea che il divino sia coinvolto tanto nei fallimenti quanto nei successi. In questo senso, la religione si configura come un meccanismo relazionale e non solo simbolico.


L’immanenza come visione ontologica alternativa

Nel secondo capitolo, il concetto di immanenza diventa centrale. In molte culture tradizionali, gli spiriti, gli antenati, le divinità non abitano un “al di là”, ma sono presenze concrete nel mondo. Non esiste una netta distinzione tra naturale e soprannaturale, tra umano e divino. Tutto ciò che esiste è persona, e l’animismo è una teoria ontologica che riconosce volizione, carattere e agency a ogni essere.


Contro l’antropologia simbolista: oltre “credenza” e “mito”

Sahlins critica l’uso delle categorie occidentali di “credenza” e “mito”, che distorcono la comprensione delle religioni immanentiste. Secondo lui, parlare di "simbolismo" o di "finzione" per descrivere le pratiche religiose altrui è un errore metodologico. Piuttosto, queste pratiche devono essere comprese come esperienze concrete, analoghe al “pensiero veloce” di Daniel Kahneman: immediate, intuitive, non filtrate da una riflessione razionalistica, salvo che non si verifichino dissonanze cognitive.


Una scienza sociale che generalizza: il richiamo di Edmund Leach

Ritornando a Edmund Leach, Sahlins invoca un’antropologia capace di formulare enunciati generali, contro la deriva descrittiva “tra gli X, gli Y, gli Z”. La comparazione, se ben condotta, permette di cogliere regolarità strutturali — come il fatto che ogni sistema di parentela prevede relazioni di incorporazione (che costruiscono un “noi”) e relazioni di alleanza (che mettono in relazione più gruppi). Le prime sono legate alla sostanza condivisa, le seconde all’influenza mistica. È un invito a superare la “sindrome di Funes” che paralizza l’antropologia contemporanea.


Il rituale come invocazione di agency

Un punto teorico centrale è il ribaltamento del concetto di agency: nel mondo immanentista, non è l’umano a causare, ma sono i poteri spirituali a trasformare l’umano da potenza ad atto. Il rituale, dunque, è una strategia per coinvolgere i metaumani, e la “magia” è la tecnica operativa del mondo immanente. In questo quadro, non c’è distinzione tra tecnica e magia, tra politica e religione.


Vico contro Durkheim: due visioni della religione

Sahlins mette a confronto Vico e Durkheim: per il primo, Dio è un potere esterno assorbito nella società; per il secondo, Dio è la società stessa proiettata nell’oltremondo. Sahlins li considera due modelli ontologici: uno immanentista, l’altro trascendentalista. Il suo invito è a non confondere il secondo con la religione tout court. In questo senso, Geertz ha tentato una strada interpretativa che guarda alla religione come forza interna al mondo sociale, avvicinandosi alla posizione di Vico.


Secolarismo metodologico e deriva post-strutturalista

La lezione si conclude con una riflessione epistemologica. La cosiddetta “svolta linguistica” avrebbe potuto condurre l’antropologia verso una scienza abductiva, capace di formulare ipotesi generali. Invece, l’influenza di Foucault e del post-strutturalismo francese ha spinto verso la decostruzione del potere e l’abbandono dell’analisi della religione come forma concreta di conoscenza del mondo. L’antropologia ha così proiettato su altri popoli il suo secolarismo metodologico, fraintendendone profondamente l’ontologia religiosa.


Conclusione: la religione come forza nelle faccende quotidiane

Sahlins invita a considerare la religione non come ideologia, né come compensazione simbolica, ma come forza essenziale nelle faccende quotidiane. Le divinità sono presenti, non credute; i riti non sono drammaturgie ma strategie operative; il sacro non è oltre ma dentro il mondo. In questo senso, il suo progetto si avvicina alla cosiddetta svolta ontologica, pur rimanendo saldamente ancorato alla ragione. Riconoscere l’immanenza come forma di realtà e non come superstizione è, per Sahlins, la condizione necessaria per restituire dignità conoscitiva al religioso.

mercoledì 14 maggio 2025

Presentazione del volume Lo Stato Nazione e i suoi mali, di Michael Herzfeld

 LO STATO NAZIONE E I SUOI MALI


“Lo Stato Nazione e i suoi mali” è il volume dell’antropologo Michael Herzfeld che sarà presentato giovedì 15 maggio 2025 alle 15.00 a Roma presso la Sala Misiti dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irrps) – Via Palestro, 32 (II piano). Interverranno, oltre all’autore, il direttore del Dipartimento scienze umane e sociali, patrimonio culturale (Cnr-Dsu) Salvatore Capasso per i saluti istituzionali e, a seguire, Francesco Faeta della Sapienza Università degli studi di Roma, Alexander Koensler dell’Università degli studi di Perugia e Pietro Vereni dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata. L’evento sarà moderato da Azzurra Malgieri del Cnr-Irpps.

Sarà un piacere poter discutere ancora con Michael Herzfeld e i colleghi Francesco Faeta e Alexander Koensler di questo importante libro e dei molteplici spunti che offre.

Per informazioni

  • eventi.dsu@cnr.it
  • Silvia Mattoni, Responsabile relazioni con i media CNR-DSU, cell. 328/6250729, e-mail silvia.mattoni@cnr.it

lunedì 12 maggio 2025

Il potere degli dèi: ripensare l'autorità - Lezione #13 di Antropologia del Modulo B di Antropologia culturale per Tor Vergata - Pietro Vereni 16 dicembre 2024

 

Lezione numero 13 registrata il 16 dicembre 2024

    

Il potere degli dèi: ripensare l'autorità nell'antropologia delle religioni

Perché pensiamo che ogni forma di potere sia inevitabilmente oppressiva? Quando è iniziata questa nostra diffidenza nei confronti dell’autorità? E soprattutto: siamo sicuri che questa visione rispecchi l’esperienza storica dell’umanità?

La tredicesima lezione di antropologia delle religioni, registrata il 16 dicembre  2024, ci invita a seguire Marshall Sahlins in un viaggio radicale attraverso la genealogia del potere. Con il suo libro The New Science of the Enchanted Universe, Sahlins ci propone una tesi dirompente: per gran parte della storia umana, il potere non è stato una prerogativa degli uomini, ma un dono – o un furto – degli dèi, degli spiriti, degli antenati. Il potere, in altre parole, non nasce con la politica, ma con la cosmologia.

Nel mondo incantato delle società immanentiste, il potere non è dominio ma relazione. È una forza che circola tra umano e non-umano, tra vivi e morti, tra la terra e l’aldilà. Ed è proprio questa concezione sacrale e relazionale del potere ad essere stata cancellata – o meglio, sfrattata – dalla modernità, che ha confinato il sacro altrove, rendendo il mondo un luogo inerte e disincantato. Ma è davvero questa la realtà in cui viviamo?

Questa lezione non è solo un’esegesi di un testo, ma una provocazione filosofica: e se il potere non fosse sempre e solo dominio? E se fosse anche cura, attenzione, responsabilità? E infine: possiamo davvero parlare di “diritti umani” o di “valori universali” se prima non decidiamo se il mondo abbia, o meno, un significato?

 


Il contesto teorico: svolta ontologica e relativismo

La lezione si apre con un richiamo alla “svolta ontologica” in antropologia, sviluppatasi a partire dai primi anni 2000 grazie ai lavori di Eduardo Viveiros de Castro e Philippe Descola. Questi autori sostengono che le cosmologie dei popoli studiati non vadano solo interpretate come rappresentazioni del mondo, ma come ontologie alternative, cioè come mondi effettivamente diversi.

La proposta, che flirta con un relativismo ontologico radicale, viene tuttavia messa in discussione da Sahlins, il quale pur riconoscendo la serietà delle visioni cosmologiche indigene, mantiene una distinzione tra mondo reale condiviso e pluralità di prospettive culturali. La sua è quindi una versione moderata della svolta ontologica: le cosmologie sono visioni del mondo, non creazioni di mondi alternativi.


Potere e antropologia politica: critica al senso comune delle scienze sociali

Sahlins attacca l’assunto dominante nelle scienze sociali secondo cui il potere è un meccanismo auto-riproduttivo finalizzato al controllo e al dominio. Tale visione, sostenuta tra gli altri da Noam Chomsky, identifica il potere con l’oppressione e ne deduce la necessità etica della resistenza. È una prospettiva che ha assunto i tratti di un dogma epistemologico, diffondendo una concezione “cratofobica” (dal greco kratos = potere, phobos = paura) per cui ogni esercizio di autorità è visto come sospetto e intrinsecamente malvagio.

Sahlins, invece, propone una rivalutazione del potere come cura, come forma di trasformazione positiva dell’altro, in una relazione asimmetrica ma non necessariamente oppressiva. Una madre che allatta esercita un potere, ma lo fa per nutrire e non per dominare. Questa concezione “terapeutica” del potere è marginalizzata dall’epistemologia contemporanea, che rifiuta qualsiasi visione positiva della gerarchia.


La genealogia sacrale del potere

Il cuore del ragionamento di Sahlins è una teoria storico-antropologica della genesi del potere, che ribalta la prospettiva materialista classica. Egli sostiene che gli esseri umani hanno sempre saputo di non avere un potere proprio, e di doverlo attingere da una sorgente meta-umana: spiriti, divinità, antenati, forze impersonali come il mana.


Il potere autentico non è umano, ma è donato, sottratto, contrattato o rubato da questi powerful beings. È solo con il trasferimento della sorgente del potere al trascendente, avvenuto con la cosiddetta età assiale (secondo Karl Jaspers), che si crea l’illusione moderna di una politica secolare, autonoma e autosufficiente.


Religione e potere: il mondo come società cosmica

Nelle cosmologie immanentiste pre-assiali, il mondo stesso era sacro, e il potere permeava la materia. Ogni azione efficace (una caccia, una guarigione, una nascita) era possibile grazie al consenso o all’intervento di forze non umane.

Con l’età assiale, invece, la divinità viene sfrattata dalla realtà immanente e trasferita in un “altro mondo”, separato e trascendente. L’uomo viene così lasciato solo, in un mondo disincantato, a gestire rapporti di forza puramente umani. Questo passaggio segna la nascita della concezione laica del potere, che diventerà centrale con la modernità occidentale, da Machiavelli ad Adam Smith.


La seconda età assiale e l’individualismo moderno

Sahlins introduce poi la nozione di “seconda età assiale”, che si apre tra Medioevo e Illuminismo, e in cui l’individuo diventa autonomo rispetto alle forze cosmiche. Nasce così l’idea moderna di soggetto, dotato di razionalità e volontà autonoma, libero di creare istituzioni e cultura senza bisogno del divino. Si afferma il paradigma scientifico, economico e culturale secolare, in cui il sacro è definitivamente marginalizzato come sovrastruttura.


Hocart e la religione come fondamento del potere

Sahlins si appoggia alla figura di Arthur Maurice Hocart, autore seminale ma poco noto, che aveva già indicato due tesi fondamentali:

1.   Gli uomini hanno vissuto con gli dei prima che con i re, cioè la gerarchia religiosa precede quella politica.

2.   Le istituzioni burocratiche moderne derivano dai riti religiosi, che sono forme codificate di accesso al potere.

Questa eredità consente a Sahlins di rovesciare l’intero schema materialista: non è la struttura economico-produttiva a determinare il sistema simbolico-religioso, ma viceversa.


Immanentismo vs trascendenza: l’ontologia dell’azione

Il concetto di “società cosmica” è centrale per Sahlins: una rete in cui umani e meta-umani agiscono insieme, producendo la vita, la morte, il senso. La distinzione moderna tra materiale e spirituale è una costruzione recente e culturalmente specifica. In molte società tradizionali, la cultura non è il risultato di azioni umane, ma l’effetto di interazioni con esseri potenti.

Importante in questo quadro è anche Alan Strathern, che nel suo libro Unearthly Powers distingue tra culture immanentiste (in cui il potere è distribuito nel mondo) e culture trascendentiste (in cui il potere risiede in un’altra realtà). Nell’immanentismo, gli umani possono negoziare o addirittura appropriarsi del potere, mentre nel trascendentismo non possono far altro che sottomettersi.


L’opposizione tra islam e cristianesimo

Nel confronto tra religioni, emerge un’interessante distinzione tra islam e cristianesimo. L’islam – come anche l’ebraismo arcaico – propone una visione in cui Dio è totalmente altro, l’uomo non può che sottomettersi (islām). Il cristianesimo, invece, elabora una teologia dell’amore in cui Dio è sì trascendente, ma sceglie di entrare in relazione con l’uomo.

Questo è possibile attraverso la figura di Gesù, che rende Dio accessibile senza annullarne la trascendenza. Qui il concetto agostiniano di persona diventa essenziale: ogni individuo è definito dal suo rapporto personale con il divino, e da questa relazione trae valore, dignità e potere. È un individualismo relazionale, fondato sull’amore.


Critica alla secolarizzazione e alla cratofobia

Sahlins critica duramente le scienze sociali contemporanee, che hanno accettato in pieno il modello laico e secolare del potere. L’antropologia, secondo lui, ha trasferito la propria visione secolarizzata sui popoli studiati, trattando i loro riti non come atti efficaci, ma come simboli o compensazioni psicologiche (come in Malinowski).

Questa riduzione impedisce di cogliere la densità ontologica delle pratiche rituali, che per molte culture sono strumenti concreti di relazione con gli esseri potenti. L’antropologia ha dimenticato che per la maggior parte dell’umanità, il mondo è ancora incantato.


Conclusione: un nuovo paradigma antropologico

Sahlins propone una nuova scienza dell’universo incantato, che riconosca la presenza attiva di esseri meta-umani e rivaluti la dimensione sacrale del potere. Solo così è possibile rimettere al centro la questione del significato, recuperando la possibilità di una morale, di un giudizio, di una scala del bene.

La lezione si chiude con una riflessione provocatoria: senza una differenza qualitativa tra pratiche e valori, tra bene e male, non c’è possibilità di difendere i diritti umani, la giustizia o la dignità. La scienza sociale deve decidere: o il mondo ha un significato, oppure non ha alcun valore. E, nel primo caso, bisogna riconoscere la presenza di Dio – o almeno di una mente ordinante.

 

sabato 10 maggio 2025

Leone XIV e l’etnocentrismo


 “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Comincia tutto da qui. Ma non per il papa, non solo per la Chiesa: comincia da qui, o dovrebbe cominciare da qui, anche l’antropologia culturale. Non nel senso che tutti dobbiamo convertirci al cristianesimo (non sia mai), ma nel senso che l’atto di riconoscere una posizione radicalmente altra, di prenderla sul serio nelle sue condizioni di verità interne, di ascoltarla prima di ridurla al nostro schema interpretativo, è il fondamento stesso del nostro mestiere.

La prima omelia di Leone XIV è, da questo punto di vista, una lectio magistralis. E ci ricorda che questo papa non è né bergoglianoanti-bergogliano, né conservatoreprogressista, né populistaelitarista. È, ed è qui che molti inciampano, un papa cristiano.

A volerlo incasellare – come già si sta facendo, e peggio si farà – si tradisce un riflesso tipico dell’etnocentrismo: quello per cui ogni enunciato, ogni gesto, ogni parola deve necessariamente rientrare in uno dei nostri schemi di senso, pena l’irrilevanza. Come se la realtà fosse lì per essere confermata dalla nostra griglia interpretativa, e non per metterla in crisi. Come se Cristo, per parlare alla storia, dovesse diventare un po’ socialdemocratico, oppure un po’ tradizionalista con sensibilità ecologista.

Quello che Leone XIV fa, invece, è esattamente il contrario. Si mette fuori da tutti i circuiti prevedibili dell’analisi. Non è “contro” il mondo: semplicemente non lo prende come riferimento prioritario. Non dice che la fede cristiana è più ragionevole del pensiero moderno, dice che è un’altra cosa. Non chiede che la Chiesa diventi rilevante nei dibattiti della società contemporanea: dice che la Chiesa è il corpo vivente del Cristo, il luogo in cui l’umano viene trasfigurato perché Dio si è fatto carne.

Questa distinzione, che è teologica, è anche un richiamo epistemologico per chi fa il nostro mestiere: è la differenza tra interpretare a partire dai soggetti e interpretare sui soggetti. E noi, diciamolo chiaramente, troppo spesso facciamo la seconda. Come se gli attori sociali non sapessero quel che dicono, come se i nostri informatori andassero decodificati, smascherati, “tradotti” nel nostro gergo teorico.

Ma Leone XIV ci invita a un’altra postura: quella di chi ascolta senza precomprensioni, di chi assume come plausibile – almeno come punto di partenza – ciò che viene detto in nome di un altro mondo possibile. È l’approccio emic, lo ripeto in tutti i miei corsi: assumere il punto di vista interno, non per rinunciare alla critica, ma per evitare l'arroganza di chi pensa di sapere già come stanno le cose.

E c’è di più. Leone XIV sembra esigere questa serietà dell’ascolto anche dai cristiani stessi. Lo fa quando critica quello che chiama “ateismo di fatto”, cioè la riduzione del Cristo a un profeta tra gli altri, a un uomo esemplare, magari anche stimato e seguito, ma pur sempre addomesticato dentro le nostre categorie culturali e morali. È proprio contro questo atteggiamento che si scaglia: contro quel modo di fare finta di ascoltare, per poi imporre alla parola dell’Altro le nostre griglie interpretative. Come a dire: “sì, parla pure, tu, Altro. Tanto io so già come la pensi, e appena taci te lo dico”. No, dice Leone XIV: l’Altro ha un messaggio sconvolgente da portare, e non possiamo addomesticarlo nelle nostre scatoline predisposte.

Quando il papa parla della fede come testimonianza che può essere disprezzata, compatita, ridotta a superstizione; quando descrive la figura di Gesù rifiutato dai potenti e abbandonato dai suoi; quando chiede che chi ha autorità nella Chiesa impari a “sparire perché rimanga Cristo”... non sta facendo né politica, né sociologia, né etica pubblica. Sta dicendo qualcosa che ha senso solo se si accetta la premessa: che Cristo è davvero il Figlio del Dio vivente.

E se così è, allora tutto il resto – le etichette, le classificazioni, le griglie interpretative – va messo tra parentesi. È un cambio di sguardo. È il punto zero dell’analisi culturale: non capire per giudicare, ma capire per lasciarsi interrogare.

Chi ha orecchi, ascolti. Ma ascolti davvero.