È da leggere con attenzione la lettera alle famiglie scritta dal cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, su “Famiglia e società” . Notevoli soprattutto alcuni passaggi a proposito del calo demografico italiano:
si assottiglierà la trasmissione del nostro patrimonio culturale, proprio quando si diffonderanno altre culture portate dagli immigrati.
Come capita spesso agli enunciati più intimi del quadro culturale che li ha generati, anche questo ha l’apparenza di un’ovvietà, indipendentemente dal giudizio morale che vi associamo. Sembra insomma una specie di premessa fattuale al discorso politico, uno squarcio oggettivo sulla realtà di fatto per accordarci sul tema in discussione e provvedere di conseguenza alle necessarie scelte. Ci sarà, ovviamente, chi deprecherà quello stato di fatto e tenterà resistenze di varia natura; chi considererà lo stato di cose sostanzialmente inevitabile, proponendo un lavorio sociale teso alla sua accettazione indolore: chi, infine, lo celebrerà come un potenziale beneficio, auspicando provvedimenti atti ad accelerare la sua compiuta realizzazione.
In tutto questo, i più rischierebbero di non accorgersi che quel semplice enunciato descrittivo sta a tutti gli effetti costituendo una realtà sociale secondo un corpus di tratti “descrittivi” tutt’altro che scontati o condivisibili, appena si passi alla loro disamina.
Analiticamente, il testo è scomponibile nei seguenti enunciati semplici:
1. Esiste un calo demografico in Italia
2. Questo calo causerà un assottigliamento della trasmissione del patrimonio culturale (italiano?)
3. Questo patrimonio culturale (italiano?) è proprietà dell’enunciante (il cardinal Antonelli) e dei destinatari della lettera, dato che viene aggettivato “nostro”.
4. L’assottigliamento del patrimonio culturale avverrà mentre si diffonderanno altre culture portate dagli immigrati.
Quel che si dice in 2 è in palese contraddizione con quel che sappiamo sulla trasmissione del sapere culturale. Diversamente infatti dal sapere di tipo biologico, incorporato nel nostro patrimonio genetico e trasmissibile solo con la riproduzione, il sapere di tipo culturale è sostanzialmente indipendente dalla riproduzione e avviene entro il lento processo di socializzazione che accompagna gli esseri umani per tutta la loro vita.
Indipendentemente cioè da chi sia stato l’inventore o da chi si consideri il titolare di un qualunque sapere culturale, esso può essere trasmesso a chiunque, tant’è vero che le culture umane costruiscono molto spesso barriere di accesso a determinate forme di sapere, che si vogliono mantenere esoteriche in quanto intenzionalmente limitate nella trasmissione. La cultura, insomma, è una malattia tendenzialmente epidemica, che di suo tende a circolare ben al di là del cerchio originario della sua produzione. Quel che sappiamo sulla diffusione planetaria di pratiche sicuramente inventate in un certo luogo e in un certo tempo ci conferma circa la rapidità potenziale della trasmissione culturale, e la pari rapidità del deperimento del messaggio culturale trasmesso, che implica la sostanziale necessità di iterarlo costantemente. Diversamente infatti dal sapere biologico (che tende alla persistenza e che solitamente non muta nel corso della vita di un soggetto) il sapere culturale può variare profondamente nel corso di una vita umana. Per esempio, la percentuale massima di melanina concentrata nella pelle rimane stabile nel corso di tutta la vita, mentre il giudizio su cosa sia una “buona musica” può variare al di là di qualunque ragionevole previsione.
Se insomma non vi è relazione diretta tra riproduzione biologica e sapere culturale (ho lavorato a lungo in un paese, la Grecia, in questo problema è particolarmente sentito) non ha alcun senso collegare il calo demografico con l’assottigliamento della trasmissione del nostro patrimonio culturale. Una cultura non si assottiglia – né si estingue, se è per questo – con il calo demografico dei suoi portatori, per il duplice motivo che è possibile trasmetterla facilmente a non portatori, e che è comunque assai dubbio che si possano individuare i “portatori effettivi” di una cultura, tanto più quando si parla di vasti conglomerati come le cosiddette culture nazionali. Se in Valtellina smettono di fare figli e si estinguono, sparisce la cultura valtellinese o quella italiana? Se tutti i veneti di colpo diventassero sterili e alla prossima generazione la polenta smettesse di essere considerata un alimento decente, sarebbe scomparso un pezzo della cultura veneta, di quella italiana o di quella “padana”? E anche se morisse senza lasciare eredi l’ultimo discendente “biologico” di Dante (o Petrarca, o Manzoni, o Calvino) questo implicherebbe un assottigliamento della trasmissione del nostro patrimonio culturale? Non credo che molti sarebbero disposti a rispondere di sì ad alcuna di queste domande. La cultura italiana (qualunque cosa il termine significhi) si estinguerà nel momento in cui smetterà di essere insegnata e appresa, non quando smetteranno di fare figli i possessori (qualunque cosa il termine significhi) di quella cultura.
Pare quindi evidente che la prospettiva del cardinal Antonelli ha senso solo a una condizione: considerare la “famiglia di orientamento” (quella in cui si è nati) come il vero e unico luogo dell’inculturazione (che è l’ingresso in un quadro culturale). Se fosse così, se veramente dentro la famiglia che ci ha messo al mondo subissimo una sorta di imprinting culturale, allora il senso del discorso del cardinale potrebbe emergere nella sua chiarezza.
Dobbiamo quindi dedurre che, quali che siano le intenzioni esplicite, il discorso ha certo la necessaria intenzione di veicolare la natura inevitabile e immutabile della famiglia come contesto dell’inculturazione. Il sapere che si impara dentro la famiglia nei primissimi anni di vita, in quest’ottica autorevole, somiglia in tutto e per tutto al sapere trasmesso per via biologica: come quello, non è sostanzialmente modificabile e, come quello, è indispensabile per la sopravvivenza del gruppo come entità culturale, oltre che statistica.
Da laico, trovo molto dolorosa questa concezione della cultura senza la minima briciola di speranza. Mi ricorda certi determinismi propri dei totalitarismi, che preferiscono distruggere la diversità piuttosto che farci i conti, ma quel che mi sorprende è il fatto che una simile concezione di-sperata della natura umana sia risalita fino ai vertici gerarchici di una religione originariamente universalista, dentro cioè un quadro antropologico che dovrebbe essere basato sulla speranza.
Il risentito incattivirsi sulla necessità di garantirsi le basi biologiche della propria sopravvivenza culturale sembra infatti derivare necessariamente (io, almeno, non trovo altra spiegazione) dalla totale sfiducia in quella che dovrebbe essere la pietra miliare del Cristianesimo: la ricerca della CONVERSIONE, di sé e dell’altro. Dio, infatti, ha detto “Crescete e moltiplicatevi” a Adamo ed Eva, cioè al genere umano in quanto tale, ma Gesù, ai suoi discepoli, aveva dato un altro messaggio: “Andate e predicate il Vangelo”. Gesù non si preoccupava delle condizioni demografiche del “suo gruppo”. Se il numero è necessario per la nostra specie, non era la consistenza numerica delle comunità cristiane a garantirne la possibilità di sopravvivenza, ma la forza della Parola di Dio, che spingeva gli altri a convertirsi, a lasciare cioè il modello culturale nel quale si erano formati per abbracciare una visione della realtà radicalmente diversa.
Un pastore che parla di “nostra” cultura come fosse un’ineluttabilità che ci separa dagli altri in modo definitivo, che si rifugia nel trucco della riproduzione biologica perché non è in grado di immaginare forme di conversione che consentano al suo Vangelo di diffondersi, a me, povero laico senza il dono della fede, non offre alcuna alternativa morale. Quel pastore è più disperato di me, ha meno fiducia di me nel genere umano e nella forza della parola. Quel pastore che, a Pasqua – festa della speranza più folle, la speranza della resurrezione e dell’immortalità, ricordiamolo, nella carne – mi confessa che la sua parola è così fiacca che – per sperare di sopravvivere al Mondo – deve provare ad ancorarsi ai corpi come una necessità sotto assedio, non come una scelta di libertà, a me induce un’infinita tristezza. Se questo è lo stato d’animo dell’Occidente cristiano (una disperazione amara e gonfia di risentito egocentrismo frustrato), non mi stupisce che il versante laico del nostro continente non abbia molto di meglio da dire.
Ma tra questo impaurito Dio cristiano che non ha neppure più il coraggio di parlare e pretende di riprodursi nei miei geni (bianchi? puri?) e un Dio islamico ossessionato dalla propria purezza al punto di pretendere che il mondo si sterilizzi per somigliargli, io credo sia ora di dare un nuovo senso morale alla sua assenza, per quanto dolorosa sia questa scelta radicale. Se a un Dio francamente assassino opponete un Dio francamente razzista, dei vostri idoli non so che farmene, e torno al precettore di Königsberg, che aveva capito che possiamo e anzi dobbiamo crearci una morale senza basarla su null’altro che la nostra incontenibile capacità di essere umani.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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mercoledì 28 marzo 2007
martedì 13 marzo 2007
For crepitatio
Da circa un mese il mio magnifico filtro antispam di gmail mi mette nell'apposita cartella una serie di schifezze inutili. Non riesco a cancellarle perché sono del tutto affascinato dai nomi dei "subject". Sembra una litania bizantina, una preghiera d'altri tempi. Giaculatorie al dio della rete, che riporto sperando che qualcuno mi sappia dire se sono benedizioni o maledizioni. Amen.
At burbo
At marqui
At elate
At bibliofil
For omnivorou
For crepitatio
For automato
For glar
On birthda
On intercalatio
On climati
On Levantin
On Finn
To bipeda
To shipmone
To imminenc
To educ
To foli
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lunedì 5 marzo 2007
Editing
Carla Benedetti, che stimo moltissimo, solleva una questione per me personale in duplice senso. Sul blog collettivo ilprimoamore.com si chiede chi sia l’editor, e quale il suo ruolo. Essendo io un editor da molti anni (ma solo di saggistica, mai di narrativa, per mia fortuna), già che se ne parli mi pare una conquista. Significa che il mondo dell’editoria italiana si avvia a normalizzare una figura spesso non solo invisibile, ma inesistente.
Carla chiede, un po’ retoricamente, se l’editor sia colui che pulisce il testo dalle sciocchezze e offre con cautela e parsimonia consigli che l’autore decide o meno se accettare, oppure se sia un intruso che interviene nel testo in modo pesante, anche a livello strutturale. Be’, potremmo dire che basta mettersi d’accordo prima, ma per quel che mi riguarda io vedo l’editing come una funzione di servizio. Quando mi è capitato di “addestrare” qualche giovane a questo lavoro, ho sempre detto loro che l’editor è il maggiordomo, l’autore un nobile spesso un po’ decaduto e il libro su cui lavoriamo un vestito non sempre all’altezza. L’editor, facendosi notare il meno possibile e cercando di non urtare la giusta suscettibilità dell’autore, deve ripulire il vestito, lucidare fibbie e bottoni. E se proprio vede strappi o macchie, metterci riparo rassicurando l’autore che non ha alcun intento punitivo nei suoi confronti (il famoso complesso della maestrina, che colpisce spesso gli editor alle prime armi ma anche direttori editoriali navigati) ma si mira solo a rendere il testo migliore (con tutta l’ambiguità che l’aggettivo si trascina).
Ma mi ha colpito la conclusione cui arriva Carla Benedetti: se prevale l’editor interventista (che addirittura può farsi vanto in pubblico di aver editato questo o quest’altro titolo di successo) allora significa che la letteratura è ridotta a “mero artigianato. Basta con la pretesa ridicola di inventare o di creare!”.
Capisco il problema, ma provo a calibrarlo per il settore del mio intervento, e cioè l’editoria saggistica. In questo campo gli editor molto spesso hanno purtroppo il problema urgente di far capire agli autori che quel che producono non è solo frutto di inventiva e di genio creativo, ma pretende anche lavoro, sudore, pazienza. Questo, moltissimi autori di saggi italiani (soprattutto e quanto più gravitano stabilmente attorno al mondo accademico) non lo capiscono e non vogliono capirlo.
Non so se sia un retaggio dell’idealismo crociano o un residuo ancora più antico del culto della sacralità della scrittura tipico del mondo cattolico (che letteralmente “adora” la scrittura e la lettura, più che praticarle), ma so che quando ho proposto quel paio di saggi che ho pubblicato all’estero (in inglese e in tedesco) ho avuto un bel daffare per soddisfare editor severissimi, che (molto giustamente) mi hanno posto domande difficili, hanno richiesto chiarimenti necessari, hanno preteso che io mettessi il massimo dentro il testo, e che non mi limitassi a farmi forte del mio potere autoriale e creativo. Da editor, invece, in Italia mi trovo spesso a fare i conti con una suscettibilità che diventa facilmente risentimento impermalosito.
Ci sono autori italiani di saggistica che si sentono oltraggiati da quel pezzente dell’editor se, puta caso, gli fa notare che “una conversione a 360 gradi” è esagerata (ne bastano 180, no? Altrimenti si torna al punto di partenza…) e che forse non ha molto senso parlare di “minimo comun denominatore” come un Bonolis qualsiasi, dato che in matematica esiste il minimo comune multiplo e il massimo comun denominatore, ma il minimo comun denominatore è un nonsenso (dato che per qualunque serie di numeri è sempre 1, ovviamente). Anche per cambiare palesi sciocchezze come queste spesso devo fare appello a tutto il mio senso diplomatico e alla mia lunga frequentazione con i suscettibili avventori dei bar veneziani quando facevo il barista per pagarmi gli studi…
Ripeto, queste righe non sono in polemica a quelle di Carla, ma una specie di contraltare che sento necessario. Nel campo della saggistica italiana sono troppi gli autori convinti che i titoli accademici siano sufficienti a concedere loro qualunque licenza, qualunque superficialità, qualunque sciatteria. Dei buoni editor, in casi del genere, stanno a fare la guardia per conto dei lettori, ché non capitino loro in mano (molto spesso per ragioni di studio, quindi senza neppure poter scegliere) testi con poco sugo e ancor meno sostanza.
Se esiste un problema nella scrittura “scientifica” italiana, a me non pare sia una carenza di creatività e un eccesso di artigianato, ma esattamente l’opposto: vedo (e leggo) troppa gente che sfodera la penna come un pennello da astrattista, e scaracchia a casaccio sotto il fuoco sacro dell’autorialità. Un po’ di umile artigianato, insomma qualche buon editor che tolga almeno le caccole più grosse dalle livree consunte dei baroni decaduti o emergenti, a me pare non faccia un soldo di danno, anzi, potrebbe ricondurre la saggistica italiana nell’alveo purtroppo naturale dei suoi molto spesso modesti confini attuali.
Carla chiede, un po’ retoricamente, se l’editor sia colui che pulisce il testo dalle sciocchezze e offre con cautela e parsimonia consigli che l’autore decide o meno se accettare, oppure se sia un intruso che interviene nel testo in modo pesante, anche a livello strutturale. Be’, potremmo dire che basta mettersi d’accordo prima, ma per quel che mi riguarda io vedo l’editing come una funzione di servizio. Quando mi è capitato di “addestrare” qualche giovane a questo lavoro, ho sempre detto loro che l’editor è il maggiordomo, l’autore un nobile spesso un po’ decaduto e il libro su cui lavoriamo un vestito non sempre all’altezza. L’editor, facendosi notare il meno possibile e cercando di non urtare la giusta suscettibilità dell’autore, deve ripulire il vestito, lucidare fibbie e bottoni. E se proprio vede strappi o macchie, metterci riparo rassicurando l’autore che non ha alcun intento punitivo nei suoi confronti (il famoso complesso della maestrina, che colpisce spesso gli editor alle prime armi ma anche direttori editoriali navigati) ma si mira solo a rendere il testo migliore (con tutta l’ambiguità che l’aggettivo si trascina).
Ma mi ha colpito la conclusione cui arriva Carla Benedetti: se prevale l’editor interventista (che addirittura può farsi vanto in pubblico di aver editato questo o quest’altro titolo di successo) allora significa che la letteratura è ridotta a “mero artigianato. Basta con la pretesa ridicola di inventare o di creare!”.
Capisco il problema, ma provo a calibrarlo per il settore del mio intervento, e cioè l’editoria saggistica. In questo campo gli editor molto spesso hanno purtroppo il problema urgente di far capire agli autori che quel che producono non è solo frutto di inventiva e di genio creativo, ma pretende anche lavoro, sudore, pazienza. Questo, moltissimi autori di saggi italiani (soprattutto e quanto più gravitano stabilmente attorno al mondo accademico) non lo capiscono e non vogliono capirlo.
Non so se sia un retaggio dell’idealismo crociano o un residuo ancora più antico del culto della sacralità della scrittura tipico del mondo cattolico (che letteralmente “adora” la scrittura e la lettura, più che praticarle), ma so che quando ho proposto quel paio di saggi che ho pubblicato all’estero (in inglese e in tedesco) ho avuto un bel daffare per soddisfare editor severissimi, che (molto giustamente) mi hanno posto domande difficili, hanno richiesto chiarimenti necessari, hanno preteso che io mettessi il massimo dentro il testo, e che non mi limitassi a farmi forte del mio potere autoriale e creativo. Da editor, invece, in Italia mi trovo spesso a fare i conti con una suscettibilità che diventa facilmente risentimento impermalosito.
Ci sono autori italiani di saggistica che si sentono oltraggiati da quel pezzente dell’editor se, puta caso, gli fa notare che “una conversione a 360 gradi” è esagerata (ne bastano 180, no? Altrimenti si torna al punto di partenza…) e che forse non ha molto senso parlare di “minimo comun denominatore” come un Bonolis qualsiasi, dato che in matematica esiste il minimo comune multiplo e il massimo comun denominatore, ma il minimo comun denominatore è un nonsenso (dato che per qualunque serie di numeri è sempre 1, ovviamente). Anche per cambiare palesi sciocchezze come queste spesso devo fare appello a tutto il mio senso diplomatico e alla mia lunga frequentazione con i suscettibili avventori dei bar veneziani quando facevo il barista per pagarmi gli studi…
Ripeto, queste righe non sono in polemica a quelle di Carla, ma una specie di contraltare che sento necessario. Nel campo della saggistica italiana sono troppi gli autori convinti che i titoli accademici siano sufficienti a concedere loro qualunque licenza, qualunque superficialità, qualunque sciatteria. Dei buoni editor, in casi del genere, stanno a fare la guardia per conto dei lettori, ché non capitino loro in mano (molto spesso per ragioni di studio, quindi senza neppure poter scegliere) testi con poco sugo e ancor meno sostanza.
Se esiste un problema nella scrittura “scientifica” italiana, a me non pare sia una carenza di creatività e un eccesso di artigianato, ma esattamente l’opposto: vedo (e leggo) troppa gente che sfodera la penna come un pennello da astrattista, e scaracchia a casaccio sotto il fuoco sacro dell’autorialità. Un po’ di umile artigianato, insomma qualche buon editor che tolga almeno le caccole più grosse dalle livree consunte dei baroni decaduti o emergenti, a me pare non faccia un soldo di danno, anzi, potrebbe ricondurre la saggistica italiana nell’alveo purtroppo naturale dei suoi molto spesso modesti confini attuali.
Devoti e basta (altro che atei)
Giuliano Ferrara, come gli capita regolarmente, “la ga strassada”, dicono dalle parti mie.
“Strassarla” significa portare una qualunque posizione all’estremo, tanto da renderla stucchevole e insopportabile anche agli originari sostenitori. “La strassa”, tipicamente, chi insiste con un tormentone che per un po’ era stato divertente, o chi continua a ribadire un concetto anche quando è chiaro a tutti che è chiaro a tutti.
Ho letto con una certa regolarità il Foglio per circa quattro anni. Non che avessi all’inizio particolare propensione per la parte politica che evidentemente ne esprimeva la linea editoriale, per così dire, ma trovavo veramente irresistibile l’intelligenza che sprizzava da quelle quattro pagine fitte. E poi c’era la “Piccola posta” di Adriano Sofri (che ancora resiste, per fortuna) e le questioni americane le spiegava già allora Christian Rocca (per me l’incarnazione dello spirito originario del giornale, in lui, vivaddio, rimasto immutato: posizioni anche dure, ma mai banali, sempre documentatissime, sempre aggiornatissime, comunque intelligenti e che sollecitano una presa di posizione argomentata da parte di chi legge) e poi ci scriveva il mio vero, grande, assoluto amore, cioè Guia Soncini, che quando ho iniziato a leggere il Foglio scriveva una fulminante rubrica quotidiana (“La deficiente”) sulla televisione, per poi diventare una specie di anima inquieta e sempre più critica del giornale, fino ad andarsene.
Non sopportavo, all’epoca, il modo pateticamente tendenzioso secondo cui veniva riproposta la storia di Tangentopoli nel decennale degli eventi ripercorsi da Mattia Feltri in un pezzullo quasi quotidiano (“Mattia nel Terrore”) ma non potevo perdermi altre parti del giornale, come le geniali prese per il culo della colonna dedicata a Repubblica. Insomma, personalmente, il Foglio, agli inizi degli anni Duemila, aveva – per quanto possa sembrare paradossale o scandaloso a molti benpensanti degli schieramenti chiari e distinti – la stessa funzione che aveva avuto il manifesto negli anni Ottanta: una palestra di pensiero critico, con il quale spesso ero in disaccordo ma che comunque mi consentiva (diversamente dal resto della stampa mainstream) di ripensare la realtà politica e sociale con categorie che, da solo, non sarei stato in grado di elaborare.
Il caso Terry Schiavo è stato un esempio perfetto dello “stile-Foglio”: senza voglia preconcetta di stupire, ma solo con il rigore intelligente (illuminista, scriverei, se non fosse ormai un’offesa da quelle parti) di provare a capire che cosa stesse succedendo con la nuova disponibilità tecnologica che pone inedite questioni di etica e morale. Nessun altro mezzo di comunicazione, tutti in preda al conformismo del luogocomunismo, aveva avuto il coraggio di raccontare per intero una semplice verità, e cioè che il marito di Terry Schiavo, contro il parere e la volontà dei genitori della donna in stato vegetativo, aveva deciso di farla morire di fame e di sete. Una creatura sicuramente indifesa si vedeva sottrarre da un giudice, cioè dalla legge (da qualcosa di esterno alle relazioni private tra esseri umani, si vorrebbe) l’umanissimo diritto a essere accudita, protetta, vegliata. Non c’erano macchine a tener in vita “artificialmente” Terry, ma solo l’affetto dei suoi cari, che la lavavano e la nutrivano. I genitori di Terry avevano detto che volevano prendersi cura di lei, ma l’ex marito (nel frattempo risposatosi) ha imposto la sua volontà omicida, incassando l’assicurazione sulla vita della ex moglie. A me, grazie al resoconto che ne diede il Foglio, apparve ovvio che eravamo di fronte all’omicidio spaventoso (far morire una persona di fame e di sete è comunque orribile) di una persona totalmente innocente, compiuto da un uomo non contro la legge, ma con l’esplicito sostegno di questa.
All’epoca avevo parlato con diverse persone, e mi ero reso conto che nessuna di loro aveva capito dai mass media quello che stava succedendo, dato che tutti pensavano che si trattasse semplicemente di risolvere in modo indolore le sofferenze di una poveretta tenuta in vita da qualche macchina crudele, quando la questione era esattamente opposta: infliggere un dolore inaudito a una poveretta che non stava soffrendo e che aveva l’unica colpa di essere l’ostacolo materiale tra un uomo e una polizza assicurativa. Quando ho raccontato a quelle persone come stavano le cose, ho visto che cominciavano a pensare all’intera questione in modo diverso. Grazie al Foglio.
Poi c’è stato il referendum sulla procreazione assistita, e anche in quel caso ho apprezzato la volontà del giornale di non schierarsi preventivamente su posizioni preconfezionate (i cattolici contro, i laici a favore). Certo, durante la campagna referendaria mi sembrava che i toni andassero inasprendosi e la puzza di crociata si faceva sentire (la Soncini litigò mirabilmente con Ferrara, con un pezzo generoso che credo le sia costato la volontà di rimanere in redazione) ma noi lettori avemmo modo di complicarci un bel po’ le idee sulla genitorialità come diritto e come desiderio, e sul rapporto generale tra politica, desiderio e diritti.
Ecco, credo che il verbo giusto sia stato questo, per il Foglio: complicare. Fregarsene bellamente delle scatole preordinate dell’appartenenza (solo chi non l’ha mai letto può credere che il giornale di proprietà di Veronica Lario sia stato appiattito su posizioni ciecamente filoberlusconiane, dato che non sa nulla delle feroci polemiche che Ferrara ha aperto con quello che ironicamente chiamano “l’amor nostro”) per provare a scompaginare il quadro in nome della verità articolata e frammentata di ogni reale. Per uno che di professione fa l’antropologo questo atteggiamento non poteva non essere affascinante, molto affascinante.
Ma dal referendum in poi è stato un crescendo progressivo di semplificazione. Prima il dibattito sull’uso delle tecnologie genetiche, poi il modo battagliero di porsi sull’eutanasia, la sterile polemica antidarwiniana in nome di un creazionismo patetico, poi ancora i Dico e il matrimonio come espressione della famiglia “naturale”, il Foglio si è schierato così nitidamente sulle posizioni delle gerarchie più retrive e potenti del Vaticano da diventare più filopapista dell’Osservatore Romano, e soprattutto da non riuscire più a sorprendermi, a darmi da pensare. Nel numero rosa di questa mattina Ferrara riesce a prendersela pure con l’auletta multireligiosa della Camera. E spiega: “Non era questo che intendevamo quando abbiamo sposato la battaglia per affermare laicamente un ruolo pubblico della fede”. L’incompreso Ferrara si trova costretto a puntualizzare: la saletta multireligiosa no, il cardinal Ruini sì. Bush newborn Christian sì, Ahmaddinejad newborn Muslim no.
Il problema, quando ci si mette su questa china, è che non si capisce in che modo si possa ancora parlare “laicamente”, se poi il ruolo pubblico della fede dovrebbe essere un bene solo se la fede è cristiana e una male se invece è altra, e solo se il luogo di quell’espressione pubblica è l’Occidente e un male se è altrove. Perché questo sembra sostenere il Foglio da qualche settimana: che sarebbe ora che il Cristianesimo riprendesse piede nella politica dei paesi occidentali (soprattutto in Europa, ché in USA se la cava già mica male come lobby politica) mentre sarebbe ora che la fede rientri nell’alveo del privato nel resto del mondo, per togliere spazio al fondamentalismo e a qualunque legittimazione “dall’alto” della violenza.
Ora, riconoscere che la religione stia recuperando, su scala planetaria, un ruolo politico impensabile fino a un paio di decenni fa è sicuramente un segno di intelligenza analitica. Ma prendere automaticamente come un bene questa nuova tracimazione del religioso nel politico (sapendo dalla storia con quanta fatica proprio l’Occidente si è costituito in quanto tale anche provvedendo a porre una rigida distinzione tra i due) è un segno di insipienza storica o di calcolata spregiudicatezza in nome di una parte, nella fattispecie quella religiosa.
Che differenza ci sia tra questa posizione espressa “laicamente” e qualunque posizione religiosa con aspirazioni egemoniche non mi è dato di capire. Non riesco cioè a comprendere su quali basi non fideistiche sul Foglio si sostengano contemporaneamente due posizioni antitetiche e inconciliabili per qualunque laico e cioè:
a) l’incompatibilità sostanziale dell’Islam (si badi, di tutto l’Islam, non solo di quello radicale) con l’Occidente per il fatto che l’Islam non è ancora riuscito a porre una chiara distinzione tra sfera della politica e sfera della religione (insomma, manca al mondo islamico una suo illuminismo compiuto) e
b) la necessità per l’Occidente di recuperare il ruolo politico della religione (“il ruolo pubblico della fede”, come dice Ferrara), che equivale a dire che va superata la distinzione illuminista tra sfera politica e sfera religiosa.
E questo dubbio è l’unico che mi rimane, oramai, leggendo il Foglio. Per il resto, si capisce tutto, è tutto chiaro, tutto semplice. Troppo semplice per essere ancora interessante per lettori come me, ormai ex lettori orfani, alla ricerca di altre spiagge dove fare i terzisti.
“Strassarla” significa portare una qualunque posizione all’estremo, tanto da renderla stucchevole e insopportabile anche agli originari sostenitori. “La strassa”, tipicamente, chi insiste con un tormentone che per un po’ era stato divertente, o chi continua a ribadire un concetto anche quando è chiaro a tutti che è chiaro a tutti.
Ho letto con una certa regolarità il Foglio per circa quattro anni. Non che avessi all’inizio particolare propensione per la parte politica che evidentemente ne esprimeva la linea editoriale, per così dire, ma trovavo veramente irresistibile l’intelligenza che sprizzava da quelle quattro pagine fitte. E poi c’era la “Piccola posta” di Adriano Sofri (che ancora resiste, per fortuna) e le questioni americane le spiegava già allora Christian Rocca (per me l’incarnazione dello spirito originario del giornale, in lui, vivaddio, rimasto immutato: posizioni anche dure, ma mai banali, sempre documentatissime, sempre aggiornatissime, comunque intelligenti e che sollecitano una presa di posizione argomentata da parte di chi legge) e poi ci scriveva il mio vero, grande, assoluto amore, cioè Guia Soncini, che quando ho iniziato a leggere il Foglio scriveva una fulminante rubrica quotidiana (“La deficiente”) sulla televisione, per poi diventare una specie di anima inquieta e sempre più critica del giornale, fino ad andarsene.
Non sopportavo, all’epoca, il modo pateticamente tendenzioso secondo cui veniva riproposta la storia di Tangentopoli nel decennale degli eventi ripercorsi da Mattia Feltri in un pezzullo quasi quotidiano (“Mattia nel Terrore”) ma non potevo perdermi altre parti del giornale, come le geniali prese per il culo della colonna dedicata a Repubblica. Insomma, personalmente, il Foglio, agli inizi degli anni Duemila, aveva – per quanto possa sembrare paradossale o scandaloso a molti benpensanti degli schieramenti chiari e distinti – la stessa funzione che aveva avuto il manifesto negli anni Ottanta: una palestra di pensiero critico, con il quale spesso ero in disaccordo ma che comunque mi consentiva (diversamente dal resto della stampa mainstream) di ripensare la realtà politica e sociale con categorie che, da solo, non sarei stato in grado di elaborare.
Il caso Terry Schiavo è stato un esempio perfetto dello “stile-Foglio”: senza voglia preconcetta di stupire, ma solo con il rigore intelligente (illuminista, scriverei, se non fosse ormai un’offesa da quelle parti) di provare a capire che cosa stesse succedendo con la nuova disponibilità tecnologica che pone inedite questioni di etica e morale. Nessun altro mezzo di comunicazione, tutti in preda al conformismo del luogocomunismo, aveva avuto il coraggio di raccontare per intero una semplice verità, e cioè che il marito di Terry Schiavo, contro il parere e la volontà dei genitori della donna in stato vegetativo, aveva deciso di farla morire di fame e di sete. Una creatura sicuramente indifesa si vedeva sottrarre da un giudice, cioè dalla legge (da qualcosa di esterno alle relazioni private tra esseri umani, si vorrebbe) l’umanissimo diritto a essere accudita, protetta, vegliata. Non c’erano macchine a tener in vita “artificialmente” Terry, ma solo l’affetto dei suoi cari, che la lavavano e la nutrivano. I genitori di Terry avevano detto che volevano prendersi cura di lei, ma l’ex marito (nel frattempo risposatosi) ha imposto la sua volontà omicida, incassando l’assicurazione sulla vita della ex moglie. A me, grazie al resoconto che ne diede il Foglio, apparve ovvio che eravamo di fronte all’omicidio spaventoso (far morire una persona di fame e di sete è comunque orribile) di una persona totalmente innocente, compiuto da un uomo non contro la legge, ma con l’esplicito sostegno di questa.
All’epoca avevo parlato con diverse persone, e mi ero reso conto che nessuna di loro aveva capito dai mass media quello che stava succedendo, dato che tutti pensavano che si trattasse semplicemente di risolvere in modo indolore le sofferenze di una poveretta tenuta in vita da qualche macchina crudele, quando la questione era esattamente opposta: infliggere un dolore inaudito a una poveretta che non stava soffrendo e che aveva l’unica colpa di essere l’ostacolo materiale tra un uomo e una polizza assicurativa. Quando ho raccontato a quelle persone come stavano le cose, ho visto che cominciavano a pensare all’intera questione in modo diverso. Grazie al Foglio.
Poi c’è stato il referendum sulla procreazione assistita, e anche in quel caso ho apprezzato la volontà del giornale di non schierarsi preventivamente su posizioni preconfezionate (i cattolici contro, i laici a favore). Certo, durante la campagna referendaria mi sembrava che i toni andassero inasprendosi e la puzza di crociata si faceva sentire (la Soncini litigò mirabilmente con Ferrara, con un pezzo generoso che credo le sia costato la volontà di rimanere in redazione) ma noi lettori avemmo modo di complicarci un bel po’ le idee sulla genitorialità come diritto e come desiderio, e sul rapporto generale tra politica, desiderio e diritti.
Ecco, credo che il verbo giusto sia stato questo, per il Foglio: complicare. Fregarsene bellamente delle scatole preordinate dell’appartenenza (solo chi non l’ha mai letto può credere che il giornale di proprietà di Veronica Lario sia stato appiattito su posizioni ciecamente filoberlusconiane, dato che non sa nulla delle feroci polemiche che Ferrara ha aperto con quello che ironicamente chiamano “l’amor nostro”) per provare a scompaginare il quadro in nome della verità articolata e frammentata di ogni reale. Per uno che di professione fa l’antropologo questo atteggiamento non poteva non essere affascinante, molto affascinante.
Ma dal referendum in poi è stato un crescendo progressivo di semplificazione. Prima il dibattito sull’uso delle tecnologie genetiche, poi il modo battagliero di porsi sull’eutanasia, la sterile polemica antidarwiniana in nome di un creazionismo patetico, poi ancora i Dico e il matrimonio come espressione della famiglia “naturale”, il Foglio si è schierato così nitidamente sulle posizioni delle gerarchie più retrive e potenti del Vaticano da diventare più filopapista dell’Osservatore Romano, e soprattutto da non riuscire più a sorprendermi, a darmi da pensare. Nel numero rosa di questa mattina Ferrara riesce a prendersela pure con l’auletta multireligiosa della Camera. E spiega: “Non era questo che intendevamo quando abbiamo sposato la battaglia per affermare laicamente un ruolo pubblico della fede”. L’incompreso Ferrara si trova costretto a puntualizzare: la saletta multireligiosa no, il cardinal Ruini sì. Bush newborn Christian sì, Ahmaddinejad newborn Muslim no.
Il problema, quando ci si mette su questa china, è che non si capisce in che modo si possa ancora parlare “laicamente”, se poi il ruolo pubblico della fede dovrebbe essere un bene solo se la fede è cristiana e una male se invece è altra, e solo se il luogo di quell’espressione pubblica è l’Occidente e un male se è altrove. Perché questo sembra sostenere il Foglio da qualche settimana: che sarebbe ora che il Cristianesimo riprendesse piede nella politica dei paesi occidentali (soprattutto in Europa, ché in USA se la cava già mica male come lobby politica) mentre sarebbe ora che la fede rientri nell’alveo del privato nel resto del mondo, per togliere spazio al fondamentalismo e a qualunque legittimazione “dall’alto” della violenza.
Ora, riconoscere che la religione stia recuperando, su scala planetaria, un ruolo politico impensabile fino a un paio di decenni fa è sicuramente un segno di intelligenza analitica. Ma prendere automaticamente come un bene questa nuova tracimazione del religioso nel politico (sapendo dalla storia con quanta fatica proprio l’Occidente si è costituito in quanto tale anche provvedendo a porre una rigida distinzione tra i due) è un segno di insipienza storica o di calcolata spregiudicatezza in nome di una parte, nella fattispecie quella religiosa.
Che differenza ci sia tra questa posizione espressa “laicamente” e qualunque posizione religiosa con aspirazioni egemoniche non mi è dato di capire. Non riesco cioè a comprendere su quali basi non fideistiche sul Foglio si sostengano contemporaneamente due posizioni antitetiche e inconciliabili per qualunque laico e cioè:
a) l’incompatibilità sostanziale dell’Islam (si badi, di tutto l’Islam, non solo di quello radicale) con l’Occidente per il fatto che l’Islam non è ancora riuscito a porre una chiara distinzione tra sfera della politica e sfera della religione (insomma, manca al mondo islamico una suo illuminismo compiuto) e
b) la necessità per l’Occidente di recuperare il ruolo politico della religione (“il ruolo pubblico della fede”, come dice Ferrara), che equivale a dire che va superata la distinzione illuminista tra sfera politica e sfera religiosa.
E questo dubbio è l’unico che mi rimane, oramai, leggendo il Foglio. Per il resto, si capisce tutto, è tutto chiaro, tutto semplice. Troppo semplice per essere ancora interessante per lettori come me, ormai ex lettori orfani, alla ricerca di altre spiagge dove fare i terzisti.
venerdì 2 marzo 2007
Foto choc
Mjtia, 9 anni, di Berlino, viene sequestrato da un uomo mentre va a scuola in tram. L’uomo lo porta a casa sua, lo violenta e lo uccide. Dopo una caccia forsennata, la polizia riesce a catturare il mostro (non c’è un’altra parola, in questo caso) che tenta di ammazzarsi buttandosi sotto un tram, quasi a voler finire lì dov’era iniziata questa storia spaventosa per chiunque, e forse un po’ di più per chi abbia figli.
Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente.
Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride.
Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi...
L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile. Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e sorridente del bambino veniva devastato dalla paura.
La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.
Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa, che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso.
Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.
Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente.
Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride.
Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi...
L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile. Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e sorridente del bambino veniva devastato dalla paura.
La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.
Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa, che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso.
Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.
Modelle
Angelina Fares, cittadina israeliana di religione drusa, è una bella diciottenne che voleva partecipare al concorso per Miss Israele. Un paio di cugini sono finiti in galera perché, offesi da questa eventualità, stavano progettando di ucciderla pur di evitare quest’onta alla famiglia.
Alla faccia dei muccini schizzinosi, ci tocca ammettere il valore potenzialmente progressivo del velinismo. A meno di non essere doppiamente razzisti e dire che è progressivo solo per “loro” anzi, per le “loro donne” e non per le “nostre”.
Alla faccia dei muccini schizzinosi, ci tocca ammettere il valore potenzialmente progressivo del velinismo. A meno di non essere doppiamente razzisti e dire che è progressivo solo per “loro” anzi, per le “loro donne” e non per le “nostre”.
giovedì 1 marzo 2007
Marzo, andiamo. E' tempo di migrare
Lo so che rischia di diventare sempre più un diario intimo, altro che un blog, ma forse mi salvo se premetto che il tutto non è altro che un'esemplificazione della condizione di precario.
Ecco qua. Nel mese di marzo mi trovo con questo calendario:
Ogni lunedì mattina parto da Roma per andare ad Arcavacata di Rende, di solito con l'eurostar delle 6.45, ma ora che ho la macchina a Paola posso permettermi di prendere l'intercity che parte un'ora dopo (recupero il tempo evitando il collegamento in treno Paola-Castiglione). A Paola faccio il mio lavoro di ricercatore a tempo determinato portando avanti la mia ricerca e seguendo gli studenti.
Ogni martedì sera, alle 22.15, lascio l'università della Calabria per andare a Paola. Lí prendo l'espresso delle 23.01, posto in cuccetta, per arrivare a Firenze Campo di Marte il mercoledì mattina alle 6.40. Faccio colazione in stazione in attesa del treno regionale delle 7.17, che mi porta a Prato Porta al Serraglio, dove arrivo pochi minuti prima delle 8. Mi organizzo nell'aula professori del Polo universitario di Prato (università di Firenze) prima di fare lezione dalle 9.00 alle 12.00. Prendo il treno regionale delle 12.40 che mi porta a Firenze S.M.N. alle 13.20. Se non ci sono intoppi, prendo l'eurostar delle 13.31 che arriva a Roma Termini alle 15.06. Giusto il tempo di darmi una strizzatina al cervello e si fa pomeriggio tardi, magari un cinemino. Ma che non sia l'ultimo spettacolo perché il giorno dopo, giovedì, mi alzo alle 5.20 per essere alla stazione Termini prima delle 6.45, ora in cui parte il mio eurostar. È lo stesso che il lunedì mi porta in Calabria, ma stavolta scendo a Napoli Mergellina attorno alle 8.30, prendo lì il locale metropolitano e scendo a Napoli Montesanto verso le 8.45, giusto in tempo per arrivare al palazzo dell'Orientale dove tengo un seminario dalle 9.30 alle 11.30. Finito il seminario scappo in stazione per tornare a Roma entro le 15.30, dato che alle 16.00 in punto devo stare all'asilo di mia figlia Rebecca, che poi accompagno in piscina e che cena e dorme da me. Il mattino dopo, venerdì, mi rialzo alle 5.30 (accompagna Rebecca all'asilo Valeria, la mia compagna) per prendere il treno delle 6.52 che arriva a Firenze S.M.N. alle 8.32, dove prendo la coincidenza per Prato alle 8.38. Dopo la lezione a Prato, prendo il treno delle 12.39, per salire a Firenze sull'eurostar che mi lascia a Roma Termini alle 15.06. Verifico che non ci siano appuntamenti alla Rai (qualche bozza da ritirare o consegnare) e posso andare alle 18.00 a prendere Rebecca a scuola di danza. Siamo a casa verso le 18.30.
Naturalmente, si tratta di un mese eccezionale: i seminari a Napoli sono veramente una tantum e il corso di Prato dura in fondo cinque settimane (poi ci andrò solo saltuariamente, per gli appelli d'esame e qualche seduta di laurea a Firenze), ma anche quando non ho impegni didattici fuori della Calabria, il lavoro di editor si fa sentire e ho sempre qualche testo da editare, qualche indice analitico da fare o qualche bozza da verificare nei giorni (giovedì - se non ci sono consigli - e venerdì) in cui sono a Roma.
Quando ho tempo metto in linea il costo economico di questi spostamenti. Anche il previsione dei prossimi aumenti FFSS (sono pazzi).
Ecco qua. Nel mese di marzo mi trovo con questo calendario:
Ogni lunedì mattina parto da Roma per andare ad Arcavacata di Rende, di solito con l'eurostar delle 6.45, ma ora che ho la macchina a Paola posso permettermi di prendere l'intercity che parte un'ora dopo (recupero il tempo evitando il collegamento in treno Paola-Castiglione). A Paola faccio il mio lavoro di ricercatore a tempo determinato portando avanti la mia ricerca e seguendo gli studenti.
Ogni martedì sera, alle 22.15, lascio l'università della Calabria per andare a Paola. Lí prendo l'espresso delle 23.01, posto in cuccetta, per arrivare a Firenze Campo di Marte il mercoledì mattina alle 6.40. Faccio colazione in stazione in attesa del treno regionale delle 7.17, che mi porta a Prato Porta al Serraglio, dove arrivo pochi minuti prima delle 8. Mi organizzo nell'aula professori del Polo universitario di Prato (università di Firenze) prima di fare lezione dalle 9.00 alle 12.00. Prendo il treno regionale delle 12.40 che mi porta a Firenze S.M.N. alle 13.20. Se non ci sono intoppi, prendo l'eurostar delle 13.31 che arriva a Roma Termini alle 15.06. Giusto il tempo di darmi una strizzatina al cervello e si fa pomeriggio tardi, magari un cinemino. Ma che non sia l'ultimo spettacolo perché il giorno dopo, giovedì, mi alzo alle 5.20 per essere alla stazione Termini prima delle 6.45, ora in cui parte il mio eurostar. È lo stesso che il lunedì mi porta in Calabria, ma stavolta scendo a Napoli Mergellina attorno alle 8.30, prendo lì il locale metropolitano e scendo a Napoli Montesanto verso le 8.45, giusto in tempo per arrivare al palazzo dell'Orientale dove tengo un seminario dalle 9.30 alle 11.30. Finito il seminario scappo in stazione per tornare a Roma entro le 15.30, dato che alle 16.00 in punto devo stare all'asilo di mia figlia Rebecca, che poi accompagno in piscina e che cena e dorme da me. Il mattino dopo, venerdì, mi rialzo alle 5.30 (accompagna Rebecca all'asilo Valeria, la mia compagna) per prendere il treno delle 6.52 che arriva a Firenze S.M.N. alle 8.32, dove prendo la coincidenza per Prato alle 8.38. Dopo la lezione a Prato, prendo il treno delle 12.39, per salire a Firenze sull'eurostar che mi lascia a Roma Termini alle 15.06. Verifico che non ci siano appuntamenti alla Rai (qualche bozza da ritirare o consegnare) e posso andare alle 18.00 a prendere Rebecca a scuola di danza. Siamo a casa verso le 18.30.
Naturalmente, si tratta di un mese eccezionale: i seminari a Napoli sono veramente una tantum e il corso di Prato dura in fondo cinque settimane (poi ci andrò solo saltuariamente, per gli appelli d'esame e qualche seduta di laurea a Firenze), ma anche quando non ho impegni didattici fuori della Calabria, il lavoro di editor si fa sentire e ho sempre qualche testo da editare, qualche indice analitico da fare o qualche bozza da verificare nei giorni (giovedì - se non ci sono consigli - e venerdì) in cui sono a Roma.
Quando ho tempo metto in linea il costo economico di questi spostamenti. Anche il previsione dei prossimi aumenti FFSS (sono pazzi).
Juventus
Finalmente, la Corte penale internazionale ha deciso di incriminare Ahmed Haroun e Ali Kushayb per i crimini di guerra e contro l'umanità commessi in Darfur tra il 2003 e il 2004. Ci sono prove che Ali Kushayb, uno dei leader dei terribili janjaweed, si peritasse di spiegare personalmente ai suoi uomini come si sgozza una donna dopo averla violentata e altre amenità di simile tenore, mentre Haroun, allora in qualità di ministro per gli affari interni, riforniva i miliziani con armi e fondi illimitati.
A chi si lamenta della situazione anagrafica della nostra classe dirigente e propugna un ricambio non di idee e programmi, ma prima di tutto generazionale, come se nella gioventù fosse automaticamente iscritto il bene e il meglio, faccio notare che Haroun, oggi ironicamente ministro per gli affari umanitari, secondo quel che ne racconta il Corriere, "ha poco più di quarant'anni è un politico emergente e ambizioso e fa parte del circolo ristretto del presidente Omar Al Bashir. Viene considerato uno dei più energici e carismatici leader del National Congress Party, il partito al potere".
Ok, il mio è un colpo basso, ma non capisco il senso politico di una battaglia "generazionale", quando ormai sappiamo che certo l'età non porta saggezza, ma neppure automatico rincoglionimento. Come non sopporto l'idea che si ottengano avanzamenti di carriera e odiosi privilegi solo perché si è "anziani" (senza tener conto del merito né del reddito), così mi irrita pensare che, per principio, "i giovani" saprebbero cavarsela meglio al timone di comando. Tra il vecchio Prodi e il giovane Lapo, io ancora per qualche anno punterei sul primo.
A chi si lamenta della situazione anagrafica della nostra classe dirigente e propugna un ricambio non di idee e programmi, ma prima di tutto generazionale, come se nella gioventù fosse automaticamente iscritto il bene e il meglio, faccio notare che Haroun, oggi ironicamente ministro per gli affari umanitari, secondo quel che ne racconta il Corriere, "ha poco più di quarant'anni è un politico emergente e ambizioso e fa parte del circolo ristretto del presidente Omar Al Bashir. Viene considerato uno dei più energici e carismatici leader del National Congress Party, il partito al potere".
Ok, il mio è un colpo basso, ma non capisco il senso politico di una battaglia "generazionale", quando ormai sappiamo che certo l'età non porta saggezza, ma neppure automatico rincoglionimento. Come non sopporto l'idea che si ottengano avanzamenti di carriera e odiosi privilegi solo perché si è "anziani" (senza tener conto del merito né del reddito), così mi irrita pensare che, per principio, "i giovani" saprebbero cavarsela meglio al timone di comando. Tra il vecchio Prodi e il giovane Lapo, io ancora per qualche anno punterei sul primo.