Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
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mercoledì 5 dicembre 2007
Precarietà e blogging (i conti della serva certe volte sono l’unica cosa vera di cui si può parlare)
Temo di aver lasciato l’impressione che il netto calo di miei post in questi ultimi due mesi sia dovuto a una scelta, quasi una protesta contro certi ritmi frenetici della produzione intellettuale su internet (sempre preoccupatissima di essere aggiornata, e ancor più di sembrarlo) o come una specie di perorazione in nome della sacralità della vita “vera” contro le artificialità della vita “virtuale”.
Certo, ho scritto gli ultimi post attorno a questi temi, e resto convinto che l’impossibilità di elaborare un “tempo virtuale” renda impossibile di fatto la duplicazione delle nostre vite su internet (a meno di non rinunciare alla vita fatta di interazioni fisiche) ma i motivi per cui ho praticamente smesso di scrivere sono altri, molto meno filosofici e molto più contingenti.
Tanto per chiarire, sono gli stessi motivi per cui ho ridotto drasticamente la lunghezza media dei resoconti che stendo per il mio privatissimo diario quotidiano: dalla pagina, sono passato alla mezza pagina, e addirittura la settimana scorsa ho dovuto condensare in un unico paragrafo cinque giorni pieni, che non avevo avuto modo di raccontare per totale e cronica carenza di tempo.
La scarsità di tempo disponibile è stata aggravata dal fatto che per quasi un mese sono stato senza portatile (monitor rotto, tra consegna e restituzione se ne sono andate quattro settimane). Solitamente scrivo qualche nota per i miei post proprio in treno, e ovviamente non se ne parla neanche di scrivere a mano e poi ricopiare. Dove lo troverei il tempo?
La ragione per cui non ho scritto è quindi la stessa per cui non ho risposto a diverse mail, in questo periodo, né mi sono preso la briga di rispondere ai post di chi ancora mi legge sul blog. Vivendo in un sistema di produzione intellettuale che non mi consente non dico una certa agiatezza, ma neppure il minimo per il sostentamento, sono costretto ad arrabattarmi con lavori diversi, facendo così un po’ di tutto, ma tutto un po’ male, senza alcun incentivo alla cura o anche alla semplice professionalizzazione di quel che produco. Come ricercatore a tempo determinato, ricevo uno stipendio di 1.150 euro al mese. Dato che però lavoro all’Università della Calabria ma ho la mia famiglia a Roma (e non posso spostarla perché sono separato con una bimba di 6 anni, che ovviamente ha diritto di passare metà del suo tempo con la mamma e metà con il papà) faccio su e giù tutte le settimane, il che significa che di quello stipendio 300 euro vanno in biglietti del treno (senza alcuna possibilità di rimborso, o anche solo di detrazione dalle tasse) e 200 vanno nel costo dell’alloggio al campus, dove dormo tre notti a settimana. Dello stipendio iniziale, quindi, mi restano 650 euro scarsi, cui vanno tolti i 300 euro al mese che passo alla mia ex moglie come contributo per il mantenimento di nostra figlia. Si capisce quindi che non posso vivere con 350 euro al mese, da cui i lavori extra come editor per alcune case editrici.
So che molti trovano disdicevole o almeno imbarazzante parlare così francamente della precarietà della propria situazione economica, ma io credo che l’imbarazzo altro non sia che un trucco per rendere meno visibile una condizione di vera umiliazione, facendola quindi passare per normale, dato che se ne parla poco. No, dico, parliamone.
Non mi riferisco al fatto che il mio lavoro è precario, ma alla precarietà della mia condizione economica, cioè al fatto che il mio lavoro di ricercatore è pagato troppo poco per consentirmi di sopravvivere. Certo, posso ancora fare lo spiritoso e il brillante coi miei post (ho una sfilza di ideuzze niente male, nel mio taccuino) ma poi mi chiedo cosa c’entri questo con la mia vita, con lo strazio di passare i sabati e le domeniche quando non sono con mia figlia Rebecca a lavorare anche 15 ore al giorno, per guadagnare quel po’ di tempo che mi permetta poi in treno di preparare con un certo agio le lezioni da tenere per i due moduli che insegno in contemporanea all’università.
La stesura di un post “bello” mi sembra allora l’ultimo tassello di un’ipocrisia produttiva disperante, che io con la mia “brillantezza” paradossalmente contribuisco a perpetuare: certo, mi pagano di merda, certo, lavoro sedici ore al giorno, ma vuoi mettere come sono figo, coi miei post brillanti e intelligenti? Mica come i miei colleghi professori associati, che hanno uno stipendio doppio del mio ma non hanno tutta la mia verve intellettuale!
Smettere di scrivere sarebbe del resto altrettanto subalterno, come atteggiamento, dato che – come ho potuto constatare in queste ultime tremende settimane di tour de force – sarebbe la resa totale all’alienazione produttiva: non esisto assolutamente più come persona dotata di propri interessi e in grado di comunicarli, sono ridotto a una pura macchina produttiva, da un lato studenti da preparare e esami da fare, dall’altro libri da editare e bozze da correggere.
Forse, e paradossalmente, la soluzione è costituita da post come questo, in cui non cerco per forza di compensare la frustrazione della mia condizione lavorativa, ma provo seriamente a farci i conti. Il problema è che post come questi chi mai può avere voglia di leggerli?
lunedì 5 novembre 2007
Capitalismo relazionale
Mettetevi comodi o andatevene, se avete fretta. Questo non è né vuole essere un “post veloce”. Ho diverse cose da dire e non intendo riassumere.
Dopo un mese di silenzio su questo blog (ma di parole ne ho scritte e dette tantissime, nel frattempo: ho tradotto e commentato un bellissimo articoli di Michael Herzfeld che uscirà presto su Lares, la più antica rivista italiana di antropologia; sta per uscire un mio saggio su Achab, giovane invece rivista di antropologia, sul ruolo dei media nella produzione dell’immagine degli albanesi in Italia; sono a metà del primo modulo di Storia della Cultura Materiale – se vi interessa l’antropologia dell’arte potete vedere e ascoltare il materiale didattico, comprese le registrazioni integrali delle lezioni, all’indirizzo www.esnips.com/web/StoCuMa) sento giunto il momento di provare a articolare con la testa (e quindi con la tastiera) e non solo con la pancia (e l’inevitabile pancera) una serie di riflessioni che finora hanno la forma di malesseri incompiuti.
Lo stimolo, come spesso in questo genere di riflessioni, mi viene dalla lettura di Nòva24 il mai abbastanza elogiato inserto di “ricerca, innovazione e creatività” del giovedì del Sole24ore. Il numero 97 (in edicola giovedì 25 ottobre) apriva con “L’internet delle persone”, un articolo di David Weinberger, che non conoscevo e la cui curiosa nota biografica dice “57 anni, ha fatto un po’ di tutto, dal professore di Harvard all’autore per Woody Allen […]”.
Chi mi conosce o ha letto i miei post dedicati all’innovazione tecnologica su questo blog sa che non sono un catastrofista, né rimpiango i bei tempi andati in cui scrivevamo con penna e calamaio (o almeno su monitor a fosfori verdi) e solitamente nella dicotomia apocalittici/integrati mi schiero decisamente dalla parte dei secondi: credo che il mondo in cui viviamo sia per molti versi migliore di quello che ci stiamo lasciando alle spalle e sono convinto che la tecnologia possa contribuire al benessere materiale del genere umano migliorando non solo le nostre condizioni di vita ma anche incrementando il nostro grado di partecipazione civica. Ho comprato il mio primo computer nel 1988 e da allora non ho che tratto giovamento dalla possibilità, prima, di scrivere con un assistente intelligente e, poi, di collegarmi a un mondo fatto di informazione e ricerca e contatti personali. Uso regolarmente la posta elettronica dal settembre 1994 (provider giapponese NTT, uno dei primi in Italia a lanciare un servizio, allora a pagamento; client di posta Eudora, se qualcuno avesse vocazioni nostalgiche) e so quanto sia bello tenere i contatti con le persone lontane grazie proprio alla rapidità e immediatezza garantita dalla Rete.
Eppure (o forse proprio per questo) quel che sta evolvendo come web 2.0 mi convince sempre di meno. Sappiamo tutti che l’etichetta è fuzzy, ma sotto questa sigla si racchiude una miscela (poco precisa quanto a rispettive percentuali) di User Generated Content (UGC) e social networking. Quindi è web 2.0 Wikipedia, in quanto espressione più nitida (e più nota) di contenuti generati dagli utenti, ma è web 2.0 anche Twitter, che quanto a content è rimasto scarsino (140 chrs, meno di un sms alla volta, se ne mandi tre di fila ti arriva il cazziatino dell’architettura) ma è senz’altro trasparente nel suo obiettivo di perseguire una sempre più fitta reticolatura sociale a partire dall’Ego che ha eseguito l’accesso.
Soprattutto, pare, sono web 2.0 quelle “cose” (non ho una terminologia precisa, anche l’articolo di Weinberger oscilla, dato che ne parla come aggregati di applicazioni consegnate tramite browser, un pasticcio lessicale) come MySpace o, più di tutti, Facebook, cioè siti di social network che si aprono agli sviluppatori terzi che vi aggiungono funzioni in forma di servizi (Firefox, mi pare, è la versione browser di questa architettura aperta, che deriva ovviamente dalla filosofia dell’Open Source) per consentire agli utenti forme sempre più personalizzate di UGC. Agli amici del tuo reticolo su Facebook puoi spedire non solo mail e messaggi, ma file, (virtuali) pacchi regalo, ciambelle (donuts), zombie o formule magiche. Si tratta, insomma di una strana gadgettizzazione della comunicazione che non sappiamo ancora bene come gestire a livello funzionale (mentre è evidente il suo valore simbolico, come dirò più avanti).
Web 2.0 significa, quindi, un utilizzo della rete per cui quel che “conta veramente” è il gruppo di persone coinvolte in un progetto, indipendentemente dal fatto che queste persone NON siano interrelate tra loro ma partecipino a un obiettivo comune (come nel caso dei redattori/costruttori anonimi di Wikipedia) o siano invece fortemente intrecciate proprio come scopo principale. Da un’altra prospettiva, il web 2.0 affronta (e risolve a suo modo) uno dei nodi chiave delle scienze sociali (dal mio punto di vista di antropologo, “il” nodo chiave) e cioè quello della relazione tra individuo e collettività. Se si vede la cosa dalla prospettiva di Wikipedia (e qui parlo dell’enciclopedia di base, tralasciando le complicazioni teoretiche sollevate dai “progetti” e dagli spazi di “discussione” presenti all’interno del sito principale), il singolo esiste in quanto collabora assieme ad altri singoli per realizzare un prodotto collettivo, mentre nella prospettiva di Twitter la comunità deve contribuire alla costituzione sociale dell’individuo singolo, che più è tale quanto più è al centro di una rete fitta. Il web 2.0 è tutto quel che si trova tra questi due estremi, alla ricerca di un equilibrio dinamico che, miracolosamente, sembra tenere assieme due concezioni finora antitetiche dell’identità. Si può infatti distinguere tra un’identità basata sui principi della narrazione high concept per cui il soggetto è definito da quello che fa: il poliziotto (il tenente Colombo) o lo scopritore di nuovi mondi (il capitano Kirk); e un’identità low concept per cui il soggetto è definito da quello che è in relazione ad altri soggetti: sono i personaggi delle sitcom (mariti di, mogli di, figli di, amici di) e delle soap operas e telenovelas (amanti, parenti sconosciuti che si scoprono, divorziati e incestuosi). Il web 2.0, come ideologia identitaria intendo, sembra dare ragione a entrambe queste modalità. Per quanto la distanza tra l’affaccendato altruismo fattivo di Wikipedia e l’annoiato narcisismo relazionale di Twitter sia effettivamente abissale, il loro “punto mediano”, che possiamo indicare in Facebook, permette all’utente di concepire la propria identità come un felice equilibrio tra definizione relazionale (la mia rete di amici, le reti cui partecipo) e definizione “operativa” (con loro faccio delle cose, ci scambiamo virtuali fette di torta e bicchieri di spumante ai compleanni).
Cominciamo ad avvicinarci al punto centrale del fascino e del successo recente del web 2.0. “Tira” perché somiglia alla nostra vita reale, che infatti è sempre un intreccio di identità high concept e low concept. Siamo figli di e padri di, ma contemporaneamente dobbiamo fare qualcosa (lavorare, come minimo). Nessuno di noi umani “normali” ha la fortuna di coincidere completamente con quel che fa (come il tenente Colombo, di cui sappiamo che ha una moglie, ma che non vediamo mai), visto che poi durante il lavoro ci tocca staccare prima perché c’è da prendere la bimba all’asilo. E nessuno di noi ha la disgrazia di esistere solo in quanto relazione con altri esseri umani (a meno di non essere infelicemente menomato, o in coma. I morti, in questa prospettiva, sono le persone ormai relegate alla pura identità relazionale, tant’è che scompaiono come individualità quando smettiamo di ricordarli. Per questo l’umanità tributa loro un culto, perché ogni vivo sa che quella è la strada che dovrà percorrere, prima o poi). La vita, insomma, ci costringe a fare i conti con il fatto che quel che siamo dipende dalla nostra azione e dalle nostre relazioni, in misura ovviamente variabile per ognuno di noi.
Mentre la narrativa di genere (ma anche quella “artistica”, in realtà) tende a privilegiare una delle due dimensioni dell’identità, il web 2.0 offre l’opportunità di credere che sia possibile replicare fuori della vita fisica la sua stessa complicatezza relazionale e operativa. Il web 2.0 funziona perché è una narrazione completa che sembra ricalcare la vita. Questo è il suo fascino. Questo è il suo limite. Vediamo perché.
Non ne ho mai scritto su questo blog per non fare la parte del grillo parlante, ma i miei amici sanno che da mesi covavo la convinzione che quella di Second Life fosse una sbornia indotta da non praticanti del web per non praticanti del web. L’illusione di una duplicazione della vita reale è così fantasmatica da essere assurda per definizione. Indipendentemente dal fatto che ci sono ancora limiti tecnici alla realizzazione di un ambiente cosiddetto virtuale veramente tridimensionale, il limite intrinseco di Second Life è dato dal piano inclinato del Tempo, su cui tutti scivoliamo, indipendentemente da quel che facciamo o da quali siano le relazioni che allacciamo o sciogliamo. Quando i giornali, la primavera scorsa, hanno iniziato a parlare a raffica (e a vanvera, spesso) di Second Life, e quando gli (ir)responsabili del marketing di grandi aziende hanno spinto per l’apertura di Second agenzie e sportelli e uffici, per un po’ avevo pensato all’ennesimo modo per fare una barca di soldi. Apro su Second Life uno studio psicoanalitico per gli avatar. Il dottor Piero Shepherd (ehm…) avrebbe dato agli avatar in crisi identitaria la possibilità di elaborare i loro traumi e i loro lutti, offrendo la sua consulenza per un adeguato compenso il linden-dollari. Non so praticamente nulla di psicoanalisi (non più di quanto un malato conosca la sua malattia) ma come antropologo ho buone capacità relazionali e un mondo asettico e formalmente nitido come Second Life mi dava l’illusione che avrei saputo fare questo lavoro in maniera egregia, sollevando i miei pazienti dalle loro turbe principali (come avatar, si intende) e lasciandoli contenti di pagarmi per i miei servigi. Tanto più che la mia decente competenza dell’inglese mi avrebbe aperto le porte a una platea potenziale veramente ampia.
Quando ho iniziato a pensare come rendere operativa la cosa, al di là della gestione della parte grafica (avrei potuto pagare un second architetto per progettare lo studio e un second stilista o lookologo per un’adeguata presentazione del mio avatar) mi sono reso conto che l’unica risorsa a disponibilità veramente limitata era il Tempo. Per fare bene lo strizzacervelli su Second Life (bene = in grado di farmi guadagnare) avrei dovuto impegnare su Second Life una quota tale del mio Tempo complessivo da fare di quell’avatar la mia First Life. Avrei dovuto cioè rendere disponibile il mio avatar per diverse ore al giorno, sottraendo quel tempo alle mie normali occupazioni di ricercatore universitario e redattore editoriale. Ora, io faccio già due lavori per campare: perché mai dovrei aggiungerne un terzo?
La questione non si risolve mantenendola sul piano del volontariato hobbistico. Fare l’avatar a tempo perso su Second Life diventa non fare l’avatar, e basta. La recente “scoperta” che gli avatar effettivamente presenti sul sito sono, per ogni momento, troppo pochi per rendere appetibile qualunque investimento produttivo o pubblicitario è la scoperta dell’acqua calda. Qualunque manager che si occupi di risorse umane (e qualunque persona dotata di buon senso) avrebbe dovuto capirlo da subito. Second Life non può funzionare proprio perché pretende di non essere virtuale nella gestione del tempo. Metteteci tutti gli avatar che volete, e tutte le second figate che riuscite a concepire: rimarrà sempre valido il dramma esistenziale che il genere umano conosce da sempre: non esiste una cosa come “il tempo virtuale”, e quindi qualunque spazio virtuale viene fruito solo e sempre nel tempo reale. Dal punto di vista del Tempo che scorre, quindi, non ha alcun senso distinguere tra una realtà virtuale e una realtà fisica, dato che entrambe possono essere attraversate e fruite solo ed esclusivamente nel Tempo reale. Per scrivere queste righe ho impiegato TR (tempo reale) non TV (tempo virtuale) esattamente come consumo TR per fare l’amore, fare la spesa e o correggere gli esoneri dei miei studenti. Se quindi qualunque cosa facciamo la facciamo dentro TR, Second Life per essere all’altezza della aspettative che promette dovrebbe occupare tutto il mio TR, lasciando quindi tendenzialmente a zero in Tempo disponibile per alte attività esterne a Second Life, fruite cioè in uno spazio diverso da quello virtuale. Intendevo questo quando ho scritto che se Second Life vuole essere veramente Life non ha alternative che essere FIRST. E chi sarebbe disposto ad avere come propria vita effettiva quella di un pupazzetto di pixel che girovaga in un mondo tutto sommato ancora alquanto bruttino, totalmente privo di qualunque godimento sinestetico? Gli unici ad accettare una simile alternativa non possono che essere quelli per cui la vita “reale” suona peggiore di quella pixellata di Second Life, vale a dire persone estremamente insoddisfatte o insicure. Se veramente sono disposto a fare di Second Life la mia First Life, è probabile che la mia vita sia molto triste, o almeno molto grigia (o che io abbia meno di 18 anni, periodo in cui la disponibilità di Tempo è pressoché illimitata, ma su questo torno tra poco).
Come per la mappa in scala 1:1 di cui vagheggia Borges in uno dei suoi racconti, l’unica ragione per accogliere Second Life sarebbe un effettivo miglioramento rispetto all’oggetto di cui è riproduzione. Sono troppo ottimista per credere che siano in molti ad apprezzare Second Life come un “miglioramento” della vita reale, e quindi mi pare ovvio che Second Life in quanto tale non ha speranze serie di sopravvivere. Ci sono invece indicazioni che potrà avere un futuro come ambiente operativo, come interfaccia dei browser per alcuni compiti specifici (soprattutto di organizzazione spaziale: pensate a girare in Goolge maps con un avatar decente).
Per l’argomentazione che sostengo in queste pagine, Second Life rappresenta l’epitome dell’impossibilità di tenere al passo la rete sociale corporale con la rete sociale elettronica, e quindi in linea generale quanto detto fin qui vale anche per tutto il web 2.0, nella misura in cui il suo compito (vedi “L’internet delle persone” di Nòva24 da cui sono partito) sarebbe quello di articolare la relazione tra soggetto individuale e collettività.
Prendete ad esempio Twitter. Io, che ho una vita decisamente intensa (non ho detto emozionante, ho detto intensa, che è ben altra cosa), semplicemente non posso aggiornare twitter, perché il tempo che impiegherei per farlo verrebbe necessariamente sottratto a occupazioni per me più fruttuose.
Eppure, sento ovviamente replicare, Twitter è di fatto un successo mondiale, e ci sono milioni di persone che lo utilizzano regolarmente. Non voglio contestare questo dato di fatto (che riguarda ovviamente MySpace, Facebook, e altri “social” di recente successo) ma contestare il senso di quel fatto.
Per quanto riguarda Twitter, un breve periodo da utente mi ha convinto che sia usato principalmente come un mezzo per: 1. chattare sinteticamente con gli amici 2. fare pubblicità al proprio blog/sito/attività 3. raccogliere il maggior numero di followers. Ora, i primi due usi non richiedono di alcuna spiegazione specifica, dato che il chiacchiericcio e la pubblicità esistono da ben prima del web 2.0. Molto più interessante invece il terzo punto, che secondo me configura una versione inedita di capitalismo, dove la merce da accumulare è la versione oggettivata (e ovviamente alienata da sé) della relazione umana.
I nuovi siti di social networking offrono tutti la possibilità di verificare i propri “amici” (o “seguaci”, o “rete”) in modo curiosamente oggettivo: uno sa esattamente di chi è amico (who is following, in twitterese) e chi è amico suo (who are his/her followers) e non ci sono ambiguità. Ora, le relazioni umane sono sempre state il campo sovrano dell’ambiguità: io considero Tizio mio amico, mentre lui mi considera un rompiballe; lei è il mio amore, io sono il suo tormento, e così via… Grazie alle paginate dei siti di social network questa impossibilità di risolvere autonomamente la questione della natura delle proprie relazioni sembra affrontata in modo oggettivo: se sei nella lista, sei in rapporto “social”.
Questo approccio profondamente fuorviante al rapporto umano (fatto di sì/no, senza forse, senza “non so”) è concepibile solo se si oggettiva definitivamente il rapporto in quanto tale, se lo si rende cioè null’altro che una cosa, comparabile con altre cose. Ecco allora che i “campioni” di twitter sono quelli che possono vantare più followers esattamente come un campione di basket è quello che vanta più canestri, o assist o rimbalzi.
L’individualismo possessivo (secondo cui, quindi, esistiamo in base alla natura e alla quantità delle cose che possediamo e al tipo di relazione che instauriamo con esse non solo nel privato della nostra affettività, ma anche nel pubblico dell’economia e della politica) apre quindi con il social network una nuova frontiera, in cui i rapporti umani sono ridotti a puro possesso reciproco, in una specie di grottesca pantomima della raccolta di figurine. Io esisto nella misura in cui possiedo contatti (che a loro volta mi devono possedere, per esistere) con cui faccio cose che spesso non sono altro che messe in forma di MAS (mutual admiration society), gruppi il cui scopo principale di esistenza è la reciproca adulazione tra i membri.
Per fortuna, un fosco futuro di narcisi collezionisti di avatar altrui cui demandare lo spessore della propria esistenza è ancora ben lontano, per le considerazioni prima espresse sulla dimensione temporale. Per poter veramente diventare collezionisti di persone sui siti di social network è necessario disporre di quote considerevoli di tempo. Sono due le tipologie in possesso di tale requisito: quelli che accumulano nel social network per poter investire altrove (se hai veramente migliaia di followers è probabile che un editore o uno stilista o una casa discografica possano prestarti ascolto) e fanno quindi del social network un vero lavoro, l’accumulazione primaria con la quale innescare un meccanismo produttivo; oppure gli adolescenti che hanno veramente ore e ore libere (e se l’impiegano a twitterare e scambiare cazzate sul Facebook invece che ciacolare e scambiarsi canne sul muretto io non ci vedo nulla di sconvolgente o drammatico: finito il liceo gli passa, fatte salve le solite eccezioni di sfigati perenni). Che siano veri professionisti o adolescenti con tempo da perdere, si tratta comunque di tipologie sociali marginali, o numericamente, o produttivamente, e quindi mi sento di prevedere che questo tipo di relazione sociale non si imporrà mai come modello relazionale di base.
Resta il fatto che oggi se ne parla, e se ne parla moltissimo. Forse, mi viene da dire, la ragione è nella natura stessa del fenomeno. Se ci pensate, a forza di parlare su tutti i media e nelle relazioni interpersonali di social network, un po’ di social network si finisce per produrlo.
Quello che vorrei riuscissimo a teorizzare (e vivere, ovviamente) è una sorta di versione per la rete di slow food. Come in quel caso la battaglia non era tanto o solo (mi pare) contro un nemico oggettivo (il fast food) quanto a favore di un modo lento, profondo e articolato di vivere il cibo, così mi piacerebbe che qualcuno lanciasse l’ideologia della slow net, fatta di legami non troppo fitti, ma solidi e profondi. Non tanto, quindi la lista dei miei followers su twitter, ma un modo per saldare i legami per me veri e importanti.
Ragni e scoiattoli
Da qualche parte Isaiah Berlin (io l’ho letto citato da Clifford Geertz, di cui ci è purtroppo celebrato il 30 ottobre il primo anniversario delle morte) distingue gli uomini di scienza in due grandi categorie, gli istrici e le volpi.
I primi sono quegli studiosi che temono il contatto con ambienti culturali o disciplinari esterni al loro specialismo. Si chiudono (a riccio, appunto), tendenzialmente preferiscono stare per conto loro, almeno dal punto di vista intellettuale. All’opposto si collocano le volpi, sempre pronte a predare i terreni degli altri, a rubare idee, concetti, anche dati quando serve. Secondo Geertz, gli antropologi starebbero naturalmente in questo secondo gruppo, incapaci di elaborare un quadro teorico “forte”, si agganciano ad altre discipline (storia, psicologia sociale, sociologia, per non parlare della filosofia) e le incardinano nei loro specifici problemi.
Non so, forse Geertz pensava ai suoi colleghi americani. Io sono sempre stato orgoglioso di questa immagine di antropologi come volpi e quindi anche pirati, un po’ imbroglioni e un po’ attaccabrighe. Un modo di salvare l’idea romantica della mia disciplina, proprio mentre ad essere sempre meno romantico è il mondo in quanto tale.
Eppure, più passa il tempo (e più leggo di antropologia italiana, cioè scritta da colleghi italiani, un terreno che ho sempre battuto poco fino a tre-quattro anni fa) più mi rendo conto che l’immagine che ci ha offerto di noi stessi il compianto Geertz (lui, sì, una volpe di luminosa grandezza) è forse troppo lusinghiera, almeno quando deve adattarsi alle patrie lettere antropologiche.
Mi pare che noi, antropologi italiani, siamo divisibili più secondo altri animali totemici, e cioè lo scoiattolo e il ragno.
Il primo è un animale prudente e meticoloso, che raccoglie e mette via, raccoglie e mette via. Certo, non ci si può aspettare molto da uno scoiattolo, non di certo che ti stupisca con una strabiliante mossa a sorpresa, ma alcuni tronchi cavi sono Paesi di Cuccagna, e quindi la loro qualità è data dalla pazienza. Gli antropologi scoiattoli scrivono sistematizzando i dati e il pensiero altrui, che raccolgono con cura spesso certosina. Sono forse figli della tradizione filologica dei nostri studi, e anche se spesso non hanno l’agilità di una volpe nel saltare da un campo all’altro è molto difficile che nei loro scritti non si trovi qualche pezzo di valore, almeno nella bibliografia.
I ragni, invece, non hanno la remissività sufficiente per andarsi a cercare le fonti del loro sostentamento e preferiscono produrre da sé un modello, uno schema, una “teoria”, una ragnatela più o meno solida, aspettando (pazientemente o pigramente, secondo i punti di vista) che siano gli insetti a cascarci dentro. Questi antropologi spesso scrivono sotto l’impulso di una minuscola intuizione, un grumo ideativo che solo a volte consente la sedimentazione di testi compiuti. Altre, invece, quel piccolo nucleo (spessissimo prodotto da un incidente autobiografico, splendido e triste paradosso ossimorico per un antropologo culturale) viene semplicemente replicato e giustapposto per il numero di volte necessario a completare il testo, dando alla ragnatela finale un effetto di simmetria che è dato solo dalla ripetizione.
Si possono trovare cose buone e cose meno buone sia nelle dispense degli scoiattoli (alcuni sono ottimi dispensieri, ma altri si limitano ad accumulare senza un criterio, altri ancora non sanno cercare le noci migliori e continuano a nutrirsi di ghiande scadenti) sia nelle ragnatele dei ragni (alcuni costruiscono strutture sbilenche e troppo fragili per reggere anche una sola lettura, ma un bravo ragno saprà veramente irretirvi nel nitido luccicore della sua costruzione, quando ci ha lavorato con cura sufficiente) ma resta il fatto che i due giocano con handicap diversi, almeno qui, in Italia.
La qualità del lavoro degli scoiattoli è misurabile secondo criteri più rigorosi (attualità delle fonti, precisione delle tipologie in cui collocare i dati) mentre l’estro dei ragni vive delle fortune della “creatività” italica. Andate cioè da un editore italiano con “l’idea brillante” ed è probabile che vi ascolterà (non è detto con interesse, ho detto che almeno vi ascolterà), mentre se andate con un corpus di dati rigorosi e organizzati esclusivamente in modo da produrre un avanzamento della conoscenza è probabile che quell’editore, prima di tutto, vi chieda quanti studenti avete e se il vostro progetto è “adottabile”.
Molti dei testi che gli antropologi scoiattoli pubblicano in Italia non troverebbero un editore in alcun altro paese (tranne forse la Francia, ultima terra a offrire asilo agli intellettuali tuttologi di professione, e quindi anche ad alcune preziose bischerate antropologiche scritte da ex scoiattoli convertiti in ragni particolarmente spensierati), mentre qui il retaggio crociano e l’inerzia dei concorsi universitari (per diventare “confermati” qualunque sia il blasone accademico, bisogna produrre delle pubblicazioni, e questa a volte è l’unica motivazione che spinge i ragni al temporaneo lavoro) hanno creato un mercato curioso, di libri fatti di un’idea che potrebbe stare in un articoletto di terza pagina. Idee non sempre complicate, spesso al limite del discorso da autobus.
Ma forse varrebbe la pena di fare un po’ un giro (di fare le volpi a rovescio, insomma) per scoprire che l’opposizione tra ragni e scoiattoli riguarda un po’ tutti quelli che si occupano di scienze umane in Italia (così, a occhio, mi pare che i ragni abbondino anche tra i pedagogisti e i massmediologi, almeno dentro l’accademia).
Naturalmente, questo stesso mio pezzo è scritto con stile “da ragno”, che forse è lo stile che più si addice a un blog, dopo tutto. Senza far finta che le ideuzze che spuntano qui possano reggere il corso del tempo, o il confronto scientifico con il solido pensiero ragionato dei colleghi scoiattoli.
I primi sono quegli studiosi che temono il contatto con ambienti culturali o disciplinari esterni al loro specialismo. Si chiudono (a riccio, appunto), tendenzialmente preferiscono stare per conto loro, almeno dal punto di vista intellettuale. All’opposto si collocano le volpi, sempre pronte a predare i terreni degli altri, a rubare idee, concetti, anche dati quando serve. Secondo Geertz, gli antropologi starebbero naturalmente in questo secondo gruppo, incapaci di elaborare un quadro teorico “forte”, si agganciano ad altre discipline (storia, psicologia sociale, sociologia, per non parlare della filosofia) e le incardinano nei loro specifici problemi.
Non so, forse Geertz pensava ai suoi colleghi americani. Io sono sempre stato orgoglioso di questa immagine di antropologi come volpi e quindi anche pirati, un po’ imbroglioni e un po’ attaccabrighe. Un modo di salvare l’idea romantica della mia disciplina, proprio mentre ad essere sempre meno romantico è il mondo in quanto tale.
Eppure, più passa il tempo (e più leggo di antropologia italiana, cioè scritta da colleghi italiani, un terreno che ho sempre battuto poco fino a tre-quattro anni fa) più mi rendo conto che l’immagine che ci ha offerto di noi stessi il compianto Geertz (lui, sì, una volpe di luminosa grandezza) è forse troppo lusinghiera, almeno quando deve adattarsi alle patrie lettere antropologiche.
Mi pare che noi, antropologi italiani, siamo divisibili più secondo altri animali totemici, e cioè lo scoiattolo e il ragno.
Il primo è un animale prudente e meticoloso, che raccoglie e mette via, raccoglie e mette via. Certo, non ci si può aspettare molto da uno scoiattolo, non di certo che ti stupisca con una strabiliante mossa a sorpresa, ma alcuni tronchi cavi sono Paesi di Cuccagna, e quindi la loro qualità è data dalla pazienza. Gli antropologi scoiattoli scrivono sistematizzando i dati e il pensiero altrui, che raccolgono con cura spesso certosina. Sono forse figli della tradizione filologica dei nostri studi, e anche se spesso non hanno l’agilità di una volpe nel saltare da un campo all’altro è molto difficile che nei loro scritti non si trovi qualche pezzo di valore, almeno nella bibliografia.
I ragni, invece, non hanno la remissività sufficiente per andarsi a cercare le fonti del loro sostentamento e preferiscono produrre da sé un modello, uno schema, una “teoria”, una ragnatela più o meno solida, aspettando (pazientemente o pigramente, secondo i punti di vista) che siano gli insetti a cascarci dentro. Questi antropologi spesso scrivono sotto l’impulso di una minuscola intuizione, un grumo ideativo che solo a volte consente la sedimentazione di testi compiuti. Altre, invece, quel piccolo nucleo (spessissimo prodotto da un incidente autobiografico, splendido e triste paradosso ossimorico per un antropologo culturale) viene semplicemente replicato e giustapposto per il numero di volte necessario a completare il testo, dando alla ragnatela finale un effetto di simmetria che è dato solo dalla ripetizione.
Si possono trovare cose buone e cose meno buone sia nelle dispense degli scoiattoli (alcuni sono ottimi dispensieri, ma altri si limitano ad accumulare senza un criterio, altri ancora non sanno cercare le noci migliori e continuano a nutrirsi di ghiande scadenti) sia nelle ragnatele dei ragni (alcuni costruiscono strutture sbilenche e troppo fragili per reggere anche una sola lettura, ma un bravo ragno saprà veramente irretirvi nel nitido luccicore della sua costruzione, quando ci ha lavorato con cura sufficiente) ma resta il fatto che i due giocano con handicap diversi, almeno qui, in Italia.
La qualità del lavoro degli scoiattoli è misurabile secondo criteri più rigorosi (attualità delle fonti, precisione delle tipologie in cui collocare i dati) mentre l’estro dei ragni vive delle fortune della “creatività” italica. Andate cioè da un editore italiano con “l’idea brillante” ed è probabile che vi ascolterà (non è detto con interesse, ho detto che almeno vi ascolterà), mentre se andate con un corpus di dati rigorosi e organizzati esclusivamente in modo da produrre un avanzamento della conoscenza è probabile che quell’editore, prima di tutto, vi chieda quanti studenti avete e se il vostro progetto è “adottabile”.
Molti dei testi che gli antropologi scoiattoli pubblicano in Italia non troverebbero un editore in alcun altro paese (tranne forse la Francia, ultima terra a offrire asilo agli intellettuali tuttologi di professione, e quindi anche ad alcune preziose bischerate antropologiche scritte da ex scoiattoli convertiti in ragni particolarmente spensierati), mentre qui il retaggio crociano e l’inerzia dei concorsi universitari (per diventare “confermati” qualunque sia il blasone accademico, bisogna produrre delle pubblicazioni, e questa a volte è l’unica motivazione che spinge i ragni al temporaneo lavoro) hanno creato un mercato curioso, di libri fatti di un’idea che potrebbe stare in un articoletto di terza pagina. Idee non sempre complicate, spesso al limite del discorso da autobus.
Ma forse varrebbe la pena di fare un po’ un giro (di fare le volpi a rovescio, insomma) per scoprire che l’opposizione tra ragni e scoiattoli riguarda un po’ tutti quelli che si occupano di scienze umane in Italia (così, a occhio, mi pare che i ragni abbondino anche tra i pedagogisti e i massmediologi, almeno dentro l’accademia).
Naturalmente, questo stesso mio pezzo è scritto con stile “da ragno”, che forse è lo stile che più si addice a un blog, dopo tutto. Senza far finta che le ideuzze che spuntano qui possano reggere il corso del tempo, o il confronto scientifico con il solido pensiero ragionato dei colleghi scoiattoli.
sabato 29 settembre 2007
Abbasso il multitasking
Prendo spunto da un bel post di un’amica (che affronta da pasionaria un tema collegato), per sintetizzare il mio disagio corrente, che diventa anche un modo di rispondere a qualche (altro/a) amico/a che mi aveva sollecitato a una maggior partecipazione a certe iniziative in rete.
Da qualche tempo ho preso l’abitudine di non rimanere più collegato a internet tutto il tempo che sono davanti al computer. Soprattutto, quando inizio a lavorare, al mattino, NON controllo la posta elettronica e non controllo il mio aggregatore per nuovi post. In questo modo, mi metto a lavorare a un unico obiettivo, e vedo che funziona, dato che il mio livello di produttività sale vertiginosamente, il mio livello di stress scende di conseguenza ed è meno probabile che alle tre di notte sia ancora davanti al pc a smadonnare perché non ho finito il lavoro che devo spedire domani mattina oppure ad alienarmi con l’ennesima partita di Asteroids.
Non dico che per tutti debba essere così. È probabile che personalità più salde della mia abbiano gli strumenti per non naufragare sistematicamente nel mare della rete, ma per me – e mi pare anche per altri, a leggere in giro – non è così, e la semplice possibilità di cliccare su qualche cosa che potrebbe vagamente avere attinenza con quel che faccio in quel momento è una sorta di imperativo a cliccare, con conseguente dispersione totale di quel che sto facendo. Se, ad esempio, traduco e sono online, ogni dubbio diventa un mare magnum nel quale mi lancio, a fondo (affondo). Se invece sono offline mi segno a parte i veri dubbi. Poi, alla fine, diciamo dopo quattro ore di vero lavoro, mi collego e mi metto a cercare le informazioni che mi servono per risolvere i dubbi che mi sono annotato.
Certo, in questo modo leggo meno post, e questo per certi versi è un male. Ma, di fatto, mi accorgo che leggo quel che mi serve di più (o mi piace veramente). Soprattutto, non ho più il minimo tempo da buttare per twitter o altre cazzate. Il social networking è divertente quando hai tempo di farlo, ed è improbabile che di tempo vero per cose del genere ce ne resti dopo il compimento del 24esimo anno d’età (o il conseguimento della laurea), a meno di non sottrarlo al lavoro, cosa che mi pare insensata non solo se si è veramente schiavi del lavoro, ma anche se dal lavoro si vuole essere veramente liberi. Ora non twitto più, ma vedo che telefono più spesso a quelle cinque-sei persone cui tengo e che sono lontane. Non passo tante ore a navigare, ma mi resta un sacco di tempo in più per qualche spritz con la mia compagna. Insomma, ho bisogno di una pedagogia della rete, o di una disciplina, per usare una parola fuori moda.
Da qualche tempo ho preso l’abitudine di non rimanere più collegato a internet tutto il tempo che sono davanti al computer. Soprattutto, quando inizio a lavorare, al mattino, NON controllo la posta elettronica e non controllo il mio aggregatore per nuovi post. In questo modo, mi metto a lavorare a un unico obiettivo, e vedo che funziona, dato che il mio livello di produttività sale vertiginosamente, il mio livello di stress scende di conseguenza ed è meno probabile che alle tre di notte sia ancora davanti al pc a smadonnare perché non ho finito il lavoro che devo spedire domani mattina oppure ad alienarmi con l’ennesima partita di Asteroids.
Non dico che per tutti debba essere così. È probabile che personalità più salde della mia abbiano gli strumenti per non naufragare sistematicamente nel mare della rete, ma per me – e mi pare anche per altri, a leggere in giro – non è così, e la semplice possibilità di cliccare su qualche cosa che potrebbe vagamente avere attinenza con quel che faccio in quel momento è una sorta di imperativo a cliccare, con conseguente dispersione totale di quel che sto facendo. Se, ad esempio, traduco e sono online, ogni dubbio diventa un mare magnum nel quale mi lancio, a fondo (affondo). Se invece sono offline mi segno a parte i veri dubbi. Poi, alla fine, diciamo dopo quattro ore di vero lavoro, mi collego e mi metto a cercare le informazioni che mi servono per risolvere i dubbi che mi sono annotato.
Certo, in questo modo leggo meno post, e questo per certi versi è un male. Ma, di fatto, mi accorgo che leggo quel che mi serve di più (o mi piace veramente). Soprattutto, non ho più il minimo tempo da buttare per twitter o altre cazzate. Il social networking è divertente quando hai tempo di farlo, ed è improbabile che di tempo vero per cose del genere ce ne resti dopo il compimento del 24esimo anno d’età (o il conseguimento della laurea), a meno di non sottrarlo al lavoro, cosa che mi pare insensata non solo se si è veramente schiavi del lavoro, ma anche se dal lavoro si vuole essere veramente liberi. Ora non twitto più, ma vedo che telefono più spesso a quelle cinque-sei persone cui tengo e che sono lontane. Non passo tante ore a navigare, ma mi resta un sacco di tempo in più per qualche spritz con la mia compagna. Insomma, ho bisogno di una pedagogia della rete, o di una disciplina, per usare una parola fuori moda.
Allegorie sociali
Un libro importante nella storia dell’antropologia è l’etnografia di Edward E. Evans-Pritchard, pubblicata nel 1940, e titolata The Nuer. A Description of the Modes of Livelihood and Political Institutions of a Nilotic People, (London, Oxford University Press). È stato tradotto in italiano nel 1975 da Bernardo Bernardi, con un sottotitolo diverso, su cui tornerò tra poco: I Nuer. Un’anarchia ordinata (Milano, Franco Angeli).
Evans-Pritchard non era un’anima candida, durante la seconda guerra mondiale lavorò in Africa per il governo di Sua Maestà Britannica addestrando gruppi di guerriglieri locali da attivare contro gli occupanti italiani, e alcune foto della fine degli anni Venti lo ritraggono mentre i “suoi” azande porgono il saluto militare. Eppure, nonostante la sua complicata biografia (si convertì al cattolicesimo nel 1944) le sue etnografie sono ancor oggi considerate dei classici e la loro lettura e discussione è un passo canonico nella formazione degli studenti di questa disciplina. A parte la cura etnografica per la descrizione, e anche senza tener conto dello spessore teorico di alcune sue importanti riflessioni, i testi di Evans-Pritchard sono importanti e affascinanti perché continuano a mantenere fresca quel che oggi si chiama la dimensione allegorica dell’etnografia. Non so quanto consapevolmente, quindi, questo brillante spirito britannico riusciva a parlare di popoli strani attirando l’attenzione dei suoi lettori. Evidentemente perché parlava di “altri” riuscendo a dire cose interessanti anche per “noi”. Molti secoli dopo la Lettera a Cangrande della Scala, in cui si teorizza il quadruplice livello di lettura della Divina Commedia, l’antropologia professionale del Novecento sembra in grado di rivitalizzare quel modello di scrittura: ti racconto una storia, e una storia che ti appassionerà di suo, ma dentro la quale, se vorrai, potrai trovare altri strati, altri sensi, che magari riguardano direttamente proprio te che ascolti.
Ora, prendiamo il caso di un giovane inglese borghese negli anni Venti del Novecento, del tutto conscio della rigidità della struttura sociale del suo paese (certo sapete quanto ancor oggi la stratificazione sociale sia nitida in Gran Bretagna: scuole frequentate, quartieri abitati e spazi sociali praticati segmentano la popolazione in una struttura quasi piramidale) che decide di fare l’antropologo e di andare a studiare le popolazioni indigene del Sudan meridionale (allora territorio britannico). Supponiamo inoltre che questo stesso giovane e brillante studioso abbia interiorizzato l’idea – dopo aver studiato Hobbes, non a caso un inglese, e aver apprezzato l’efficienza del sistema postale britannico ogni mattino – che la ripida scala gerarchica che sta cercando di scalare sia necessaria al mantenimento dell’ordine sociale, che altrimenti andrebbe in frantumi. Ecco, se avete immaginato tutto questo, avrete un’idea credo grossolana ma non del tutto errata di come si sentiva Evans-Pritchard prima di diventare un antropologo che conduce ricerche sul campo.
Ora portatelo in Africa, e fategli scoprire poco a poco che la popolazione che ha deciso di studiare, i nuer (dopo aver studiato la stregoneria tra gli azande) è strutturata dal punto di vista sociale in modo meno semplice di quanto si sarebbe potuto supporre standosene a Londra. I nuer, è vero, non hanno un centro politico, la loro vita di pastorizia nomade esclude lo sviluppo di villaggi troppo strutturati. I nuer non sembrano avere neppure capi equivalenti ai nostri (inglesi) re, autorità poste al vertice della piramide sociale cui tutti sono tenuti ad obbedire. Mancano le figure intermedie della burocrazia gentilizia, mancano insomma i segni evidenti di una strutturazione gerarchica della società. Ma non per questo manca una struttura, anzi. Si tratta di reticoli mobili, basati sul principio della “segmentazione” per cui i gruppi competono quando sono di pari livello e possono cooperare quando invece devono competere con un raggruppamento di livello superiore. In pratica, io litigo con mio fratello per le risorse, ma assieme noi fratelli competiamo coi cugini, e assieme ai cugini competiamo contro i lignaggi rivali, e unendo i lignaggi del nostro clan combattiamo i clan rivali, e più clan si uniscono per combattere una tribù rivale. Insieme, in quando nuer, razziamo i dinka, nostri avversari di sempre. Questa rete segmentaria ha la qualità di essere dinamica e contestuale, adattandosi al livello di cooperazione necessaria allo scopo. Soprattutto, la rete fa della gerarchia una funzione del tempo, non una costante atemporale. Alcuni anziani dei clan più potenti godono di un potere ovviamente maggiore, ma nulla garantisce la continuità di quel potere: il clan si può indebolire nel tempo per semplici ragioni demografiche, il capo dalla pelle di leopardo può perdere prestigio per una serie di decisioni errate, altri capi possono acquisire prestigio e aggregare gruppi clienti.
Tutto questo, per Evans-Pritchard, costituisce lo scandalo di una “anarchia ordinata”: anche se infatti l’espressione non compare nel titolo originale, l’autore la usa nel volume, e sembra prestare particolare attenzione a un implicito confronto con il sistema sociale da cui proviene. I nuer, questo fiero popolo pastorale, da lì in fondo, dalla savana africana, esercitano una severa critica dell’inevitabilità del sistema sociale britannico con la sua rigida strutturazione gerarchica. Non è vero che obbligatoriamente ci debba essere un re alla cima della struttura sociale; non è vero che necessariamente ogni soggetto debba occupare una e una sola posizione nella scala sociale. I nuer sono la prova vivente che si può organizzare una complessa struttura sociale senza gerarchia stabile, che è insomma possibile “un’anarchia ordinata”.
Bene, se mi avete seguito fin qui, pensate ora che da qualche anno esiste nel campo della conoscenza l’equivalente dei nuer nel campo della struttura sociale. Come i nuer ci raccontano con la metafora di loro stessi un modo diverso di concepire la politica, così esiste uno spazio che ci racconta metaforicamente un modo diverso di concepire la conoscenza. Questo spazio si chiama wikipedia, che prendo come l’esempio più mirabile e noto del mondo wiki in generale e, ancor più generalmente, delle forme partecipative di conoscenza in rete.
Se qualcuno avesse proposto a una casa editrice – diciamo una trentina di anni fa – di impostare un’enciclopedia senza direttore, senza comitato scientifico, senza esperti, senza coordinatori di sezioni, senza redattori, senza insomma una redazione strutturata gerarchicamente, ma basandosi invece solo sui contributi spontanei di volontari perlopiù anonimi, credo che quella proposta sarebbe stata cestinata come il delirio di un folle. Anche quando il progetto reale della wikipedia ha iniziato a prendere piede, molti (io compreso) l’avevano preso come un curioso esperimento di buona volontà che mai avrebbe potuto competere con i centri costituiti del Sapere. Chi avrebbe scommesso sul fatto che in pochi anni wikipedia avrebbe raggiunto l’accuratezza dell’Enciclopedia Britannica? Sarà un caso che il confronto sul numero medio di errori si è fatto proprio con questo monumento britannico del sapere consolidato?
Ecco, da dire su wikipedia, sul piano strettamente teoretico, ce ne sarebbe per un antropologo, ma qui a me basta ribadire la bellezza della mia disciplina, che per parlare di wikipedia (per fornire uno sguardo analitico originale su wikipedia, diciamo) è costretta ad andarsene in Africa e cercare di capire a fondo, nel dettaglio, come funziona una società pastorale.
Mi piace perché non si tratta di prendere i nuer come pretesto per parlare d’altro. Questo lo facciamo tutti i giorni, quando parliamo a nuora perché suocera intenda, quando stiamo solo aspettando che quello di fronte a noi finisca di dire la sua così noi, finalmente, possiamo dire la nostra. No, sto parlando di un altro atteggiamento: si tratta di ascoltare veramente i nuer e quello che hanno da dirci. Di provare veramente a capire come vivono uomini che seguono norme culturali spesso molto diverse dalle nostre. Questo è il primo passo. Poi viene il fatto che quella conoscenza acquisita fa sistema con altre nostre conoscenze, e ci permette di rielaborarle in una luce nuova e certo imprevista. Ecco, questo sì, mi piace. E questo, per me è fare antropologia oggi.
APPENDICE
Per chi ha voglia, ecco qui di seguito alcuni estratti da I nuer. Un’anarchia ordinata, che possono essere letti più chiaramente come una metafora della critica al determinismo sociale britannico ma che possono – se si vuole – essere visti come una nuova metafora, di un modo di vivere la rete e il sapere in essa prodotto senza sottomissione, senza gerarchia.
La mancanza, tra i Nuer, di organi governativi, l’assenza di istituzioni legali, di leadership sviluppata e, in genere, di vita politica organizzata, è notevole. Il loro stato è uno stato acefalo basato sulla parentela. Solo con uno studio del sistema di parentela di può capire come si mantenga l’ordine e si stabiliscano e si mantengano le relazioni sociali su aree così vaste. L’anarchia ordinata nella quale essi vivono si accorda con i loro carattere. È impossibile vivere tra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino.
Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura e egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza. Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza. Un uomo può non essere membro del clan dominante della sua tribù, può anche discendere dai Dinka, ma se qualcuno alludesse a questo fatto correrebbe un grave rischio di essere bastonato.
Che ogni Nuer consideri di valere quanto il suo vicino, balza evidente da ogni suo movimento. Incedono come fossero i signori della terra, quali, infatti, si considerano. Nella loro società non ci sono né padroni né servi, ma solo uguali, che si considerano come le creature più nobili di Dio. Il rispetto vicendevole contrasta con il disprezzo che hanno per tutti gli altri. Nei rapporti vicendevoli il solo sospetto di ricevere un ordine è causa di irritazione, e chi lo riceve o non lo compie, oppure lo fa in maniera casuale e dilatoria più insultante di un rifiuto. […] Nelle relazioni quotidiane con gli altri e nel giro dei suoi rapporti, uno mostra rispetto per gli anziani, per i suoi “padri” e ad alcune persone con uno status rituale, purché non interferiscano con la sua indipendenza, ma non si sottometterà mai ad alcuna autorità che contrasti con i suoi interessi, né si considera obbligato ad obbedire a chicchessia. Una volta stavo parlando degli Shilluk con un Nuer che aveva visitato il loro paese il quale mi disse: “Essi hanno un gran capo, noi no. Questo capo può far chiamare uno e chiedergli una mucca oppure può anche ucciderlo. Ma chi mai ha visto un Nuer fare una cosa simile? Chi è dei Nuer che va se gli viene ordinato di andare, o che paga una mucca a chi gliela reclama”
(Traduzione di Bernardo Bernardi, pp. 243-244).
venerdì 28 settembre 2007
Niente di nuovo sotto il sole
Il dibattito sul ruolo della televisione, sul suo essere cattiva maestra o invece fonte di liberazione intellettuale nasce ben prima della televisione, e si può far risalire ai primordi della comunicazione di massa. La querelle sembra sempre la stessa: la rinuncia forzosa da parte di un'élite al proprio privilegio sociale distintivo e la progressiva popolarizzazione di una tecnologia e/o di uno stile. Quando, attorno alla metà del Settecento, il romanzo epistolare imperversava e gli scritti di Jean-Jacques Rousseau (Julie) o Samuel Richardson (Pamela, Clarissa) si ristampavano in decine di edizioni e migliaia di esemplari, il punto del contendere era se questo tipo di letture (tutto preso a raccontare le vicende di persone comuni), borghesi, non eroi, né nobili o dei) e soprattutto la loro diffusione, fosse pernicioso (soprattutto per le donne, che iniziavano allora ad affacciarsi alla scrittura e alla lettura). Simili considerazioni si possono fare per la pittura. Più o meno nello stesso periodo in cui il romanzo iniziava a diventare veramente popolare, un nobile inglese si sentiva in diritto di prendersela con la moda francese dei ritratti individuali di persone comuni (comuni borghesi, ovviamente) che, a suo parere, era dovuta a null'altro che a un “infelice gusto dell'epoca” che rischiava di mortificare la vera Arte. (Rielaboro queste idee sul ruolo del romanzo e del ritratto da un manoscritto di Lynn Hunt che ho avuto in visione per una valutazione ma non credo sia mai stato tradotto in italiano. Si intitola Inventing Human Rights, ed è stato pubblicato in inglese qualche mese fa).
In questi casi, come nel caso della televisione, come nel caso di Internet, quel che è in gioco è la presenza degli individui“comuni”come oggetto di rappresentazione e di comunicazione pubblica. Le vicende di Pamela, come i ritratti dell'emergente borghesia francese, come i protagonisti dei reality e di molti talk show, richiamano alla quotidianità, rinunciando esplicitamente a qualunque eccezionalità o raffigurazione esemplare. Quel che contestano i critici della cultura di massa è la sua mancanza di vocazione pedagogica per mezzo dell'exemplum, che per definizione ed etimologia è quel che si staglia, quel che emerge, quel che non riesce a stare confinato sullo sfondo. Cosa possiamo imparare, dicono implicitamente i nemici della cultura di massa (da Adorno in poi) se ci mettete di fronte all'indistinto del reale, se non ritagliate e selezionate quel che merita da quel che non ha alcun valore?
Per quanto ovviamente legittima, questa presa di posizione va considerata per quel che è: un assunto pregiudiziale che nega valore morale al consueto, al comune, al diffuso, e che quindi inevitabilmente si tinge di elitismo. Non c'è nulla di male ad essere elitari, ci mancherebbe. Lìimportante è riconoscerlo e non coprire di finto rispetto per i sani valori popolari del buon tempo che fu quel che è invece null'altro che sprezzo per le classi popolari e la loro cultura.
lunedì 24 settembre 2007
Colpa dei politici o colpa dei giornalisti?
Mi chiedo se non abbiamo sbagliato obiettivo, guardando a Beppe Grillo come a un fustigatore dei politici. In fin dei conti, Grillo queste cose le dice da vent’anni. E se invece dei politici il vero obiettivo polemico fossero i giornalisti? O almeno un certo modo quieto di fare giornalismo, sempre pronto a schierarsi su qualche carro, sempre pronto a un risottino e a pacche sulle spalle?
La reazione dei professionisti all’effetto Grillo mi è sembrata un sintomo chiaro di disagio: ma che vuole, questo? Invece di accendere i cervelli per provare a spiegarci un fenomeno che ovviamente ha un suo interesse per la dimensione sociale (e non per le esternazioni di un singolo individuo genovese) ho visto molto sospetto coperto da “dovere di cronaca”, molte sopracciglia sollevate, molto “antipolitica” (e questa me la devono spiegare, che la politica sia solo quella pulitina dei salotti televisivi).
Facendo leva sul fatto che Grillo è un cazzaro che non fa finta di essere raffinato (insomma, mi tocca dirlo, esasperando la questione della “forma”) i mass media hanno fatto finta di parlare anche della sostanza, senza dire invece nulla a riguardo.
Oggi Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella hanno steso un articolo che partiva dalla prima pagina del Corriere e arrivava a una doppia interna, per fare un’esternazione del tutto grillesca quanto a contenuti, e parecchio anche a forma (provare per credere: “E’ antipolitico chiedere come mai non vengono neppure ipotizzati l’abolizione delle province o l’accorpamento dei piccoli comuni? Che tutte le amministrazioni pubbliche siano obbligate a fare bilanci trasparenti dove “acquisto carta da fax” si chiami “acquisto carta da fax” e “noleggio aerei privati” si chiami “noleggio aerei privati” così da spazzare via tanti bilanci fatti così proprio per essere illeggibili?” E così via). Tutto per dimostrare che i politici col cavolo si sono abbassati le spese, col cavolo che hanno capito l’antifona.
Rizzo e Stella sono da mesi in testa alla classifiche di vendita dei libri con il loro La casta, ma nessuno ha detto che sono qualunquisti o che stanno spaccando il Paese o altre baggianate sull’antipolitica. Perché invece Grillo sì? Forse, azzardo, perché questo signore buffo sta andando in giro a dimostrare che ci si possono scavare i propri canali di informazione e verificare quanti siano i parlamentari condannati o come sia composto il CdA di Telecom, anche se i media mainstream non ce lo dicono.
Per chi non ha la voglia/capacità o anche solo il tempo di seguire canali alternativi di informazione, che cosa resta? I telegiornali e il giornalismo in televisione sono un ammasso di luogocomunismo modestissimo. A parte la Gabanelli e un paio d’altri (e infatti sono convinto ci sia una sovrapposizione tra chi ama Report o certi programmi di Radio24 da un lato e il grillismo militante dall’altro), non riesco a ricordare qualcosa che somigli al giornalismo d’inchiesta, e anche i “ceti moderati” mi sa che si sono rotti le balle di vedere Maroni a Matrix e Bertinotti a Porta a porta. Per i quotidiani, stendiamo in velo pietoso: quelli locali sono, appunto “locali” anche come orizzonte culturale, e quelli nazionali sono troppo collusi con i presunti oggetti delle loro indagini, oppure troppo obnubilati dal conteggio delle vendite dell’ultimo maledetto gadget/inserto per preoccuparsi di andare anche a cercarsi le notizie, poverini. Senza contare che oggi i giornalisti della carta stampata passano quasi tutto il loro tempo a leggere i giornali degli altri, per verificare di non aver bucato la notizia e per soppesare le strategie dei rivali, con buona pace del taccuino e dello scavo delle notizie.
Insomma, la funzione di “cane da guardia” dei media veramente di massa, rispettata come sacro mandato nel mondo anglosassone, in Italia non esiste proprio. Tanto è vero che un Rizzo e uno Stella che fanno un “normale” libro di denuncia diventano un caso. Tanto è vero che il “romanzo” più importante di questi anni è di fatto un’inchiesta giornalistica (Gomorra di Saviano, ovviamente).
Non è che il successo di Grillo sta proprio in questo, nel fatto che racconta cose di cui i grandi mezzi di comunicazione non parlano proprio e di cui invece ormai il pubblico/società civile ha fame e bisogno? Non è possibile che Grillo sia un fenomeno italiano non solo perché abbiamo la peggior classe politica d’Europa (ma state attenti alla Grecia, secondo me ci batte. Di poco, ma ci batte) ma soprattutto perché abbiamo il settore informazione più ributtante del mondo occidentale, sempre in bilico tra blandire il padrone e blandire il pubblico beota, ma quasi mai in grado di fare il suo mestiere, cioè produrre informazione che faccia crescere chi se ne nutre?
Il significato di "fullonare"
Siamo noi i scasati
Porchi pieni di porche prumate
Mai lucidate
[…]
Vieni a stare con noi
Io sono Mortizia e mai fullonerò
Scasati!
Durante le mie lezioni introduttive di antropologia culturale, uno degli scogli concettuali più ardui per i miei studenti è l’idea di arbitrarietà del segno. Non si tratta ovviamente della quasi ovvia arbitrarietà del legame tra significante e significato (questo è abbastanza facile da afferrare) ma piuttosto del fatto (terribile e intollerabile a molti) che le cose che diciamo non abbiano necessariamente un legame con la “realtà”. Insomma, per me si tratta di far capire agli studenti l’insufficienza della “teoria referenziale del significato”, a vantaggio della “teoria dell’uso del significato”. Secondo la prima, le parole sono più o meno delle forchette con cui infilziamo la realtà (una parola per ogni pezzo di reale) portandole così a portata di mano. “Patata”, “sasso”, “cane”, sono tipicamente parole che tendono a dare credito a questa teoria. Se anche non mi posso mangiare una “patata” scritta su questo schermo, né posso accarezzare il “cane” di cui parlano queste righe, tutti pensiamo che vi sia un legame certo e diretto tra il significante (in questo caso la forma “cane” o “patata” dei pixel sullo schermo) e il loro “referente” nella realtà, cioè l’animale scodinzolante o il tubero saporito, in questo caso.
La “teoria dell’uso” emerge invece quando si prova a dar conto del significato di segni linguistici meno “cosali”, come molti verbi (“sentire”, esempio classico perché contraddice con se stesso la teoria referenziale, pur essendone alla base), avverbi (provate a immaginare il referente reale di “quindi”, o “allora”), ma anche molti sostantivi (io cito sempre “anima”, “amore” e “democrazia”, ma avrete senz’altro i vostri). Di fronte a questa dimensione del linguaggio umano (che è probabilmente la peculiarità del nostro sistema rispetto a qualunque altro codice di comunicazione animale) non resta che accettare il fatto che, non essendo affatto referenziale, il significato dei segni è dato dall’uso che se ne fa, grande lezione della semiotica di Charles Sanders Pierce.
Quindi, il significato di un segno non è il suo referente, ma l’insieme delle storie potenziali che posso sensatamente generare con quel segno. Il segno “cane” (indipendentemente da ciò cui si “riferisce” nella realtà) sarà quindi molto diverso in una cultura che accetta il cane come alimento dal segno “cane” in una cultura che invece aborrisce l’idea di mangiare cani. Questo perché nel primo caso saranno permesse sequenze sintagmatiche (frasi) come “ieri ho mangiato cotolette di cane” che nel secondo verranno probabilmente giudicate come frasi “sbagliate”.
Tutto questo a me serve per far capire agli studenti che l’antropologia, come mestiere più che come riflessione teorica, è quella disciplina che si sforza di ricostruire le reti specifiche dei significati prodotti da una cultura. Se infatti per “noi” il segno “cane” significa “amico fidato”, ecco che un segno ha come suo significato un altro segno (in questo caso “amico”) che va decodificato, aprendosi al concetto di rete semiotica. Simmetricamente, se per “loro” il segno “cane” significa “gustosa prelibatezza” la rete di significati che quella cultura intesse attorno a “cane” è diversa ma altrettanto ramificata.
La filastrocca che avete letto all’inizio di questo post è un perfetto esempio del fatto che il significato non è dato dai referenti reali, ma dall’uso che se ne fa. Ho trascritto come mia figlia Rebecca (sei anni a novembre) canta la sigla di un cartone animato. Non le interessa cosa siano in dettaglio i “porchi pieni di porche prumate”, ma un’idea se l’è fatta guardando il cartone. E quando le ho chiesto cosa significa la frase finale che dice Mortizia (“mai fullonerò”) mi ha spiegato che vuol dire che mai tradirà i suoi amici. Fullonare, per intendersi, significa tradire, fregare.
Chi potrebbe negare che per Rebecca prima è venuta la parola “fullonare”, nella sua unità di significante e significato, e poi è venuta la scoperta del significato? Dato che Mortiza fa quelle cose e non altre, dato che lei, nel cartone, non tradisce gli amici, “fullonare” deve significare tradire, una cosa che Mortizia mai potrebbe fare. Non è la realtà che si impone con la sua forza "oggettiva" ai nomi, ma sono invece i nomi che ci permettono di capire la realtà, dandole (finalmente) un senso.
Porchi pieni di porche prumate
Mai lucidate
[…]
Vieni a stare con noi
Io sono Mortizia e mai fullonerò
Scasati!
Durante le mie lezioni introduttive di antropologia culturale, uno degli scogli concettuali più ardui per i miei studenti è l’idea di arbitrarietà del segno. Non si tratta ovviamente della quasi ovvia arbitrarietà del legame tra significante e significato (questo è abbastanza facile da afferrare) ma piuttosto del fatto (terribile e intollerabile a molti) che le cose che diciamo non abbiano necessariamente un legame con la “realtà”. Insomma, per me si tratta di far capire agli studenti l’insufficienza della “teoria referenziale del significato”, a vantaggio della “teoria dell’uso del significato”. Secondo la prima, le parole sono più o meno delle forchette con cui infilziamo la realtà (una parola per ogni pezzo di reale) portandole così a portata di mano. “Patata”, “sasso”, “cane”, sono tipicamente parole che tendono a dare credito a questa teoria. Se anche non mi posso mangiare una “patata” scritta su questo schermo, né posso accarezzare il “cane” di cui parlano queste righe, tutti pensiamo che vi sia un legame certo e diretto tra il significante (in questo caso la forma “cane” o “patata” dei pixel sullo schermo) e il loro “referente” nella realtà, cioè l’animale scodinzolante o il tubero saporito, in questo caso.
La “teoria dell’uso” emerge invece quando si prova a dar conto del significato di segni linguistici meno “cosali”, come molti verbi (“sentire”, esempio classico perché contraddice con se stesso la teoria referenziale, pur essendone alla base), avverbi (provate a immaginare il referente reale di “quindi”, o “allora”), ma anche molti sostantivi (io cito sempre “anima”, “amore” e “democrazia”, ma avrete senz’altro i vostri). Di fronte a questa dimensione del linguaggio umano (che è probabilmente la peculiarità del nostro sistema rispetto a qualunque altro codice di comunicazione animale) non resta che accettare il fatto che, non essendo affatto referenziale, il significato dei segni è dato dall’uso che se ne fa, grande lezione della semiotica di Charles Sanders Pierce.
Quindi, il significato di un segno non è il suo referente, ma l’insieme delle storie potenziali che posso sensatamente generare con quel segno. Il segno “cane” (indipendentemente da ciò cui si “riferisce” nella realtà) sarà quindi molto diverso in una cultura che accetta il cane come alimento dal segno “cane” in una cultura che invece aborrisce l’idea di mangiare cani. Questo perché nel primo caso saranno permesse sequenze sintagmatiche (frasi) come “ieri ho mangiato cotolette di cane” che nel secondo verranno probabilmente giudicate come frasi “sbagliate”.
Tutto questo a me serve per far capire agli studenti che l’antropologia, come mestiere più che come riflessione teorica, è quella disciplina che si sforza di ricostruire le reti specifiche dei significati prodotti da una cultura. Se infatti per “noi” il segno “cane” significa “amico fidato”, ecco che un segno ha come suo significato un altro segno (in questo caso “amico”) che va decodificato, aprendosi al concetto di rete semiotica. Simmetricamente, se per “loro” il segno “cane” significa “gustosa prelibatezza” la rete di significati che quella cultura intesse attorno a “cane” è diversa ma altrettanto ramificata.
La filastrocca che avete letto all’inizio di questo post è un perfetto esempio del fatto che il significato non è dato dai referenti reali, ma dall’uso che se ne fa. Ho trascritto come mia figlia Rebecca (sei anni a novembre) canta la sigla di un cartone animato. Non le interessa cosa siano in dettaglio i “porchi pieni di porche prumate”, ma un’idea se l’è fatta guardando il cartone. E quando le ho chiesto cosa significa la frase finale che dice Mortizia (“mai fullonerò”) mi ha spiegato che vuol dire che mai tradirà i suoi amici. Fullonare, per intendersi, significa tradire, fregare.
Chi potrebbe negare che per Rebecca prima è venuta la parola “fullonare”, nella sua unità di significante e significato, e poi è venuta la scoperta del significato? Dato che Mortiza fa quelle cose e non altre, dato che lei, nel cartone, non tradisce gli amici, “fullonare” deve significare tradire, una cosa che Mortizia mai potrebbe fare. Non è la realtà che si impone con la sua forza "oggettiva" ai nomi, ma sono invece i nomi che ci permettono di capire la realtà, dandole (finalmente) un senso.
Beata innocenza
Leggendo un articolo di un antropologo inglese che ha lavorato a lungo in Grecia, scopro un dettaglio interessante. Michael Herzfeld (questo il nome dell’antropologo) sta raccontando le vicende cretesi narrate in un romanzo scritto da un autore locale. Per chi non lo sapesse, Creta è famosa per lo spirito bellicoso dei suoi abitanti e, per noi italiani, ricorda un po’ alcuni stereotipi sardi (diffuso “abigeato”, cioè furto di bestiame) e siciliani (rapimento della donna per costringere la famiglia al matrimonio, vendetta istituzionalizzata nella faida). In questa storia analizzata da Herzfeld la protagonista è stata rapita e il paese si è mobilitato alla caccia del rapitore. La storia si concluderà con una rappacificazione collettiva grazie al matrimonio riparatore. Commentando il finale moralista, Herzfeld riporta un brano del romanzo nella sua traduzione in inglese: “The theft had been purified. The sinners had been made innocent [or, acquitted]”. In italiano suona all’incirca: “Il ladro è stato purificato. I peccatori sono resi innocenti [o sono stati assolti]”. Non ho l’originale per verificare, ma è del tutto probabile che il greco fosse “athoòthikan”, che effettivamente significa assolvere, proclamare innocente. Quel che è curioso è che Herzfeld, di cultura inglese, non riesca a trovare un verbo univoco per la sua traduzione e sia costretto a distinguere tra l’essere “reso innocente” e l’essere assolto. A un italiano (e sospetto a uno spagnolo o a un francese, comunque a un cattolico) non sarebbe mai venuto in mente di mantenere questa distinzione (che l’originale greco difatti non ha). Mentre cioè per coloro che hanno la confessione come sacramento il fatto di essere àthoos (innocente) è una condizione reversibile (tanto che si può essere “fatto” innocente anche se si è stati colpevoli) per altre sensibilità culturali la condizione di perdita dell’innocenza non è reversibile, e quindi bisogna distinguere tra l’essere assolti (per essere sempre stati innocenti) e la condizione (evidentemente percepita come fittizia) di riverginazione della propria innocenza attraverso un rituale.
Sono, credo, dettagli come questi che ci segnalano più in profondità le differenze tra le culture.
lunedì 17 settembre 2007
Un altro motivo per cui non tengo una pistola a casa (poesia di Billy Collins)
Purtroppo il titolo non passa mai di moda (è di ieri la notizia di quello che di notte, a casa, ha sparato alla moglie scambiandola per un ladro) e allora tanto vale ricordare che motivi comici per incazzarsi di brutto ce ne sono troppi per rischiare di farsi prendere la mano.
Another reason why I don't keep a gun in the house
The neighbors' dog will not stop barking.
He is barking the same high, rhythmic bark
that he barks every time they leave the house.
They must switch him on on their way out.
The neighbors' dog will not stop barking.
I close all the windows in the house
and put on a Beethoven symphony full blast
but I can still hear him muffled under the music,
barking, barking, barking,
and now I can see him sitting in the orchestra,
his head raised confidently as if Beethoven
had included a part for barking dog.
When the record finally ends he is still barking,
sitting there in the oboe section barking,
his eyes fixed on the conductor who is
entreating him with his baton
while the other musicians listen in respectful
silence to the famous barking dog solo,
that endless coda that first established
Beethoven as an innovative genius.
- Billy Collins
Un altro motivo per cui non tengo una pistola a casa
Il cane dei vicini non smette di abbaiare.
Sta abbaiando con lo stesso ritmo
con cui abbaia ogni volta che lasciano la casa.
Sembra proprio che lo accendano, quando escono.
Il cane dei vicini non smette di abbaiare.
Chiudo tutte le finestre di casa
e metto una sinfonia di Beethoven a tutto volume
ma ancora posso sentirlo attutito dalla musica,
che abbaia, abbaia, abbaia,
e adesso poi lo vedo, seduto nell’orchestra,
la testa fieramente sollevata come se Beethoven
avesse incluso una parte per “cane che abbaia”.
Quando il disco finisce, lui è ancora lì che abbaia,
seduto nella sezione degli oboe ad abbaiare,
con gli occhi fissi sul direttore che
lo sollecita con la bacchetta
mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso
silenzio il famoso assolo per cane abbaiante,
quella coda infinita che presto diede fama
a Beethoven di genio innovativo.
Traduzione di Piero Vereni
Another reason why I don't keep a gun in the house
The neighbors' dog will not stop barking.
He is barking the same high, rhythmic bark
that he barks every time they leave the house.
They must switch him on on their way out.
The neighbors' dog will not stop barking.
I close all the windows in the house
and put on a Beethoven symphony full blast
but I can still hear him muffled under the music,
barking, barking, barking,
and now I can see him sitting in the orchestra,
his head raised confidently as if Beethoven
had included a part for barking dog.
When the record finally ends he is still barking,
sitting there in the oboe section barking,
his eyes fixed on the conductor who is
entreating him with his baton
while the other musicians listen in respectful
silence to the famous barking dog solo,
that endless coda that first established
Beethoven as an innovative genius.
- Billy Collins
Un altro motivo per cui non tengo una pistola a casa
Il cane dei vicini non smette di abbaiare.
Sta abbaiando con lo stesso ritmo
con cui abbaia ogni volta che lasciano la casa.
Sembra proprio che lo accendano, quando escono.
Il cane dei vicini non smette di abbaiare.
Chiudo tutte le finestre di casa
e metto una sinfonia di Beethoven a tutto volume
ma ancora posso sentirlo attutito dalla musica,
che abbaia, abbaia, abbaia,
e adesso poi lo vedo, seduto nell’orchestra,
la testa fieramente sollevata come se Beethoven
avesse incluso una parte per “cane che abbaia”.
Quando il disco finisce, lui è ancora lì che abbaia,
seduto nella sezione degli oboe ad abbaiare,
con gli occhi fissi sul direttore che
lo sollecita con la bacchetta
mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso
silenzio il famoso assolo per cane abbaiante,
quella coda infinita che presto diede fama
a Beethoven di genio innovativo.
Traduzione di Piero Vereni
giovedì 13 settembre 2007
Sarò brevissimo
Non credo che il cancan generale provocato dal V-Day senta la disperata mancanza del mio commento, anzi. Quindi una sola cosa: al di là dei partiti (presi o persi o (s)fondati) mi lascia perplesso che Beppe Grillo non abbia accettato alcun contraddittorio (a parte i post sul blog, ma mica sono un contraddittorio, quelli). Ci sono programmi seri, magari solo radiofonici, cui basta una telefonata per contraddire una critica, per replicare insomma. Grillo no, non ha replicato. Ha fatto un monologo, applaudito o fischiato, ma non ha avuto il coraggio di dia-logare.
[Ok, detta da uno su un blog puzza di bue che dice cornuto all'asino, ma io ancora non l'ho organizzato il V-Day].
martedì 11 settembre 2007
Night Club (poesia di Billy Collins)
Forse una delle qualità migliori di BC, come poeta, è quella di costringermi ad accettare la bellezza di tante cose che non ritengo tali. Una piccola pedagogia dell'estetica ad ogni poesia, che viene sistematicamente presa a pugni dal mio perbenismo, dalle mie paure, dalle mie resistenze a "lasciar andare",come si dice.
Non sono un amante dei night club, o dei locali serali/notturni in generale. Troppa gente, troppo fumo, "too much to name, too much to think about", come dice proprio BC parlando di tutt'altro, in un'altra poesia.
Ma questa è così delicata nel portarci dentro, un'entreneuse stranamente contenuta, che non chiederà neppure un bicchiere a caro prezzo, in cambio, ma solo un po' di orecchio, per lei e la sua storia, e la sua musica.
Night Club
You are so beautiful and I am a fool
to be in love with you
is a theme that keeps coming up
in songs and poems.
There seems to be no room for variation.
I have never heard anyone sing
I am so beautiful
and you are a fool to be in love with me,
even though this notion has surely
crossed the minds of women and men alike.
You are so beautiful, too bad you are a fool
is another one you don't hear.
Or, you are a fool to consider me beautiful.
That one you will never hear, guaranteed.
For no particular reason this afternoon
I am listening to Johnny Hartman
whose dark voice can curl around
the concepts on love, beauty, and foolishness
like no one else's can.
It feels like smoke curling up from a cigarette
someone left burning on a baby grand piano
around three o'clock in the morning;
smoke that billows up into the bright lights
while out there in the darkness
some of the beautiful fools have gathered
around little tables to listen,
some with their eyes closed,
others leaning forward into the music
as if it were holding them up,
or twirling the loose ice in a glass,
slipping by degrees into a rhythmic dream.
Yes, there is all this foolish beauty,
borne beyond midnight,
that has no desire to go home,
especially now when everyone in the room
is watching the large man with the tenor sax
that hangs from his neck like a golden fish.
He moves forward to the edge of the stage
and hands the instrument down to me
and nods that I should play.
So I put the mouthpiece to my lips
and blow into it with all my living breath.
We are all so foolish,
my long bebop solo begins by saying,
so damn foolish
we have become beautiful without even knowing it.
(Billy Collins)
Night Club
Sei così bella, e io sono uno stupido
a essere innamorato di te
è un motivo che continua a presentarsi
nelle canzoni e nelle poesie.
Non sembra esserci spazio per alcuna variazione.
Non ho mai sentito uno cantare
sono così bello
e tu sei una stupida ad esserti innamorata di me,
anche se quest’idea ha senza dubbio
attraversato in egual misura la mente di uomini e donne.
Sei così bella, peccato tu sia stupida
è un’altra che non si sente proprio.
Oppure, sei uno stupido a considerarmi bella.
Questa non la sentirete mai, sicuro.
Senza un motivo particolare questa sera
sto ascoltando Johnny Hartman
la cui voce scura può arrotolarsi attorno
ai concetti di amore, bellezza e stupidità
come quella di nessun altro.
Sembra fumo che si arrotola da una sigaretta
che qualcuno ha lasciato a bruciare su di un piano a mezza coda
più o meno alle tre di mattina;
fumo che ondeggia verso le luci intense
mentre lì, in mezzo al buio
alcune stupide bellezze si sono raccolte
attorno a piccoli tavoli per ascoltare,
un po’ con gli occhi chiusi,
altre protese avanti verso la musica
come se le sostenesse,
o mentre ruotano il ghiaccio che si scioglie nel bicchiere,
scivolando poco a poco in un sogno ritmato.
Sì, c’è tutta questa stupida bellezza,
fiorita dopo mezzanotte,
che non ha voglia di tornare a casa,
soprattutto ora che tutti nella stanza
stanno guardando l’uomo imponente con il sax tenore
che gli pende dal collo come un pesce d’oro.
E viene avanti, al bordo del proscenio
e si china a porgermi lo strumento
e con un cenno mi fa capire che tocca a me suonare.
Così porto alle labbra l’imboccatura
e ci soffio dentro con tutto il fiato che mi è dato.
Siamo tutti così stupidi,
inizia a dire il mio lungo assolo bebop,
ma così assurdamente stupidi
che siamo diventati belli senza neppure rendercene conto.
(Traduzione di Piero Vereni)
Non sono un amante dei night club, o dei locali serali/notturni in generale. Troppa gente, troppo fumo, "too much to name, too much to think about", come dice proprio BC parlando di tutt'altro, in un'altra poesia.
Ma questa è così delicata nel portarci dentro, un'entreneuse stranamente contenuta, che non chiederà neppure un bicchiere a caro prezzo, in cambio, ma solo un po' di orecchio, per lei e la sua storia, e la sua musica.
Night Club
You are so beautiful and I am a fool
to be in love with you
is a theme that keeps coming up
in songs and poems.
There seems to be no room for variation.
I have never heard anyone sing
I am so beautiful
and you are a fool to be in love with me,
even though this notion has surely
crossed the minds of women and men alike.
You are so beautiful, too bad you are a fool
is another one you don't hear.
Or, you are a fool to consider me beautiful.
That one you will never hear, guaranteed.
For no particular reason this afternoon
I am listening to Johnny Hartman
whose dark voice can curl around
the concepts on love, beauty, and foolishness
like no one else's can.
It feels like smoke curling up from a cigarette
someone left burning on a baby grand piano
around three o'clock in the morning;
smoke that billows up into the bright lights
while out there in the darkness
some of the beautiful fools have gathered
around little tables to listen,
some with their eyes closed,
others leaning forward into the music
as if it were holding them up,
or twirling the loose ice in a glass,
slipping by degrees into a rhythmic dream.
Yes, there is all this foolish beauty,
borne beyond midnight,
that has no desire to go home,
especially now when everyone in the room
is watching the large man with the tenor sax
that hangs from his neck like a golden fish.
He moves forward to the edge of the stage
and hands the instrument down to me
and nods that I should play.
So I put the mouthpiece to my lips
and blow into it with all my living breath.
We are all so foolish,
my long bebop solo begins by saying,
so damn foolish
we have become beautiful without even knowing it.
(Billy Collins)
Night Club
Sei così bella, e io sono uno stupido
a essere innamorato di te
è un motivo che continua a presentarsi
nelle canzoni e nelle poesie.
Non sembra esserci spazio per alcuna variazione.
Non ho mai sentito uno cantare
sono così bello
e tu sei una stupida ad esserti innamorata di me,
anche se quest’idea ha senza dubbio
attraversato in egual misura la mente di uomini e donne.
Sei così bella, peccato tu sia stupida
è un’altra che non si sente proprio.
Oppure, sei uno stupido a considerarmi bella.
Questa non la sentirete mai, sicuro.
Senza un motivo particolare questa sera
sto ascoltando Johnny Hartman
la cui voce scura può arrotolarsi attorno
ai concetti di amore, bellezza e stupidità
come quella di nessun altro.
Sembra fumo che si arrotola da una sigaretta
che qualcuno ha lasciato a bruciare su di un piano a mezza coda
più o meno alle tre di mattina;
fumo che ondeggia verso le luci intense
mentre lì, in mezzo al buio
alcune stupide bellezze si sono raccolte
attorno a piccoli tavoli per ascoltare,
un po’ con gli occhi chiusi,
altre protese avanti verso la musica
come se le sostenesse,
o mentre ruotano il ghiaccio che si scioglie nel bicchiere,
scivolando poco a poco in un sogno ritmato.
Sì, c’è tutta questa stupida bellezza,
fiorita dopo mezzanotte,
che non ha voglia di tornare a casa,
soprattutto ora che tutti nella stanza
stanno guardando l’uomo imponente con il sax tenore
che gli pende dal collo come un pesce d’oro.
E viene avanti, al bordo del proscenio
e si china a porgermi lo strumento
e con un cenno mi fa capire che tocca a me suonare.
Così porto alle labbra l’imboccatura
e ci soffio dentro con tutto il fiato che mi è dato.
Siamo tutti così stupidi,
inizia a dire il mio lungo assolo bebop,
ma così assurdamente stupidi
che siamo diventati belli senza neppure rendercene conto.
(Traduzione di Piero Vereni)
domenica 9 settembre 2007
Istruzioni per passare un sabato
Ingedienti: conchiglie raccolte durante l'estate. Sassolini vari (io ho usato sassolini dello Jonio). Una tavola di legno. Colori. Attaccatutto.
Prendete una giornata in cui andare in giro non vi va, possibilmente, e mettetevela da parte. Aggiungeteci la tavola di legno, su cui incollate le conchiglie pensando a come animarle coi colori e i sassolini.
A noi è venuto fuori questo, che abbiamo titolato Una giornata al mare o anche Mi faccia una faccia.
Devo ammettere che quanto a social networking questo metodo di relazionarsi ancora dà una pista a Twitter, e anche a Facebook...
giovedì 6 settembre 2007
Introduzione alla poesia (poesia di Billy Collins)
Sentirsi soli cercando di comunicare una cosa bella senza riuscirci. Questo, mi pare, il sentimento di questa poesia.
BC in formato quasi bonsai, ma sempre incisivo.
Oramai è una mia compagnia fissa sull'mp3, perfetto per i giri in città sul motorino. Lo so, avevo promesso Night Club, una poesia jazz molto sensuale. Arriverà anche quella. Ormai lo so che è un mio preciso dovere morale. BC è grande, e io il suo piccolo profeta in italiano.
Introduction to Poetry
I ask them to take a poem
and hold it up to the light
like a color slide
or press an ear against its hive.
I say drop a mouse into a poem
and watch him probe his way out,
or walk inside the poem's room
and feel the walls for a light switch.
I want them to waterski
across the surface of a poem
waving at the author's name on the shore.
But all they want to do
is tie the poem to a chair with rope
and torture a confession out of it.
They begin beating it with a hose
to find out what it really means.
- Billy Collins
Introduzione alla poesia
Chiedo loro di prendere una poesia
e di alzarla controluce
come una diapositiva a colori
o di poggiare l'orecchio contro il suo brusio d'alveare.
E dico: gettate un topo in una poesia
e guardate come si scava una via di fuga,
o entrate dalla finestra di quella poesia
e tastate i muri in cerca di un interruttore.
Voglio che facciano sci nautico
sulla superficie di una poesia
salutando con la mano il nome dell'autore sulla riva.
Ma loro vogliono solamente
legare la poesia a una sedia con la corda
e torturarla fin quando confessa.
Cominciano a picchiarla con una canna
per scoprire quel che significa davvero.
Traduzione di Piero Vereni
Less is more?
Tanto per ribadire il concetto dell’ultimo post (grazie a Daniele Salvini per l’intelligenza e la leggerezza con cui ha accolto i miei rilievi), vorrei tornare con altri elementi attorno alla questione del minimalismo (non solo in rete), che fa preferire ad alcuni le vecchie interfacce di testo alle moderne GUI.
Luigi Serafini in un’intervista che compare sul numero odierno di Nòva24 articola una posizione interessantissima, che aggiunge (dal mio punto di vista) un’ulteriore sfaccettatura alla questione del rapporto tra utenti e rete come pratica di posizionamento sociale in senso bourdiano (vedi altri post taggati social distinction)
Luigi Serafini contrappone, alla fine dell’allestimento della sua Luna Pac, al Padiglione d’Arte Contemporanea, due concezioni estetiche.
Da un lato c’è la visione della mostra (che ne include una più vasta, dell’arte in quanto tale) come white box, scatola tendenzialmente vuota che l’artista deve limitarsi a riempire quanto meno possibile, secondo il principio del less is more.
All’opposto, l’arte sarebbe la versione socializzata dell’horror vacui e tenderebbe a occupare tutto lo spazio disponibile. Non solo inteso come spazio disponibile per quella mostra o per quell’opera, ma proprio TUTTO lo spazio e basta, in una pulsione espansionista che è in realtà semiogenetica: occupando lo spazio con la sua concezione del mondo, l’arte dà senso al mondo.
Mentre la prima versione sarebbe un retaggio del protestantesimo, che toglie dalle chiese gli stimoli percettivi visibili per condurre il fedele alla riflessione su di sé, lasciandogli come unico canale di ingresso sensorio l’udito della musica sacra, arte eterea quante altre mai, la visione espansionista dell’arte visiva, che pretende di occupare lo spazio colonizzandolo di senso e che porta il soggetto fuori di sé, è un derivato della cultura barocca (e dello spirito Controriformista che la abita, ovviamente). Impossibile, per un italiano, non associare quindi il less is more all’intimità del singolo borghese (weberianamente intento a scavarsi un cunicolo nel monte infinito della produttività) e i cascami barocchi alla caciarona estetica “popolare”, un po’ zingaresca e un po’ puttaneggiante.
Impossibile, soprattutto, non associare l’estetica del less is more al raffinato gusto delle classi superiori (che usano la stringa di comando, non il mouse, vanno ai concerti e se proprio devono godere visivamente si fanno una “vernice”) e l’estetica barocca alle classi televisivamente strumentali e subalterne, protese tra siti porno, YouTube, Un posto al sole e L’isola dei famosi.
Non è improbabile, infine, che molta della critica televisiva (ma anche tanta della critica del “visuale” in genere) sia tuttora scritta sulla base dell’estetica del less is more (mentre il prodotto e la sua fruizione sono di impostazione barocca, ovviamente) segnando quel paradossale scollamento tra critici e pubblico che tutti ormai accogliamo con rassegnazione.
Luigi Serafini in un’intervista che compare sul numero odierno di Nòva24 articola una posizione interessantissima, che aggiunge (dal mio punto di vista) un’ulteriore sfaccettatura alla questione del rapporto tra utenti e rete come pratica di posizionamento sociale in senso bourdiano (vedi altri post taggati social distinction)
Luigi Serafini contrappone, alla fine dell’allestimento della sua Luna Pac, al Padiglione d’Arte Contemporanea, due concezioni estetiche.
Da un lato c’è la visione della mostra (che ne include una più vasta, dell’arte in quanto tale) come white box, scatola tendenzialmente vuota che l’artista deve limitarsi a riempire quanto meno possibile, secondo il principio del less is more.
All’opposto, l’arte sarebbe la versione socializzata dell’horror vacui e tenderebbe a occupare tutto lo spazio disponibile. Non solo inteso come spazio disponibile per quella mostra o per quell’opera, ma proprio TUTTO lo spazio e basta, in una pulsione espansionista che è in realtà semiogenetica: occupando lo spazio con la sua concezione del mondo, l’arte dà senso al mondo.
Mentre la prima versione sarebbe un retaggio del protestantesimo, che toglie dalle chiese gli stimoli percettivi visibili per condurre il fedele alla riflessione su di sé, lasciandogli come unico canale di ingresso sensorio l’udito della musica sacra, arte eterea quante altre mai, la visione espansionista dell’arte visiva, che pretende di occupare lo spazio colonizzandolo di senso e che porta il soggetto fuori di sé, è un derivato della cultura barocca (e dello spirito Controriformista che la abita, ovviamente). Impossibile, per un italiano, non associare quindi il less is more all’intimità del singolo borghese (weberianamente intento a scavarsi un cunicolo nel monte infinito della produttività) e i cascami barocchi alla caciarona estetica “popolare”, un po’ zingaresca e un po’ puttaneggiante.
Impossibile, soprattutto, non associare l’estetica del less is more al raffinato gusto delle classi superiori (che usano la stringa di comando, non il mouse, vanno ai concerti e se proprio devono godere visivamente si fanno una “vernice”) e l’estetica barocca alle classi televisivamente strumentali e subalterne, protese tra siti porno, YouTube, Un posto al sole e L’isola dei famosi.
Non è improbabile, infine, che molta della critica televisiva (ma anche tanta della critica del “visuale” in genere) sia tuttora scritta sulla base dell’estetica del less is more (mentre il prodotto e la sua fruizione sono di impostazione barocca, ovviamente) segnando quel paradossale scollamento tra critici e pubblico che tutti ormai accogliamo con rassegnazione.
martedì 4 settembre 2007
Language is a virus
Premessa-Disclaimer: Non ce l’ho con Daniele Salvini, giornalista e film-maker che non conosco e che quindi rispetto di default. Anzi, i video che ho visto di lui mi sembrano interessanti e si accavallano per tanti aspetti al mio lavoro di antropologo delle identità. Ma le cose che lui dice e che commento in questo post potrebbe averle dette chiunque, le dico anch’io in altre forme (vedi il titolo del post). E comunque, non intendo “criticare” quel che dice Salvini, semmai iniziare a riflettere grazie allo spunto delle sue riflessioni (Fine del disclaimer).
Nell’ultimo numero di Nòva24, il bellissimo inserto del giovedì del Sole24ore, Daniele Salvini scrive un pezzo, a pagina 6, titolato (lo so, non è opera sua, i titolatori sono una professione a sé nel mondo del giornalismo) “Comunità aperta (ma non per tutti)”. Si parla del ventennale di Sdf (Super dimensional fortress). Ora, non chiedetemi precisamente cosa sia Sdf (leggete direttamente il pezzo, semmai) dato che non l’ho capito del tutto, ma più o meno è una community di circa 30.000 membri che “incentiva un uso evoluto e sapiente degli strumenti informatici”. In pratica, è una community che se ne frega bellamente dell’interfaccia grafica e continua a tenersi unita con il protocollo Telnet e con il vecchio gopher, protocolli di comunicazione in buona parte superati perché troppo rigidi (soprattutto gopher, con la sua struttura ad albero) oppure “inglobati” quanto a funzioni nella struttura grafica del “www”. Le ragioni per mantenere viva una comunità che ha deciso di rifiutare esplicitamente un’interfaccia grafica possono essere le più varie (un po’ come varie sono le motivazioni per cui gli Amish non usano corrente elettrica, ad esempio) ma a me pare interessante quella che segnala Daniele Salvini nel suo pezzo:
Provando a tradurre, e pensando anche al forte potere evocativo del titolo del saggio citato a supporto della sua tesi, Salvini ci dice che la riga di comando, non essendo metaforica come invece è l’interfaccia grafica, ci consente un rapporto più vero (con chi, è difficile dirlo: con la Rete in quanto nodi di accesso informativo o con gli utenti della rete in quanto terminali umani, soggetti bio-reali?). Conferma questa mia interpretazione quel che Salvini aggiunge subito dopo:
Mi pare bellissimo: dopo secoli di riflessione (da Platone in giù) sui rischi della scrittura come eccesso di mediazione del reale, ecco finalmente che la Gui si addossa tutta la colpa e possiamo elogiare per la sua “immediatezza” quel che avevamo sempre condannato come segno (attenti alle parole che uso, lettori; attento alle parole che usi, Piero) dello scollamento tra noi e la realtà. Il gusto che si ottiene, è in effetti qualcosa di simile a un remake attuale di Blade Runner. Oggi, nel trionfo di internet e della civiltà dell’immagine, Deckard non userebbe più il televisore per sondare la foto che lo porterà alla caccia dei “lavori in pelle”, probabilmente farebbe un accesso con Telnet, con la riga di comando su un monitor a fosfori verdi…
Ecco in proposito le parole di Salvini, che chiudono il suo bel pezzo svelando l’ideologia profonda di Sdf: “Oltretutto sembra fantascienza ma è vintage”. Ecco la parola chiave: vintage. Qualunque sia la nostra condizione tecnologica, quel che sembra contare veramente, oggi, sono due cose:
1. essere uptodate (di questo atteggiamento ho parlato altre volte, su questo blog, vedi i post taggati social distinction)
2. provare una sottile nostalgia per il passato, spesso evocato come un’epoca in cui la comunicazione era più vera, “meno mediata”.
Credo ci sia una correlazione diretta tra questi due atteggiamenti: più si ha modo di esprimere il secondo, e più si conferma che si vive nel primo. Se cioè non fossimo maledettamente protesi verso un futuro sempre più prossimo che accorcia la durata del presente, non avremmo così tanta nostalgia, e se abbiamo nostalgia è un buon segnale indiretto (ma socialmente apprezzato) del fatto che siamo aggiornati, con un sacco di passato già dietro le spalle.
Tant’è che neppure un mondo così inevitabilmente recente come quello della Rete ce la fa a non generare i suoi tradizionalismi, i suoi lefebvriani che vogliono internet in latino (perché questo a me pare Sfd: la rete che avanza traballando e biascicando una lingua che possono capire solo gli happy few). (Un caso simile mi sembra quello recente del panegirico per i telefonini che non fanno altro che telefonare e, al massimo, mandare sms: ecco i buoni e sani cellulari di una volta, mica le sconcezze ipertecnologiche che abbiamo oggi, signora mia).
Credo che la nostalgia sia un sentimento rispettabile (per quanto io ne rifugga il più possibile) e quindi non è contro questo aspetto psicologico della faccenda che sto argomentando. Mi interessa, in chiusura, puntare al cuore dell’argomentazione: che la metafora del Gui, in quanto metafora, è sleale, e che quindi la riga di comando è più onesta.
Rileggete il modo in cui Salvini lo dice, lo scrive. Rileggete con calma, per favore, e ditemi se non vi viene in mente quello schiavo orientale (citato da Wittgenstein, mi pare) che immerso nelle sabbie mobili si tirò fuori afferrandosi per i capelli legati a coda e tirando forte:
“…sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale”
“…il terreno di gioco delle metafore…” è una metafora! Come tutto il linguaggio che usiamo, che altro non è che un modo MEDIATO (né meno né più di qualunque altro canale comunicativo) di comunicare. Per contestare la sleale metaforicità del Gui, Salvini usa metaforicamente quell’altro strumento (il linguaggio verbale, in questo caso scritto) che dovrebbe essere “più esente” dall’accusa. Questo approccio ribalta secoli di riflessioni filosofiche sull’estetica. Si credeva infatti, fino a poco fa, che quello figurativo (cioè quello delle GUI) fosse un linguaggio meno mediato del linguaggio verbale, dato che si credeva che l’iconismo (cioè la capacità di imitare il reale visibile) fosse una qualità naturale del linguaggio figurativo, fin quando non abbiamo scoperto, con la semiotica moderna, che l’iconismo, come ogni sistema semiotico, ha la sua grammatica e la sua sintassi, e quindi se ne fotte della natura e delle sue regole, per seguire esclusivamente le sue, che sono create dagli uomini.
Ma più di questo, è per me interessante che la posizione di Salvini sembri dare credito all’utopia delle utopie, a quella chimera che perseguita i filosofi e gli antropologi (e ossessivamente i massmediologi, che su questo mito hanno costruito un’intera disciplina) e cioè la speranza che un giorno, forse (nel più remoto passato o nel futuro) gli uomini siano stati o saranno in grado di afferrare la realtà direttamente, im-mediatamente, senza bisogno di un medium (sia questo il linguaggio verbale, quello scritto disprezzato da Platone o quello grafico considerato sleale da Salvini). Ecco allora che, nel momento in cui esiste la Gui, la “linea di comando” vagheggiata, pur essendo a tutti gli effetti una metafora (pensate a dove potete arrivare pensando a “linea di comando”: corpi militari, da un lato, simboli fallici, dall’altro) si presenta come un barlume di quell’utopia, una fiammella da tenere accesa nella speranza che prima o poi divampi il sacro fuoco della comunicazione DIRETTA, senza mediazioni.
La radice di questa utopia, il suo eterno fascino, forse sta nella nostra profonda (nel senso che sta lì, in fondo, onnipresente qualunque cosa facciamo) consapevolezza della solitudine e nel nostro disperato desiderio di uscirne. Ma per uscire “veramente” dalla solitudine dobbiamo sperare che quel che sentiamo anche altri lo sentano, e se mettiamo di mezzo qualunque medium rischiamo di perdere la garanzia che la comunicazione sia stata tale, e di scoprire che è solo un trucco dei segni che si parlano tra di loro, alle nostre spalle. Vogliamo da sempre comunicare senza avere un canale di comunicazione, facendo passare direttamente il messaggio da corpo a corpo, senza linguaggio. È per questo che scopiamo, ed è per questo che gli innamorati balbettano ciuppi cippi e ciccio ciccia: cercano di comunicare sperando di saltare la necessità del medium.
Invece di ammettere che quel che proviamo e che esperiamo (a qualunque livello) esiste solo nella misura in cui viene mediato dal linguaggio (e di lì mediato altrove, dalla tv a internet), ci illudiamo che vi sia un’esperienza e una percezione prelinguistica, che potremmo in qualche modo recuperare se solo non fossimo così dannatamente civilizzati, se fossimo finalmente più naturali. Ecco, il mito di Sdf è il mito dell’ultima Thule, un posto dove ricominciare, finalmente. Peccato che, come tutti i miti, si fondi inevitabilmente proprio su quel che come mito intende negare, e cioè sul potere metaforico del linguaggio, che è così potente da illuderci, in certi momenti, che lui metaforico non è, come ci ha mostrato il pezzo di Daniele Salvini, che scriveva metaforicamente della non metaforicità del linguaggio scritto.
Nell’ultimo numero di Nòva24, il bellissimo inserto del giovedì del Sole24ore, Daniele Salvini scrive un pezzo, a pagina 6, titolato (lo so, non è opera sua, i titolatori sono una professione a sé nel mondo del giornalismo) “Comunità aperta (ma non per tutti)”. Si parla del ventennale di Sdf (Super dimensional fortress). Ora, non chiedetemi precisamente cosa sia Sdf (leggete direttamente il pezzo, semmai) dato che non l’ho capito del tutto, ma più o meno è una community di circa 30.000 membri che “incentiva un uso evoluto e sapiente degli strumenti informatici”. In pratica, è una community che se ne frega bellamente dell’interfaccia grafica e continua a tenersi unita con il protocollo Telnet e con il vecchio gopher, protocolli di comunicazione in buona parte superati perché troppo rigidi (soprattutto gopher, con la sua struttura ad albero) oppure “inglobati” quanto a funzioni nella struttura grafica del “www”. Le ragioni per mantenere viva una comunità che ha deciso di rifiutare esplicitamente un’interfaccia grafica possono essere le più varie (un po’ come varie sono le motivazioni per cui gli Amish non usano corrente elettrica, ad esempio) ma a me pare interessante quella che segnala Daniele Salvini nel suo pezzo:
Per servirsene [di Sdf] bisogna utilizzare la riga di comando: ogni attività si svolge scrivendo parole in un terminale, senza l’ausilio di una Gui, dell’interfaccia grafica, la quale, come dice Neil [sic] Stephenson nel suo saggio In principio era la linea di comando, altro non è che una metafora e sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale.
Provando a tradurre, e pensando anche al forte potere evocativo del titolo del saggio citato a supporto della sua tesi, Salvini ci dice che la riga di comando, non essendo metaforica come invece è l’interfaccia grafica, ci consente un rapporto più vero (con chi, è difficile dirlo: con la Rete in quanto nodi di accesso informativo o con gli utenti della rete in quanto terminali umani, soggetti bio-reali?). Conferma questa mia interpretazione quel che Salvini aggiunge subito dopo:
Scrivere invece che cliccare rappresenta una interazione meno mediata e un canale di comunicazione più diretto. [enfasi aggiunta da me, pv]
Mi pare bellissimo: dopo secoli di riflessione (da Platone in giù) sui rischi della scrittura come eccesso di mediazione del reale, ecco finalmente che la Gui si addossa tutta la colpa e possiamo elogiare per la sua “immediatezza” quel che avevamo sempre condannato come segno (attenti alle parole che uso, lettori; attento alle parole che usi, Piero) dello scollamento tra noi e la realtà. Il gusto che si ottiene, è in effetti qualcosa di simile a un remake attuale di Blade Runner. Oggi, nel trionfo di internet e della civiltà dell’immagine, Deckard non userebbe più il televisore per sondare la foto che lo porterà alla caccia dei “lavori in pelle”, probabilmente farebbe un accesso con Telnet, con la riga di comando su un monitor a fosfori verdi…
Ecco in proposito le parole di Salvini, che chiudono il suo bel pezzo svelando l’ideologia profonda di Sdf: “Oltretutto sembra fantascienza ma è vintage”. Ecco la parola chiave: vintage. Qualunque sia la nostra condizione tecnologica, quel che sembra contare veramente, oggi, sono due cose:
1. essere uptodate (di questo atteggiamento ho parlato altre volte, su questo blog, vedi i post taggati social distinction)
2. provare una sottile nostalgia per il passato, spesso evocato come un’epoca in cui la comunicazione era più vera, “meno mediata”.
Credo ci sia una correlazione diretta tra questi due atteggiamenti: più si ha modo di esprimere il secondo, e più si conferma che si vive nel primo. Se cioè non fossimo maledettamente protesi verso un futuro sempre più prossimo che accorcia la durata del presente, non avremmo così tanta nostalgia, e se abbiamo nostalgia è un buon segnale indiretto (ma socialmente apprezzato) del fatto che siamo aggiornati, con un sacco di passato già dietro le spalle.
Tant’è che neppure un mondo così inevitabilmente recente come quello della Rete ce la fa a non generare i suoi tradizionalismi, i suoi lefebvriani che vogliono internet in latino (perché questo a me pare Sfd: la rete che avanza traballando e biascicando una lingua che possono capire solo gli happy few). (Un caso simile mi sembra quello recente del panegirico per i telefonini che non fanno altro che telefonare e, al massimo, mandare sms: ecco i buoni e sani cellulari di una volta, mica le sconcezze ipertecnologiche che abbiamo oggi, signora mia).
Credo che la nostalgia sia un sentimento rispettabile (per quanto io ne rifugga il più possibile) e quindi non è contro questo aspetto psicologico della faccenda che sto argomentando. Mi interessa, in chiusura, puntare al cuore dell’argomentazione: che la metafora del Gui, in quanto metafora, è sleale, e che quindi la riga di comando è più onesta.
Rileggete il modo in cui Salvini lo dice, lo scrive. Rileggete con calma, per favore, e ditemi se non vi viene in mente quello schiavo orientale (citato da Wittgenstein, mi pare) che immerso nelle sabbie mobili si tirò fuori afferrandosi per i capelli legati a coda e tirando forte:
“…sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale”
“…il terreno di gioco delle metafore…” è una metafora! Come tutto il linguaggio che usiamo, che altro non è che un modo MEDIATO (né meno né più di qualunque altro canale comunicativo) di comunicare. Per contestare la sleale metaforicità del Gui, Salvini usa metaforicamente quell’altro strumento (il linguaggio verbale, in questo caso scritto) che dovrebbe essere “più esente” dall’accusa. Questo approccio ribalta secoli di riflessioni filosofiche sull’estetica. Si credeva infatti, fino a poco fa, che quello figurativo (cioè quello delle GUI) fosse un linguaggio meno mediato del linguaggio verbale, dato che si credeva che l’iconismo (cioè la capacità di imitare il reale visibile) fosse una qualità naturale del linguaggio figurativo, fin quando non abbiamo scoperto, con la semiotica moderna, che l’iconismo, come ogni sistema semiotico, ha la sua grammatica e la sua sintassi, e quindi se ne fotte della natura e delle sue regole, per seguire esclusivamente le sue, che sono create dagli uomini.
Ma più di questo, è per me interessante che la posizione di Salvini sembri dare credito all’utopia delle utopie, a quella chimera che perseguita i filosofi e gli antropologi (e ossessivamente i massmediologi, che su questo mito hanno costruito un’intera disciplina) e cioè la speranza che un giorno, forse (nel più remoto passato o nel futuro) gli uomini siano stati o saranno in grado di afferrare la realtà direttamente, im-mediatamente, senza bisogno di un medium (sia questo il linguaggio verbale, quello scritto disprezzato da Platone o quello grafico considerato sleale da Salvini). Ecco allora che, nel momento in cui esiste la Gui, la “linea di comando” vagheggiata, pur essendo a tutti gli effetti una metafora (pensate a dove potete arrivare pensando a “linea di comando”: corpi militari, da un lato, simboli fallici, dall’altro) si presenta come un barlume di quell’utopia, una fiammella da tenere accesa nella speranza che prima o poi divampi il sacro fuoco della comunicazione DIRETTA, senza mediazioni.
La radice di questa utopia, il suo eterno fascino, forse sta nella nostra profonda (nel senso che sta lì, in fondo, onnipresente qualunque cosa facciamo) consapevolezza della solitudine e nel nostro disperato desiderio di uscirne. Ma per uscire “veramente” dalla solitudine dobbiamo sperare che quel che sentiamo anche altri lo sentano, e se mettiamo di mezzo qualunque medium rischiamo di perdere la garanzia che la comunicazione sia stata tale, e di scoprire che è solo un trucco dei segni che si parlano tra di loro, alle nostre spalle. Vogliamo da sempre comunicare senza avere un canale di comunicazione, facendo passare direttamente il messaggio da corpo a corpo, senza linguaggio. È per questo che scopiamo, ed è per questo che gli innamorati balbettano ciuppi cippi e ciccio ciccia: cercano di comunicare sperando di saltare la necessità del medium.
Invece di ammettere che quel che proviamo e che esperiamo (a qualunque livello) esiste solo nella misura in cui viene mediato dal linguaggio (e di lì mediato altrove, dalla tv a internet), ci illudiamo che vi sia un’esperienza e una percezione prelinguistica, che potremmo in qualche modo recuperare se solo non fossimo così dannatamente civilizzati, se fossimo finalmente più naturali. Ecco, il mito di Sdf è il mito dell’ultima Thule, un posto dove ricominciare, finalmente. Peccato che, come tutti i miti, si fondi inevitabilmente proprio su quel che come mito intende negare, e cioè sul potere metaforico del linguaggio, che è così potente da illuderci, in certi momenti, che lui metaforico non è, come ci ha mostrato il pezzo di Daniele Salvini, che scriveva metaforicamente della non metaforicità del linguaggio scritto.