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martedì 4 settembre 2007

Language is a virus

Premessa-Disclaimer: Non ce l’ho con Daniele Salvini, giornalista e film-maker che non conosco e che quindi rispetto di default. Anzi, i video che ho visto di lui mi sembrano interessanti e si accavallano per tanti aspetti al mio lavoro di antropologo delle identità. Ma le cose che lui dice e che commento in questo post potrebbe averle dette chiunque, le dico anch’io in altre forme (vedi il titolo del post). E comunque, non intendo “criticare” quel che dice Salvini, semmai iniziare a riflettere grazie allo spunto delle sue riflessioni (Fine del disclaimer).

Nell’ultimo numero di Nòva24, il bellissimo inserto del giovedì del Sole24ore, Daniele Salvini scrive un pezzo, a pagina 6, titolato (lo so, non è opera sua, i titolatori sono una professione a sé nel mondo del giornalismo) “Comunità aperta (ma non per tutti)”. Si parla del ventennale di Sdf (Super dimensional fortress). Ora, non chiedetemi precisamente cosa sia Sdf (leggete direttamente il pezzo, semmai) dato che non l’ho capito del tutto, ma più o meno è una community di circa 30.000 membri che “incentiva un uso evoluto e sapiente degli strumenti informatici”. In pratica, è una community che se ne frega bellamente dell’interfaccia grafica e continua a tenersi unita con il protocollo Telnet e con il vecchio gopher, protocolli di comunicazione in buona parte superati perché troppo rigidi (soprattutto gopher, con la sua struttura ad albero) oppure “inglobati” quanto a funzioni nella struttura grafica del “www”. Le ragioni per mantenere viva una comunità che ha deciso di rifiutare esplicitamente un’interfaccia grafica possono essere le più varie (un po’ come varie sono le motivazioni per cui gli Amish non usano corrente elettrica, ad esempio) ma a me pare interessante quella che segnala Daniele Salvini nel suo pezzo:

Per servirsene [di Sdf] bisogna utilizzare la riga di comando: ogni attività si svolge scrivendo parole in un terminale, senza l’ausilio di una Gui, dell’interfaccia grafica, la quale, come dice Neil [sic] Stephenson nel suo saggio In principio era la linea di comando, altro non è che una metafora e sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale.


Provando a tradurre, e pensando anche al forte potere evocativo del titolo del saggio citato a supporto della sua tesi, Salvini ci dice che la riga di comando, non essendo metaforica come invece è l’interfaccia grafica, ci consente un rapporto più vero (con chi, è difficile dirlo: con la Rete in quanto nodi di accesso informativo o con gli utenti della rete in quanto terminali umani, soggetti bio-reali?). Conferma questa mia interpretazione quel che Salvini aggiunge subito dopo:

Scrivere invece che cliccare rappresenta una interazione meno mediata e un canale di comunicazione più diretto. [enfasi aggiunta da me, pv]


Mi pare bellissimo: dopo secoli di riflessione (da Platone in giù) sui rischi della scrittura come eccesso di mediazione del reale, ecco finalmente che la Gui si addossa tutta la colpa e possiamo elogiare per la sua “immediatezza” quel che avevamo sempre condannato come segno (attenti alle parole che uso, lettori; attento alle parole che usi, Piero) dello scollamento tra noi e la realtà. Il gusto che si ottiene, è in effetti qualcosa di simile a un remake attuale di Blade Runner. Oggi, nel trionfo di internet e della civiltà dell’immagine, Deckard non userebbe più il televisore per sondare la foto che lo porterà alla caccia dei “lavori in pelle”, probabilmente farebbe un accesso con Telnet, con la riga di comando su un monitor a fosfori verdi…
Ecco in proposito le parole di Salvini, che chiudono il suo bel pezzo svelando l’ideologia profonda di Sdf: “Oltretutto sembra fantascienza ma è vintage”. Ecco la parola chiave: vintage. Qualunque sia la nostra condizione tecnologica, quel che sembra contare veramente, oggi, sono due cose:
1. essere uptodate (di questo atteggiamento ho parlato altre volte, su questo blog, vedi i post taggati social distinction)
2. provare una sottile nostalgia per il passato, spesso evocato come un’epoca in cui la comunicazione era più vera, “meno mediata”.

Credo ci sia una correlazione diretta tra questi due atteggiamenti: più si ha modo di esprimere il secondo, e più si conferma che si vive nel primo. Se cioè non fossimo maledettamente protesi verso un futuro sempre più prossimo che accorcia la durata del presente, non avremmo così tanta nostalgia, e se abbiamo nostalgia è un buon segnale indiretto (ma socialmente apprezzato) del fatto che siamo aggiornati, con un sacco di passato già dietro le spalle.
Tant’è che neppure un mondo così inevitabilmente recente come quello della Rete ce la fa a non generare i suoi tradizionalismi, i suoi lefebvriani che vogliono internet in latino (perché questo a me pare Sfd: la rete che avanza traballando e biascicando una lingua che possono capire solo gli happy few). (Un caso simile mi sembra quello recente del panegirico per i telefonini che non fanno altro che telefonare e, al massimo, mandare sms: ecco i buoni e sani cellulari di una volta, mica le sconcezze ipertecnologiche che abbiamo oggi, signora mia).

Credo che la nostalgia sia un sentimento rispettabile (per quanto io ne rifugga il più possibile) e quindi non è contro questo aspetto psicologico della faccenda che sto argomentando. Mi interessa, in chiusura, puntare al cuore dell’argomentazione: che la metafora del Gui, in quanto metafora, è sleale, e che quindi la riga di comando è più onesta.

Rileggete il modo in cui Salvini lo dice, lo scrive. Rileggete con calma, per favore, e ditemi se non vi viene in mente quello schiavo orientale (citato da Wittgenstein, mi pare) che immerso nelle sabbie mobili si tirò fuori afferrandosi per i capelli legati a coda e tirando forte:

“…sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale”

“…il terreno di gioco delle metafore…” è una metafora! Come tutto il linguaggio che usiamo, che altro non è che un modo MEDIATO (né meno né più di qualunque altro canale comunicativo) di comunicare. Per contestare la sleale metaforicità del Gui, Salvini usa metaforicamente quell’altro strumento (il linguaggio verbale, in questo caso scritto) che dovrebbe essere “più esente” dall’accusa. Questo approccio ribalta secoli di riflessioni filosofiche sull’estetica. Si credeva infatti, fino a poco fa, che quello figurativo (cioè quello delle GUI) fosse un linguaggio meno mediato del linguaggio verbale, dato che si credeva che l’iconismo (cioè la capacità di imitare il reale visibile) fosse una qualità naturale del linguaggio figurativo, fin quando non abbiamo scoperto, con la semiotica moderna, che l’iconismo, come ogni sistema semiotico, ha la sua grammatica e la sua sintassi, e quindi se ne fotte della natura e delle sue regole, per seguire esclusivamente le sue, che sono create dagli uomini.

Ma più di questo, è per me interessante che la posizione di Salvini sembri dare credito all’utopia delle utopie, a quella chimera che perseguita i filosofi e gli antropologi (e ossessivamente i massmediologi, che su questo mito hanno costruito un’intera disciplina) e cioè la speranza che un giorno, forse (nel più remoto passato o nel futuro) gli uomini siano stati o saranno in grado di afferrare la realtà direttamente, im-mediatamente, senza bisogno di un medium (sia questo il linguaggio verbale, quello scritto disprezzato da Platone o quello grafico considerato sleale da Salvini). Ecco allora che, nel momento in cui esiste la Gui, la “linea di comando” vagheggiata, pur essendo a tutti gli effetti una metafora (pensate a dove potete arrivare pensando a “linea di comando”: corpi militari, da un lato, simboli fallici, dall’altro) si presenta come un barlume di quell’utopia, una fiammella da tenere accesa nella speranza che prima o poi divampi il sacro fuoco della comunicazione DIRETTA, senza mediazioni.
La radice di questa utopia, il suo eterno fascino, forse sta nella nostra profonda (nel senso che sta lì, in fondo, onnipresente qualunque cosa facciamo) consapevolezza della solitudine e nel nostro disperato desiderio di uscirne. Ma per uscire “veramente” dalla solitudine dobbiamo sperare che quel che sentiamo anche altri lo sentano, e se mettiamo di mezzo qualunque medium rischiamo di perdere la garanzia che la comunicazione sia stata tale, e di scoprire che è solo un trucco dei segni che si parlano tra di loro, alle nostre spalle. Vogliamo da sempre comunicare senza avere un canale di comunicazione, facendo passare direttamente il messaggio da corpo a corpo, senza linguaggio. È per questo che scopiamo, ed è per questo che gli innamorati balbettano ciuppi cippi e ciccio ciccia: cercano di comunicare sperando di saltare la necessità del medium.

Invece di ammettere che quel che proviamo e che esperiamo (a qualunque livello) esiste solo nella misura in cui viene mediato dal linguaggio (e di lì mediato altrove, dalla tv a internet), ci illudiamo che vi sia un’esperienza e una percezione prelinguistica, che potremmo in qualche modo recuperare se solo non fossimo così dannatamente civilizzati, se fossimo finalmente più naturali. Ecco, il mito di Sdf è il mito dell’ultima Thule, un posto dove ricominciare, finalmente. Peccato che, come tutti i miti, si fondi inevitabilmente proprio su quel che come mito intende negare, e cioè sul potere metaforico del linguaggio, che è così potente da illuderci, in certi momenti, che lui metaforico non è, come ci ha mostrato il pezzo di Daniele Salvini, che scriveva metaforicamente della non metaforicità del linguaggio scritto.