Ieri Valeria (34 anni) ha fatto una video-chiamata tramite skype a un’amica che ora vive a Milano. Ha assistito (e partecipato) alla telefonata anche Amanda (33 mesi) che ha una profonda simpatia per quest’amica di mamma. Sono entrato nello stanza-studio dove si stava svolgendo la scena per annunciare che la cena era pronta e quando Amanda mi ha visto ha puntato il suo ditino verso lo schermo, per farmi vedere il riquadro (contenuto nel riquadro maggiore dove si vedeva l’amica a Milano) da cui spuntavano l’immagine sua e della madre. Mi devo essere avvicinato abbastanza da entrare nel campo della telecamera, tant’è che Amanda mi ha visto sul monitor e ha detto: “Ih, guarda, c’è anche l’ombra di papà. C’è l’ombra di Amanda e anche di papà!”
Amanda assimila la sua ombra all’immagine di sé in diretta. Mentre le foto o le diverse riprese in cui si vede all’opera sono riconosciute come proiezione “totale” di sé (Mi fai vedere la foto? Mi fai vedere il film? Amanda gioca, Amanda balla), la proiezione in simultanea sul monitor è percepita come un’ombra. Cos’è un’ombra? Dal punto di vista di Amanda, mi pare di poter dire, un’ombra è un doppio indebolito del sé nel momento in cui esiste. L’immagine può essere registrata e archiviata, e quindi riprodotta nella sua interezza, mentre l’ombra è una specie di versione fiacca di noi stessi, una versione disossata, mi verrebbe da dire.
C’è il fondamento di un pensiero mito-logico, in questo piccolo aneddoto: abbiamo tutti un corpo ulteriore, un corpo vagamente più sbiadito, che vediamo nelle ombre. Questo corpo-doppio accompagna tutte le cose, non solo gli esseri umani, ed è diverso dalla rappresentazione, dall’icona degli oggetti, perché l’icona normalmente è scollegata dall’oggetto, può essere da lui allontanata, permane anche quando l’oggetto non c’è più, vive una sua vita autonoma, mentre l’ombra-doppio di cui sto parlando, che ci accompagna da ancor prima che fossimo in grado di produrre icone, dipende direttamente dal nostro corpo e dalla materia degli oggetti di cui è ombra. Oltre che nell’ombra, vediamo questo doppio anche quando non mettiamo bene a fuoco una cosa, come quando fissiamo un oggetto ma stiamo per addormentarci e allora sfugge al controllo della nostra messa a fuoco. A quel punto, non vediamo più l’oggetto “reale” ma il suo doppio sbiadito. Non si tratta di alcunché di magico o di esoterico, vedere ombre e vedere questi oggetti sfocati nel dormiveglia è un’esperienza comune che abbiamo iniziato a fare molto piccoli. A due anni i bambini hanno una completa e quasi banale esperienza di questo modo di vedere la realtà, distinguendo “le cose” non solo dalle loro “icone”, ma anche dalle loro “ombre”. L’ombra è sfuggente ma anche certa, non è una fantasticheria ma ha la curiosa qualità di essere una realtà empirica priva di corporeità, pur se dipendente dalla fisicità dei corpi da cui promana. Non si tocca, pur essendo percepita dai nostri sensi senza ambiguità, l’ombra non ha corpo, cioè non subisce il decadimento della materia.
La mia ipotesi è che questa entità di cui sto scrivendo e di cui così poco spesso ragioniamo, anche se nella nostra infanzia l’abbiamo sperimentata con la stessa vividezza con cui possiamo sperimentare la luce solare o il freddo della neve, sia tornata a farsi strada prepotentemente nei nostri immaginari pubblici. Centinaia di milioni di utenti di Facebook che “si vedono” online mi pare facciano la stessa associazione mito-logica che ha fatto Amanda vedendo la sua “ombra” nel monitor. Quel che vediamo non è ovviamente il nostro corpo reale, ma non è neppure una “semplice” icona autonomizzabile. Su Fb proiettiamo veramente la nostra ombra: quella parte di noi che dipende da noi qui e ora, che non potrebbe esistere scollegata da noi. Non abbiamo mai saputo bene dove collocare quell’ombra nella nostra vita, quel suo essere parte di noi ma anche priva di noi, quel suo essere noi senza che noi ci siamo. L’assenza di materialità della nostra ombra è sempre stata il suo fascino e la sua condanna: ci ha illuso che potessimo esistere oltre il nostro corpo, che ci sia un “io” che non ha bisogno della fisicità, ma la sua natura eterea ce l’ha anche resa ingestibile. Possiamo giocare con le ombre facendo finta che siano altro, ma non possiamo giocarle in quanto tali. Solo Peter Pan può vedere la sua ombra che si stacca, e può vedere Gwendy che gliela ricuce. Per tutta la vita ci siamo portati dietro quest’anima pendula e appiccicosa senza saperci bene cosa fare. Ora Fb ci ha liberati, possiamo giocare la nostra ombra in modi mai pensati prima. Rimane attaccata a noi, senza di noi non è nulla, senza di noi non c’è, ma il nostro profilo (silouette!) su Fb rende giustizia alla nostre aspirazioni infantili più profonde: vivere senza corpo, ma vivere “sul serio”.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.