Leggo Adriano Sofri da molti anni,
con ammirazione e rispetto. Quando uscì il mio primo libro (Vite
di confine), gli feci avere una copia proprio perché lo aprivo con un
esergo tratto da un suo scritto – credo fosse Il nodo e il chiodo. Ma
soprattutto, sentivo una consonanza profonda tra il suo modo civile e
intelligente di raccontare il cambiamento personale e il mio tentativo di
riflettere sulle identità collettive nei Balcani, sballottate da
pressioni politiche così violente da costringerle a trasformarsi in ciò che
chiamai (con un neologismo rimasto deserto) diaforentità.
Ho spesso condiviso le sue posizioni
politiche, anche quando controcorrente: sulla ex Jugoslavia, su Marco
Travaglio, su Putin e l’Ucraina, perfino su Mani Pulite. Non sempre ero
d’accordo, ma sempre trovavo in Sofri una postura intellettuale solida,
dialogica, profondamente democratica nel senso più alto del termine.
Sulla crisi israelo-palestinese mi
sentivo, e forse mi sento ancora, più esitante. Anche per via di un mio sionismo
ormai piuttosto esplicito. E poi, negli ultimi anni, ho letto Sofri meno di
quanto avrei voluto. Un motivo – lo dico con affetto – è il Sofrismo,
quella sua prosa a volte barocca, con periodi lunghi, subordinate incrociate, e
un ritmo che mal si adatta alla lettura rapida su un bus o una metro,
cioè dove io leggo i giornali.
A un certo punto ho anche accarezzato
l’idea (naturalmente ingenerosa e priva di fondamento) che Il Post, il
giornale fondato e a lungo diretto da suo figlio Luca, sia stato pensato come
reazione edipica alla scrittura paterna: “un giornale spiegato bene”, in
risposta a un padre “che spiegava benissimo ma con fatica”. In realtà, più
recentemente mi sono convinto del contrario: Luca Sofri ha un talento chiarissimo
nel pensiero, ma anche lui – sebbene in modo molto diverso – ama un’esposizione
complessa, quasi opaca per eccesso di chiarezza, se così si può
dire.
Tutta questa premessa per dire che ho
letto, riletto e faticato l’ultimo articolo di Adriano Sofri su Gaza,
uscito sul Foglio e ripreso anche su Facebook. Un pezzo, permettetemi,
bellissimo e bruttissimo. Bellissimo perché tenta, con rara onestà
intellettuale, di affrontare una questione devastante come quella di Gaza con
tutta la cautela morale che richiede. Bruttissimo perché, temo, molti
dei suoi lettori non arriveranno nemmeno in fondo. Non per colpa loro, ma per
una forma stilistica che in questo caso non aiuta. Troppe curve, troppi incisi,
troppe parole, pur se così vere, così necessarie.
Ho allora chiesto a ChatGPT di fare un
esperimento: riscrivere il testo per dei ragazzi di prima superiore. Ed
è venuta fuori questa versione. Mi pare riuscita. Leggetela come una parafrasi,
non come un tradimento. E, quanto ai contenuti, non voglio parlarne qui, se non
per dire una cosa: un articolo così, parola per parola, vorrei averlo scritto
io.
Perché faccio
fatica a usare la parola "genocidio" per descrivere quello che sta
succedendo a Gaza
(versione
semplificata da ChatGPT)
Anna Foa,
una storica, ha detto su un giornale che non ha mai usato la parola genocidio
per Gaza, ma che quello che succede lì “ci si avvicina molto”. In effetti,
anche io, se vedessi un altro Paese comportarsi come si sta comportando Israele
dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, forse direi che è un genocidio. Ma nel
caso di Israele non lo faccio. Perché? È proprio questo il punto su cui
voglio riflettere.
Alcuni, come Paolo
Mieli, pensano che dire genocidio sia sbagliato perché ricorda subito la
Shoah (cioè lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti). Ma non è proprio
così. La parola genocidio è stata inventata per descrivere altri eventi
terribili, come quello degli armeni nel 1915, che fu anche un “modello”
per Hitler. E ci sono stati altri genocidi riconosciuti ufficialmente: a Srebrenica,
in Ruanda, in Cambogia…
Quindi usare
quella parola non significa per forza paragonare Israele ai nazisti. Però c’è
chi lo fa, magari con odio verso gli ebrei, e dice: “Guardate, ora sono loro i
carnefici”. Questo atteggiamento è sbagliato.
Per essere
considerato un genocidio, non serve che ci sia un piano per uccidere tutti i
membri di un popolo. Basta anche voler cancellare una cultura, spostare
forzatamente una popolazione, o sostituirla. Per esempio, la Cina lo sta
facendo in Tibet.
A Gaza i civili
morti sono tantissimi, e anche se fossero la metà di quelli che dice
Hamas, sono comunque troppi. In più, ci sono dichiarazioni molto dure da
parte di politici israeliani (e anche di Donald Trump) che parlano chiaramente
di cacciare via la popolazione palestinese. Ci sono anche casi di fame imposta,
di violenze. Tutto questo basta per farci porre la domanda: è un genocidio?
Perché allora io
continuo a non usare quella parola? Non perché ho paura di sembrare
antisemita. Anzi, mi farebbe soffrire sapere che un solo ragazzo o ragazza oggi
non prova disgusto per quello che succede ai palestinesi di Gaza. Il
problema è che la parola genocidio ormai è diventata una specie di etichetta definitiva,
un’arma nel dibattito pubblico. Chi la usa viene visto come “contro
Israele”, chi non la usa come “a favore di Israele”. Questo crea
divisioni anche tra persone che, in teoria, sono dalla stessa parte.
E poi c’è un’altra
cosa: molti che da sempre sono pro-palestinesi non vogliono condividere
la loro battaglia con chi si è “aggiunto” solo adesso. È un po’ come tra adolescenti
gelosi: “Vuoi stare con noi? Allora prima di tutto devi dire che è
genocidio!”.
Un altro motivo
(più serio) è questo: chi critica Israele spesso non pensa a cosa succederebbe
se Israele sparisse. Se i suoi nemici più radicali avessero davvero in
mano il potere, lo userebbero con altrettanta o forse più crudeltà.
Molti non vedono la violenza e la brutalità anche dall’altra
parte, quella di Hamas o di Hezbollah.
E poi c’è il
rischio di dire: “I civili di Gaza sono colpevoli perché sostengono Hamas”,
come se i civili israeliani fossero colpevoli solo perché votano Netanyahu. Ma non
è così. Molti degli israeliani uccisi il 7 ottobre erano persone
pacifiche.
Infine, c’è una
differenza molto importante rispetto ad altri genocidi della storia. Nei
genocidi “classici” (come in Ruanda, Armenia o Cambogia), non c’era nessuno
all’interno del Paese che protestava apertamente contro ciò che stava
accadendo. Nessun giornale, nessun politico, nessun cittadino poteva farlo.
Invece in Israele ci sono persone che si oppongono con forza alla guerra
e ai crimini contro i palestinesi. Ci sono manifestazioni, articoli, dibattiti.
Questo fa una grande differenza.
Per concludere: ho
ancora due motivi per non usare la parola genocidio. Il primo è un po’ furbesco:
se diciamo genocidio per Gaza, dobbiamo forse rivedere tutti i casi in cui
l’abbiamo già usata, forse in modo troppo facile. Il secondo è più
serio: in Israele c’è una parte della società che resiste, che si
oppone, che protesta. Questo, secondo me, è un segno importante, e un motivo
per non buttare tutto in un solo giudizio definitivo.