Con il tempismo che mi caratterizza, commento un
post di
Luca Sofri pubblicato su
Wittgenstein venti giorni fa. Si tratta di un pezzo un po’ ironico e un po’ irritato su
Nicholas Carr, uno scrittore che un paio d’anni fa ha tirato fuori la storia che internet abbassa il livello di concentrazione e ci starebbe rendendo “
stupidi” e su questa presunta “notizia”ci marcia di gusto
tra libri e interventi pubblici che gli devono rendere un bel po’ di quattrini.
Non voglio entrare nel dettagli della tesi di Carr ma vorrei riportare qui un pezzo dello scritto di Luca Sofri:
Perché di certo un effetto certo del cambiamento per me è che non ho più tempo di leggere niente fuori dal computer o dall’iPhone o dall’iPad o dal Kindle. Ovvero, peraltro, luoghi su cui si legge qualunque cosa, quindi va anche bene così. Io la carta non la frequento davvero più. L’unica cosa che mi manca, però, della carta, sono le cose lunghe. Non che in rete non ci siano – ci sono meno – ma uno non ha tempo e abitudine di stare a leggere una cosa lunga senza farsi distrarre da altre cento brevi (e meravigliose, eh). Non leggo libri da mesi e mesi, forse anni: cioè, li apro, ne leggo dei pezzi, o li sfoglio, ma non li riprendo quasi mai. Ne apro degli altri, eccetera. So di cosa parlano, insomma, e anche come sono scritti. Conoscenza superficiale, eccetera: ma io avevo un’attitudine alla conoscenza superficiale già prima che il mondo diventasse a mia immagine ed accoglienza. Volete che ve lo racconti? O stavamo parlando d’altro? Comunque, non leggo più un libro intero. [enfasi mie, pv]
A me sembra che, al di là delle aggettivazioni sensazionalistiche di Carr, quella di Sofri sia una
confessione che non fa che
confermare la tesi dell'americano. Sofri è un
intellettuale (non so se si identifichi attivamente in questa posizione ideologica, ma oggettivamente è un intellettuale, uno che vive delle idee che produce, non certo dell’opera delle sue mani) e credo sia un’assoluta novità che un
intellettuale apprezzato possa ammettere pubblicamente di non leggere più un libro intero.
Sofri, come si vede leggendo i suoi post, legge un sacco di roba e ascolta un sacco di musica. Ma per sua esplicita ammissione non legge più un libro intero. Come fa notare lui stesso, non stiamo discutendo del “supporto” (carteo o elettronico), ma della
lunghezza fisica del testo, del suo numero di parole, le “cose lunghe” come concisamente le chiama Sofri.
Un libro è, per sua materiale condizione d’esistenza, una
dichiarazione politica, che potrei sintetizzare in:
ci si può occupare a lungo di un unico tema, e questo occuparsene a lungo (pura quantità temporale) è l’unica forma finora conosciuta dalla mente umana per occuparsene in profondità (qualità)
Certo, ho lavorato 15 anni come redattore editoriale e traduttore, quindi so per esperienza che ci sono milioni di libri che non contengono
nulla se non l’ego ipertrofico del loro autore o un lasciapassare per qualche avanzamento di status, ma questo non toglie il fatto che il libro come
modello cognitivo più che come oggetto fisico è concepito espressamente con l’intenzione di andare a fondo, di sondare, di vagliare, di ispezionare, di com-prendere, di
capire.
Capire, ci racconta anche Alessandro Bergonzoni, è
essere capaci, ed essere capaci è una proprietà dei
bauli, non delle persone intelligenti. Capire è
avere spazio per contenere, essere abbastanza
larghi e profondi per farci
stare quel che ci deve stare. Un libro questo fa (quando lo fa): ci fa capire, cioè
ci allarga per farci stare qualcosa che
prima non ci stava, la conoscenza del suo oggetto.
Non leggere libri significa
restare in-capaci rispetto all’oggetto su cui sono scritti i libri che non leggiamo. Vale a dire che potremo con-tenere solo entro lo spazio che
abbiamo già a disposizione, che non faremo spazio, non ci allargheremo.
Senza libri non è vero che non c’è conoscenza, ce n’è anzi un sacco e una sporta, ma quella conoscenza
non sarà capita. Sarà assunta solo nella misura in cui ci sta
già dentro lo spazio che le rendiamo disponibile. I libri insomma
ci allargano, mentre le “cose brevi” ci possono stuzzicare, al massimo solleticare. Riprendendo una vecchia opposizione sociologica, il testo breve è quasi di necessità “
consolatorio”, ci
conferma rispetto al nostro orizzonte culturale e morale, mentre il libro può essere “
nutritivo”, costringendoci a
modificare proprio quella linea dell’orizzonte che chiamiamo “noi stessi”:
Questo post è già abbastanza lungo, direi, e molti dei potenziali lettori non saranno stati
capaci neppure di arrivare fin qui, ma ripeto che questo è esattamente quello su cui dovremmo provare a riflettere meno sbadatamente, meno frettolosamente. Per provare a
capire, ancora una volta.