I primi minuti sono stati dedicati a
introdurre il tema della festa che il PEF – Polo Ex Fienile ha organizzato per
il 31 ottobre e dedicata al ricordo dei morti. GIADA GIORGI, studentessa di Editoria
e tra i leader del LaPE – Laboratorio di Pratiche Etnografiche nato come
spinoff di Tor Vergata e oggi associazione culturale autonoma e presente sul
territorio del VI Municipio.
[MINUTO
12:25] abbiamo iniziato a parlare della RICERCA SUL CAMPO con
una lunghissima introduzione (di fatto gran parte della lezione) dedicata al
modo in cui le discipline antropologiche raccolgono i loro DATI di
ricerca. Diversamente dalla storica, che usa l’archivio, e dalla sociologa, che
usa il questionario, l’antropologa ha il campo come spazio privilegiato di produzione
dei dati.
Abbiamo detto quanto a volte sia
difficile, nelle condizioni attuali della globalizzazione, distinguere tra
campo e vita ordinaria: se per me era facile capire quand’ero “sul campo” in
Macedonia greca o in Irlanda del Nord, assai più difficile è capire quando “sto facendo campo” a Roma,
dove la mia ricerca spesso si mischia alla didattica, e anche e soprattutto
alla mia vita ordinaria.
[MINUTO
15:30] L’antropologia non lavora più solo con i dati che
produce direttamente, ma deve imparare a maneggiare moli di dati sempre più ampie
che si trovano già disponibili e devono piuttosto essere analizzate con la
strumentazione tipica dell’antropologia (individuare il piano simbolico nel
corpo di dati che sta indagando, indipendentemente da chi li abbia prodotti/raccolti.
[MINUTO
20:40] Se la cultura è quel sistema complesso di segni
che abbiamo finora sommariamente definito, e se l’epistemologia della
disciplina impone un approccio teorico di tipo ermeneutico, in concreto
questo in cosa si risolve? Cosa succede veramente quando
l’antropologa o l’antropologo deve condurre una ricerca mettendo a frutto la
sua professionalità? Per che tipo di dati raccolti siamo pagati?
Partiamo da due video, che raccontano in
modo simmetrico il doppio errore/pregiudizio della ricerca sul campo, che
possiamo sintetizzare così:
1. Trovare cose che non ci sono,
semplicemente perché ci viene spontaneo cercarle.
2. NON trovare cose che invece ci
sono, perché siamo talmente intenti a cercare quel che dobbiamo cercare che non
ci accorgiamo della nostra “sustained inattentional blindness” (DANIEL SIMONS).
Una volta apprese, le categorie funzionano
al punto che ci possiamo ficcare dentro anche "cose" che in sé non
hanno ragione di starci, come dimostra la bellissima poesia di Fosco Maraini,
letta da Gigi Proietti [MINUTO
24:40] IL LONFO E' un testo
"senza senso" ma riusciamo a capire tantissimo, proprio perché
utilizziamo categorie che già abbiamo per ficcarci dentro quel nonsense. Anche
le parole senza senso le ficchiamo dentro qualche categoria. Questa dimensione cognitiva
è stata studiata dagli psicologi ma quasi solo per gli aspetti strettamente
percettivi (forme e colori) ma dobbiamo capire vale a che per i giudizi
morali o estetici: una volta elaborate, alcune categorie si radicano
in profondità e le utilizziamo anche per includere aspetti del reale che non
erano originariamente concepiti in quella categorizzazione (ROBERT SAPOLSKY
lavora su questi temi, ma non ci sono traduzioni italiane delle sue riflessioni
si questi temi, a parte il suo più semplice e divulgativo Perché
le zebre non hanno l’ulcera). In particolare varrebbe la pena di leggersi
le sue considrazioni sul DISGUSTO contenute nel sul Behave
capitolo 15: Metaphors we kill by. Pp.
560-565).
Un altro modo di comprendere questa
tendenza umana è l’antropomorfizzazione VIDEO triangoli e pallina su Peterson
Questa capacità di produrre senso, quando
non è socialmente condivisa può produrre il "delirio", la fine
della significazione come comunicazione. Ora, c'è una disputa tra filosofi del
linguaggio per stabilire se il linguaggio sia prima COMUNICAZIONE
(quindi presupponga l'altro) o sia ESPRESSIONE (per portare fuori quel
che si ha dentro) e non intendo prendere posizione in proposito. Mi basta dire
che il linguaggio è sempre tutte e due le cose, e quando perde la sua dimensione
CONDIVISA diventa facilmente ALIENAZIONE.
Questo significa collegare la cultura come sistema categorizzante al POTERE di esercitare
quella funzione. NON tutti hanno la stessa voce nello stabilire quale sia il senso di quell'aspetto
culturale. Il tè è diventato comune in Inghilterra perché era una regina a
consumarlo e le donne nobili l'hanno imitata, presto imitate dalle borghesi e
giù nella scala sociale. Ci sono diverse teorie in questo senso (penso ad
esempio alla Teoria della
classe agiata di Veblen) ma quel che conta è che ci imitiamo tra gruppi e sottogruppi e spesso capita
che siano quelli che dispongono le quantità maggiori di diverse forme di POTERE (economico, di prestigio, politico) a
fare da modelli e a stabilire quali siano i "giusti" (dentro quella cultura)
significati da attribuire a determinati segni.
Avere un quadro categoriale è quindi necessario, non possiamo farne a meno. Ma
una volta che lo abbiamo incorporato, da un lato ci consente di non dubitare
tutto il tempo per ogni cosa, ma dall'altro rischia di farci "perdere di
vista" aspetti del reale che NON ABBIAMO NOTATO perché eravamo intenti a categorizzare altro,
[MINUTO 35:50]. Il gorilla invisibile e le sue conseguenze
per il campo. Il video "Awareness
test" serviva a farci capire questo punto.
In questa versione estesa,
direttamente da DANIEL SIMONS, si può vedere confermata la tendenza molto
profonda a perdere di vista aspetti importanti del contesto SE NON INTERFERISCONO
con il compito che abbiamo da svolgere. Di fatto, il reale sembra concepito
come un sistema di COMPITI e FUNZIONI, vale a dire come un’articolazione
di “COSE DA FARE”, piuttosto che un sistema di cose delimitate e chiuse
in sé (“COSE DA ESSERE”), al punto che solo le cose da fare rientrano
nel nostro percepito ordinario, tagliando fuori anche variazioni sostanziali degli
altri oggetti non coinvolti nel nostro compito di quello specifico momento.
[MINUTO 47:50] Il punto di partenza è non commettere l’errore di cercare solo quel che
già si conosce, ed accettare il fatto che sul campo c’è un sacco di spazio per
la SERENDIPITÀ, vale a dire quella strana qualità della vita umana, per cui cercando una
cosa ne troviamo poi molte altre a cui non stavamo minimamente pensando. Un fenomeno simmetrico alla serendipità è invece
quando vediamo nelle nuvole dei volti, o degli oggetti (pareidolia). Le immagini che vediamo NON
sono nelle nuvole, (PAREIDOLIA significa immagine apparente) ma sono nelle
categorie che abbiamo acquisito e dentro cui forziamo quel che vediamo.
[MINUTO 50:44] La ricerca sul campo, proprio per queste costrizioni di ordine cognitivo-culturale,
deve sempre essere pronta a riconsiderare le sue DOMANDE DI RICERCA,
come ho provato a raccontare con l’esempio del CARCERE come spazio di
ricerca etnografica. [MINUTO
54:05] esempio della MACEDONIA GRECA e di come la ricerca sul campo possa
modificare in profondità l’originaria domanda di ricerca.
[MINUTO 59:14] la questione dell’INTIMITÀ come strumento della ricerca sul campo. L’antropologo che fa ricerca sul campo si trova a
dover considerare come strumento di lavoro quel che per altri studiosi
dell’uomo spesso è considerato un ostacolo
alla correttezza della ricerca, e cioè l’intimità
con le persone dalle quali cerca di ottenere la materia prima del suo lavoro.
Mentre un sociologo, uno storico, ma anche uno psicologo o uno psicoanalista
valutano con estrema cautela l’eventualità di provare qualche forma di attaccamento emotivo per i propri
interlocutori (o per i propri documenti), per l’antropologo questa condizione
di contatto profondo non solo non viene esclusa, ma è anzi attivamente ricercata: solo grazie alla
“confidenza” con i propri informatori, infatti, potrà sperare di fornire una
rappresentazione adeguata del “punto di vista del nativo”. VERED AMIT-TALAI (1999, p. 2) riassume questa particolarità della
ricerca etnografica in modo efficace:
Una delle
peculiarità dell’osservazione partecipante [[MINUTO 1:01:24] DEFINIZIONE DI OSSERVAZIONE PARTECIPANTE]] intesa come ricerca
etnografica è il modo in cui il/la ricercatore/trice e le sue personali
relazioni fungono da vettori privilegiati per l’elicitazione dei dati e per la
loro comprensione. Sicuramente non esiste altra forma di indagine scientifica
in cui i rapporti di intimità e familiarità tra ricercatore e soggetto indagato
siano considerati un così fondamentale strumento di indagine, invece che un
effetto collaterale intrusivo o addirittura un impedimento alla ricerca.
A questa citazione possiamo contrapporre,
con un pizzico di retorica contrastiva, la preoccupazione di una storica, ANNETTE WIEVIORKA che, ponendosi
direttamente il problema della rilevanza del testimone nella ricostruzione storica, sembra preoccupata proprio
di non perdere il passo con l’obiettivo fondamentale della sua disciplina:
Come costruire
allora un discorso storico coerente se ad esso si contrappone costantemente
un’altra verità, quella delle memorie individuali? Come fare appello alla riflessione,
al pensiero, al rigore quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena
pubblica? (Wieviorka 1999).
Ovviamente, non pretendo che questa
opposizione schematica sia sistematica (ci sono antropologi che si pongono il
problema di come superare la “seduzione etnografica”, e ci sono storici del
tutto convinti della necessità di un contatto più profondo con la questione
“esperienziale” della ricerca) ma rimane il fatto che la tensione tra distanza critica e identificazione empatica con la fonte sembra spingere la storia
verso la prima, e l’antropologia verso la seconda. In realtà, posta in questi
termini ipersemplificanti, l’opposizione è del tutto artificiale e fuorviante
(cfr. Dei 2005, pp. 41-42), dato che rischia di banalizzare lo spinoso problema
dello statuto ontologico delle rappresentazioni
(che sono i dati principali e
dell’antropologo e dello storico). Ma in questa sede non voglio occuparmi del
rapporto tra realtà, verità e scienze umane, quanto piuttosto di un tema
collaterale, e cioè l’interazione tra produzione etnografica e rappresentazioni
dell’identità.
[MINUTO
1:10:23] Il rapporto tra storia e memoria. Mentre
gli storici sono interessati (e giustamente) alla ricostruzione dei fatti, gli
antropologi cercando di ricostruire come quei fatti sono stati vissuti dai
testimoni diretti e, ancor più, qual è il SENSO che la comunità di riferimento
attribuisce agli eventi. Il caso del massacro delle Fosse Ardeatine e la ricostruzione
che ne ha dato lo storico orale ALESSANDRO PORTELLI nel suo fondamentale
L’ordine è già stato
eseguito.
[MINUTO
1:19:39] Iniziamo ad affrontare finalmente i
contenuti effettivi del saggio di Olivier de Sardan.
La ricerca
antropologica si basa sul quattro forme di produzione
dei dati, che tra loro interagiscono costantemente.
1. l’osservazione
partecipante
2. i colloqui
3. le procedure di
censimento
4. la raccolta di
fonti scritte (nelle quali io includo qualunque forma di “scrittura” intesa
come memoria extrasomatica, per cui tra le fonti “scritte” vanno considerati
anche filmati su pellicola o su nastro magnetico e tutti i tipi di “file”
audiovisivi oggi disponibili).
Vediamo per
concludere questa lezione solo la prima, l’osservazione partecipante.
Lo strumento
fondamentale del lavoro dell’antropologo nel produrre dati con questa forma è
il TACCUINO. Secondo OLIVIER DE
SARDAN (2007, p. 34), il taccuino “è il luogo dove si opera la conversione
dell’osservazione partecipante in dati trattabili ulteriormente”. Il
ricercatore, immerso nel contesto della sua ricerca, osserva, ascolta e
interagisce costantemente e il taccuino degli appunti sedimenta i corpus che saranno poi trattati nella fase di
elaborazione. Come lo storico ha gli archivi
nei quali produce i suoi corpus, così l’antropologo ha il taccuino di campo, che gli consente di registrare quel che ritiene importante per conservarne una
traccia. Non affronto in questa sede la questione dello statuto epistemologico
di questi corpus, ma mi limito a osservare come l’antropologia culturale abbia
da lungo tempo superato il paradigma rigidamente positivista secondo cui i dati
sarebbero “pezzi di realtà”, pur mantenendo un sano approccio empirista che le
consente di non cadere nella fallacia soggettivista per cui i dati altro non
sarebbero che costruzioni idiosincratiche dell’osservatore (Olivier de Sardan
2009, p. 32). Insomma, il taccuino su cui registrare impressioni e annotazioni
è uno strumento fondamentale per trasformare
in dati le osservazioni.
Eppure
l’osservazione partecipante non si limita a produrre dati su carta (o su file),
dato che una parte rilevante del sapere degli antropologi si sedimenta
attraverso l’IMPREGNAZIONE, cioè il
meccanismo di familiarizzazione implicita, non acquisita per via formale, della
cultura locale. LEONARDO PIASERE (2009, p. 75) la chiama “conoscenza
incorporata dell’esperienza etnografica” e per esemplificarla racconta un
curioso episodio accaduto durante un convegno che univa esperti di zingari e
antropologi esperti di altri campi di ricerca. Alla battuta di un collega
“zingarologo” risero solo gli antropologi esperti di zingari, perché
gli antropologi ‘generalisti’, pur
conoscendo l’etnografia scritta degli zingari, dimostrarono di non sapere
quando si ride in un accampamento zingaro. Nessuno di noi antropologi degli
zingari ha mai spiegato ‘di che cosa ridono gli zingari’ e forse nessuno ha mai
focalizzato la sua attenzione su questo, eppure la nostra pratica condivisa ci
portò in quell’occasione, quasi per un meccanismo di stimolo-risposta, a ridere
perché ‘sapevamo’ che in quelle situazioni dagli zingari si ride. Avevamo incorporato
una conoscenza che non era stata travasata nei nostri scritti (Piasere 2009, p.
75).
Il punto teorico
rilevante di questa dimensione della ricerca sul campo è l’esigenza, da parte
del ricercatore sul campo, di superare
il logocentrismo per riconoscere che tra le sue fonti di conoscenza molte
sono di tipo extralingustico. Così
riassume questo punto JUDITH OKELY:
Gli antropologi, immersi per prolungati
periodi in un’altra cultura o nella propria in quanto osservatori partecipanti,
imparano non solo attraverso l’orale o il trascritto, ma attraverso tutti i
sensi, attraverso il movimento, attraverso i loro corpi e l’intero essere, in
una pratica totale. Noi usiamo questa conoscenza per dare senso,
letteralmente, al materiale annotato. Scrivere è ben più della ‘pura cerebralizzazione’
che qualcuno ha detto essere. Le note prese sul campo possono essere niente di
più che un congegno che fa scattare memorie incorporate e quindi inconsce
(Okely 1992, p. 76).
La prossima lezione ripartirà da qui,
enucleando gli altri modi di produzione del dato etnografico.
TESTI CITATI SENZA LINK
Amit-Talai, Vered, 1999, “Introduction. Constructing the Field”, in Amit-Talai, Vered, a cura di, Constructing Field: Ethnographic Fieldwork
in Contemporary World, Florence, KY, Routledge.
Dei, Fabio, 2005,
"Introduzione. Poetiche e politiche del ricordo", in P. Clemente e F.
Dei, a cura di, Poetiche e politiche del
ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifascisce in Toscana, Roma, Carocci.
Okely, Judith, 1992, “Anthropology and Autobiography: Participatory
Experience and Embodied Knowledge”, in J. Okely, H. Callaway (a cura di), Anthropology
and Autobiography, ASA Monographs 29, London and New York, Routledge, pp.
l-28.
Olivier de Sardan,
Jean-Pierre, 2009, “La politica del campo. Sulla produzione di dati in
antropologia”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 27-63.
Piasere, Leonardo,
2009, “L’etnografia come esperienza”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp.
65-95.
Wieviorka,
Annette, 1999, L'era del testimone,
trad. it. Milano, Raffaello Cortina editore.