2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 1 novembre 2021

RACCOGLIER DATI SENZA DARLO A VEDERE: FIELDWORK (Lezione 10 del Modulo A registrata il 25 ottobre 2021)

 


I primi minuti sono stati dedicati a introdurre il tema della festa che il PEF – Polo Ex Fienile ha organizzato per il 31 ottobre e dedicata al ricordo dei morti. GIADA GIORGI, studentessa di Editoria e tra i leader del LaPE – Laboratorio di Pratiche Etnografiche nato come spinoff di Tor Vergata e oggi associazione culturale autonoma e presente sul territorio del VI Municipio.

[MINUTO 12:25] abbiamo iniziato a parlare della RICERCA SUL CAMPO con una lunghissima introduzione (di fatto gran parte della lezione) dedicata al modo in cui le discipline antropologiche raccolgono i loro DATI di ricerca. Diversamente dalla storica, che usa l’archivio, e dalla sociologa, che usa il questionario, l’antropologa ha il campo come spazio privilegiato di produzione dei dati.

Abbiamo detto quanto a volte sia difficile, nelle condizioni attuali della globalizzazione, distinguere tra campo e vita ordinaria: se per me era facile capire quand’ero “sul campo” in Macedonia greca o in Irlanda del Nord, assai più difficile è        capire quando “sto facendo campo” a Roma, dove la mia ricerca spesso si mischia alla didattica, e anche e soprattutto alla mia vita ordinaria.

[MINUTO 15:30] L’antropologia non lavora più solo con i dati che produce direttamente, ma deve imparare a maneggiare moli di dati sempre più ampie che si trovano già disponibili e devono piuttosto essere analizzate con la strumentazione tipica dell’antropologia (individuare il piano simbolico nel corpo di dati che sta indagando, indipendentemente da chi li abbia prodotti/raccolti.

[MINUTO 20:40] Se la cultura è quel sistema complesso di segni che abbiamo finora sommariamente definito, e se l’epistemologia della disciplina impone un approccio teorico di tipo ermeneutico, in concreto questo in cosa si risolve? Cosa succede veramente quando l’antropologa o l’antropologo deve condurre una ricerca mettendo a frutto la sua professionalità? Per che tipo di dati raccolti siamo pagati?

Partiamo da due video, che raccontano in modo simmetrico il doppio errore/pregiudizio della ricerca sul campo, che possiamo sintetizzare così:

1. Trovare cose che non ci sono, semplicemente perché ci viene spontaneo cercarle.

2. NON trovare cose che invece ci sono, perché siamo talmente intenti a cercare quel che dobbiamo cercare che non ci accorgiamo della nostra “sustained inattentional blindness” (DANIEL SIMONS).

Una volta apprese, le categorie funzionano al punto che ci possiamo ficcare dentro anche "cose" che in sé non hanno ragione di starci, come dimostra la bellissima poesia di Fosco Maraini, letta da Gigi Proietti [MINUTO 24:40] IL LONFO E' un testo "senza senso" ma riusciamo a capire tantissimo, proprio perché utilizziamo categorie che già abbiamo per ficcarci dentro quel nonsense. Anche le parole senza senso le ficchiamo dentro qualche categoria. Questa dimensione cognitiva è stata studiata dagli psicologi ma quasi solo per gli aspetti strettamente percettivi (forme e colori) ma dobbiamo capire vale a che per i giudizi morali o estetici: una volta elaborate, alcune categorie si radicano in profondità e le utilizziamo anche per includere aspetti del reale che non erano originariamente concepiti in quella categorizzazione (ROBERT SAPOLSKY lavora su questi temi, ma non ci sono traduzioni italiane delle sue riflessioni si questi temi, a parte il suo più semplice e divulgativo Perché le zebre non hanno l’ulcera). In particolare varrebbe la pena di leggersi le sue considrazioni sul DISGUSTO contenute nel sul Behave capitolo 15: Metaphors we kill by. Pp. 560-565).

Un altro modo di comprendere questa tendenza umana è l’antropomorfizzazione VIDEO triangoli e pallina su Peterson

Questa capacità di produrre senso, quando non è socialmente condivisa può produrre il "delirio", la fine della significazione come comunicazione. Ora, c'è una disputa tra filosofi del linguaggio per stabilire se il linguaggio sia prima COMUNICAZIONE (quindi presupponga l'altro) o sia ESPRESSIONE (per portare fuori quel che si ha dentro) e non intendo prendere posizione in proposito. Mi basta dire che il linguaggio è sempre tutte e due le cose, e quando perde la sua dimensione CONDIVISA diventa facilmente ALIENAZIONE.

Questo significa collegare la cultura come sistema categorizzante al POTERE di esercitare quella funzione. NON tutti hanno la stessa voce nello stabilire quale sia il senso di quell'aspetto culturale. Il tè è diventato comune in Inghilterra perché era una regina a consumarlo e le donne nobili l'hanno imitata, presto imitate dalle borghesi e giù nella scala sociale. Ci sono diverse teorie in questo senso (penso ad esempio alla Teoria della classe agiata di Veblen) ma quel che conta è che ci imitiamo tra gruppi e sottogruppi e spesso capita che siano quelli che dispongono le quantità maggiori di diverse forme di POTERE (economico, di prestigio, politico) a fare da modelli e a stabilire quali siano i "giusti" (dentro quella cultura) significati da attribuire a determinati segni.

Avere un quadro categoriale è quindi necessario, non possiamo farne a meno. Ma una volta che lo abbiamo incorporato, da un lato ci consente di non dubitare tutto il tempo per ogni cosa, ma dall'altro rischia di farci "perdere di vista" aspetti del reale che NON ABBIAMO NOTATO perché eravamo intenti a categorizzare altro,

[MINUTO 35:50]. Il gorilla invisibile e le sue conseguenze per il campo. Il video "Awareness test" serviva a farci capire questo punto.

In questa versione estesa, direttamente da DANIEL SIMONS, si può vedere confermata la tendenza molto profonda a perdere di vista aspetti importanti del contesto SE NON INTERFERISCONO con il compito che abbiamo da svolgere. Di fatto, il reale sembra concepito come un sistema di COMPITI e FUNZIONI, vale a dire come un’articolazione di “COSE DA FARE”, piuttosto che un sistema di cose delimitate e chiuse in sé (“COSE DA ESSERE”), al punto che solo le cose da fare rientrano nel nostro percepito ordinario, tagliando fuori anche variazioni sostanziali degli altri oggetti non coinvolti nel nostro compito di quello specifico momento.

[MINUTO 47:50] Il punto di partenza è non commettere l’errore di cercare solo quel che già si conosce, ed accettare il fatto che sul campo c’è un sacco di spazio per la SERENDIPITÀ, vale a dire quella strana qualità della vita umana, per cui cercando una cosa ne troviamo poi molte altre a cui non stavamo minimamente pensando. Un fenomeno simmetrico alla serendipità è invece quando vediamo nelle nuvole dei volti, o degli oggetti (pareidolia). Le immagini che vediamo NON sono nelle nuvole, (PAREIDOLIA significa immagine apparente) ma sono nelle categorie che abbiamo acquisito e dentro cui forziamo quel che vediamo.

[MINUTO 50:44] La ricerca sul campo, proprio per queste costrizioni di ordine cognitivo-culturale, deve sempre essere pronta a riconsiderare le sue DOMANDE DI RICERCA, come ho provato a raccontare con l’esempio del CARCERE come spazio di ricerca etnografica. [MINUTO 54:05] esempio della MACEDONIA GRECA e di come la ricerca sul campo possa modificare in profondità l’originaria domanda di ricerca.

[MINUTO 59:14] la questione dell’INTIMITÀ come strumento della ricerca sul campo. L’antropologo che fa ricerca sul campo si trova a dover considerare come strumento di lavoro quel che per altri studiosi dell’uomo spesso è considerato un ostacolo alla correttezza della ricerca, e cioè l’intimità con le persone dalle quali cerca di ottenere la materia prima del suo lavoro. Mentre un sociologo, uno storico, ma anche uno psicologo o uno psicoanalista valutano con estrema cautela l’eventualità di provare qualche forma di attaccamento emotivo per i propri interlocutori (o per i propri documenti), per l’antropologo questa condizione di contatto profondo non solo non viene esclusa, ma è anzi attivamente ricercata: solo grazie alla “confidenza” con i propri informatori, infatti, potrà sperare di fornire una rappresentazione adeguata del “punto di vista del nativo”. VERED AMIT-TALAI (1999, p. 2) riassume questa particolarità della ricerca etnografica in modo efficace:

Una delle peculiarità dell’osservazione partecipante [[MINUTO 1:01:24] DEFINIZIONE DI OSSERVAZIONE PARTECIPANTE]] intesa come ricerca etnografica è il modo in cui il/la ricercatore/trice e le sue personali relazioni fungono da vettori privilegiati per l’elicitazione dei dati e per la loro comprensione. Sicuramente non esiste altra forma di indagine scientifica in cui i rapporti di intimità e familiarità tra ricercatore e soggetto indagato siano considerati un così fondamentale strumento di indagine, invece che un effetto collaterale intrusivo o addirittura un impedimento alla ricerca.

A questa citazione possiamo contrapporre, con un pizzico di retorica contrastiva, la preoccupazione di una storica, ANNETTE WIEVIORKA che, ponendosi direttamente il problema della rilevanza del testimone nella ricostruzione storica, sembra preoccupata proprio di non perdere il passo con l’obiettivo fondamentale della sua disciplina:

Come costruire allora un discorso storico coerente se ad esso si contrappone costantemente un’altra verità, quella delle memorie individuali? Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al rigore quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena pubblica? (Wieviorka 1999).

Ovviamente, non pretendo che questa opposizione schematica sia sistematica (ci sono antropologi che si pongono il problema di come superare la “seduzione etnografica”, e ci sono storici del tutto convinti della necessità di un contatto più profondo con la questione “esperienziale” della ricerca) ma rimane il fatto che la tensione tra distanza critica e identificazione empatica con la fonte sembra spingere la storia verso la prima, e l’antropologia verso la seconda. In realtà, posta in questi termini ipersemplificanti, l’opposizione è del tutto artificiale e fuorviante (cfr. Dei 2005, pp. 41-42), dato che rischia di banalizzare lo spinoso problema dello statuto ontologico delle rappresentazioni (che sono i dati principali e dell’antropologo e dello storico). Ma in questa sede non voglio occuparmi del rapporto tra realtà, verità e scienze umane, quanto piuttosto di un tema collaterale, e cioè l’interazione tra produzione etnografica e rappresentazioni dell’identità.

[MINUTO 1:10:23] Il rapporto tra storia e memoria. Mentre gli storici sono interessati (e giustamente) alla ricostruzione dei fatti, gli antropologi cercando di ricostruire come quei fatti sono stati vissuti dai testimoni diretti e, ancor più, qual è il SENSO che la comunità di riferimento attribuisce agli eventi. Il caso del massacro delle Fosse Ardeatine e la ricostruzione che ne ha dato lo storico orale ALESSANDRO PORTELLI nel suo fondamentale L’ordine è già stato eseguito.

[MINUTO 1:19:39] Iniziamo ad affrontare finalmente i contenuti effettivi del saggio di Olivier de Sardan.

La ricerca antropologica si basa sul quattro forme di produzione dei dati, che tra loro interagiscono costantemente.

1. l’osservazione partecipante

2. i colloqui

3. le procedure di censimento

4. la raccolta di fonti scritte (nelle quali io includo qualunque forma di “scrittura” intesa come memoria extrasomatica, per cui tra le fonti “scritte” vanno considerati anche filmati su pellicola o su nastro magnetico e tutti i tipi di “file” audiovisivi oggi disponibili).

Vediamo per concludere questa lezione solo la prima, l’osservazione partecipante.

Lo strumento fondamentale del lavoro dell’antropologo nel produrre dati con questa forma è il TACCUINO. Secondo OLIVIER DE SARDAN (2007, p. 34), il taccuino “è il luogo dove si opera la conversione dell’osservazione partecipante in dati trattabili ulteriormente”. Il ricercatore, immerso nel contesto della sua ricerca, osserva, ascolta e interagisce costantemente e il taccuino degli appunti sedimenta i corpus che saranno poi trattati nella fase di elaborazione. Come lo storico ha gli archivi nei quali produce i suoi corpus, così l’antropologo ha il taccuino di campo, che gli consente di registrare quel che ritiene importante per conservarne una traccia. Non affronto in questa sede la questione dello statuto epistemologico di questi corpus, ma mi limito a osservare come l’antropologia culturale abbia da lungo tempo superato il paradigma rigidamente positivista secondo cui i dati sarebbero “pezzi di realtà”, pur mantenendo un sano approccio empirista che le consente di non cadere nella fallacia soggettivista per cui i dati altro non sarebbero che costruzioni idiosincratiche dell’osservatore (Olivier de Sardan 2009, p. 32). Insomma, il taccuino su cui registrare impressioni e annotazioni è uno strumento fondamentale per trasformare in dati le osservazioni.

Eppure l’osservazione partecipante non si limita a produrre dati su carta (o su file), dato che una parte rilevante del sapere degli antropologi si sedimenta attraverso l’IMPREGNAZIONE, cioè il meccanismo di familiarizzazione implicita, non acquisita per via formale, della cultura locale. LEONARDO PIASERE (2009, p. 75) la chiama “conoscenza incorporata dell’esperienza etnografica” e per esemplificarla racconta un curioso episodio accaduto durante un convegno che univa esperti di zingari e antropologi esperti di altri campi di ricerca. Alla battuta di un collega “zingarologo” risero solo gli antropologi esperti di zingari, perché

gli antropologi ‘generalisti’, pur conoscendo l’etnografia scritta degli zingari, dimostrarono di non sapere quando si ride in un accampamento zingaro. Nessuno di noi antropologi degli zingari ha mai spiegato ‘di che cosa ridono gli zingari’ e forse nessuno ha mai focalizzato la sua attenzione su questo, eppure la nostra pratica condivisa ci portò in quell’occasione, quasi per un meccanismo di stimolo-risposta, a ridere perché ‘sapevamo’ che in quelle situazioni dagli zingari si ride. Avevamo incorporato una conoscenza che non era stata travasata nei nostri scritti (Piasere 2009, p. 75).

Il punto teorico rilevante di questa dimensione della ricerca sul campo è l’esigenza, da parte del ricercatore sul campo, di superare il logocentrismo per riconoscere che tra le sue fonti di conoscenza molte sono di tipo extralingustico. Così riassume questo punto JUDITH OKELY:

Gli antropologi, immersi per prolungati periodi in un’altra cultura o nella propria in quanto osservatori partecipanti, imparano non solo attraverso l’orale o il trascritto, ma attraverso tutti i sensi, attraverso il movimento, attraverso i loro corpi e l’intero essere, in una pratica totale. Noi usiamo questa conoscenza per dare senso, letteralmente, al materiale annotato. Scrivere è ben più della ‘pura cerebralizzazione’ che qualcuno ha detto essere. Le note prese sul campo possono essere niente di più che un congegno che fa scattare memorie incorporate e quindi inconsce (Okely 1992, p. 76).

La prossima lezione ripartirà da qui, enucleando gli altri modi di produzione del dato etnografico.

 

TESTI CITATI SENZA LINK

Amit-Talai, Vered, 1999, “Introduction. Constructing the Field”, in Amit-Talai, Vered, a cura di, Constructing Field: Ethnographic Fieldwork in Contemporary World, Florence, KY, Routledge.

Dei, Fabio, 2005, "Introduzione. Poetiche e politiche del ricordo", in P. Clemente e F. Dei, a cura di, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifascisce in Toscana, Roma, Carocci.

Okely, Judith, 1992, “Anthropology and Autobiography: Participatory Experience and Embodied Knowledge”, in J. Okely, H. Callaway (a cura di), Anthropology and Autobiography, ASA Monographs 29, London and New York, Routledge, pp. l-28.

Olivier de Sardan, Jean-Pierre, 2009, “La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 27-63.

Piasere, Leonardo, 2009, “L’etnografia come esperienza”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 65-95.

Wieviorka, Annette, 1999, L'era del testimone, trad. it. Milano, Raffaello Cortina editore.