C'è una frase che da qualche anno si aggira per le stanze della psicologia pop come un mantra che pretende di guarire tutto:
"Dovresti essere più vicino alla tua parte emotiva.".
È detta con la voce morbida di chi ha letto due pagine di
Daniel Goleman e tre di Osho, e si accompagna spesso a una tisana, un cuscino
etnico, o un certo sguardo d’intensa comprensione. Ma a ben vedere, è una delle
frasi più pericolosamente stupide del nostro tempo.
Un collega straniero, persona colta e intensa, me l’ha
riportata con un certo disorientamento dopo una sessione di terapia. Gli
avevano appena detto che era troppo distante dalle sue emozioni. E io,
conoscendolo, ho pensato: ma se questo è uno che quando parla del suo lavoro
ti fa venire la pelle d’oca?
Un uomo che soffre, si entusiasma, si arrabbia, riflette,
e nel farlo mantiene sempre una compostezza, una misura, una forma, come
dicevano i miei vecchi — e anche un po’ mia nonna: “puoi anche piangere,
figlio mio, ma con dignità.”
È da Aion, uno dei testi più densamente simbolici
di Carl Gustav Jung, che ho trovato una risposta più seria di tutta questa
psicologia dei cuscini. Jung, parlando dell’ombra — la parte in ombra della
psiche — osserva che le emozioni non sono attività coscienti, ma eventi che
accadono all’individuo. Sono possessive, dice, non partecipative.
Non si scelgono, ti prendono. E se non sei pronto, ti portano giù, come le
correnti d’acqua sotto i moli abbandonati.
E aggiunge — con la precisione clinica di chi ha studiato
l’anima più della metà dei suoi colleghi messi insieme — che, in assenza di
controllo, l’individuo regredisce a uno stato primitivo, diventando
incapace di vero giudizio morale. Detto in parole semplici: essere “in contatto
con le emozioni” non significa niente, se non si è in grado di educarle.
La moda attuale vuole l’individuo trasparente,
accessibile, vulnerabile, in process, con lo zainetto emotivo sempre
aperto come il bagagliaio di una Panda scassata. Ma il mondo non è una
terapia di gruppo. E se pure lo fosse, i migliori terapeuti sono quelli che
insegnano a distinguere, non a sprofondare.
Perché quando le emozioni diventano l’unico metro, quando
“sentire” sostituisce “pensare” e “reagire” scalza “giudicare”, allora non si è
diventati più autentici: si è solo diventati più fragili, più
manipolabili, più primitivi.
E a quel punto — come diceva sempre mia zia Aurelia — “non è più sentimento,
è solo melassa.”