C’è un’intera generazione – o forse meglio: una intera postura culturale trasversale alle generazioni – che ha deciso che il Potere è un padre cattivo. E come ogni padre cattivo, va abbattuto. Ma non con la lotta politica, l’azione organizzata, la mediazione istituzionale. No: va castrato simbolicamente, delegittimato con hashtag, svuotato di ogni aura di legittimità e trattato come mostro onirico. Il Capitale. Lo Stato. Il Patriarcato. L’Impero. L’Occidente. Israele. L’Uomo Bianco. È l’intero catalogo edipico del presente – una teoria delle proiezioni morali che scambia il trauma per analisi, l’infanzia per prassi rivoluzionaria, la litania per scienza sociale.
Si tratta, in fondo, di un ritorno del rimosso
in forma di meme: ogni forma di autorità viene erotizzata, psicologizzata,
proiettata come figura del Male Assoluto. Non ha più importanza cosa fa lo
Stato di Israele, importa che è lo Stato di Israele: basta questo per
attivare il riflesso condizionato della condanna. Che poi nel frattempo si
finisca per sostenere il regime teocratico e misogino degli ayatollah iraniani
– quello sì, letteralmente patriarcale – pazienza. Il principio edipico esige
fedeltà alla struttura, non alla realtà.
Questa saldatura simbolica tra il wokismo
post-identitario, l’anticapitalismo post-marxista e l’antisionismo militante si
tiene tutta su un presupposto freudiano inespresso: l’autorità è colpevole
perché è autorità. E ogni volta che l’autorità reagisce – per esempio se
Israele risponde a un attacco armato – il riflesso è lo stesso: “Ma come osa?”.
È come se il padre della psicanalisi si fosse reincarnato in forma di algoritmo
moralizzante, pronto a punire ogni tentativo di esercizio del potere da parte
di chi è già stato classificato come oppressore. Poco importa se l’altro sia
apertamente genocidario: nel teatro edipico globale, conta solo chi
sembra più potente, non chi fa cosa.
E infatti si arriva presto all’asilo
geopolitico (inteso come scuola materna), dove gli adulti non parlano più tra
loro, ma si scrivono cartelli da manifestazione. From the river to the sea
non è più un programma politico: è una nenia. Il boicottaggio accademico di
Israele non è un’azione strategica: è una purga simbolica, un “papà cattivo vai
via” scritto con il pennarello rosso sulle pareti dell’ONU. E quando Israele
bombarda un sito nucleare iraniano, non si cerca di capire se fosse una
minaccia reale, ma ci si rannicchia subito sul tappetino delle emozioni
per dire: “Non si fa, non si alza la voce contro gli altri bambini!”
Ma gli altri bambini in questione sono ayatollah
che impiccano gli omosessuali. Regimi che rinchiudono le donne se si tolgono il
velo. Stati dove la stampa libera è un ossimoro e la teologia è legge.
Tuttavia, nel mondo dell’Edipo culturale, l’elemento centrale non è la realtà,
bensì il ruolo simbolico. E se sei maschio, bianco, occidentale,
democratico – peggio ancora, se sei uno Stato-nazione moderno – sei già
colpevole. L’innocenza è una funzione delle manette: chi è incapace di
esercitare potere è buono per definizione.
Così l’antisionismo militante diventa il parco
giochi prediletto di una generazione che ha sostituito la prassi politica con
il ressentiment moralista. Si scende in piazza non per affermare diritti,
ma per sentirsi nel giusto. Non si argomenta più: si sventola un trauma, e lo
si fa brillare come un santino. La messa in scena è tutto. E se l’Occidente
dovesse cadere, pazienza – meglio distruggere la casa del padre che fare i
conti con la sua eredità.
Ma come sempre, la tragedia edipica ha un
epilogo: una volta ucciso il padre, il figlio scopre che non c’è nulla da
ereditare, tranne i suoi debiti. E quando la realtà bussa alla porta –
con gli eserciti veri, le guerre vere, i muri veri – il bambino non può
che rimettersi a piangere, cercando un altro colpevole, un altro padre da
detronizzare, un altro sogno da rovinare.
D’altronde – lo ricordava Walter Benjamin
– ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Solo che
oggi la barbarie si scrive con i pennarelli colorati, ma sempre sullo
stesso muro.