A un certo punto, studiando la religione,
viene il sospetto che non basti più parlare di simboli, significati e reti di
senso. Perché quei simboli, a un certo punto, si alzano dalla sedia e fanno
qualcosa. Cantano, danzano, tremano, combattono, governano. È lì che Geertz
ci porta nella parte finale del suo percorso.
La religione, dice Geertz, non convince
con buoni argomenti. Convince perché si fa esperienza. Il rituale
serve esattamente a questo: a dare al mondo un’aria di solidità. Le idee
sull’ordine dell’esistenza non restano sospese come nuvolette filosofiche, ma
si rivestono di concretezza. Diventano emozioni condivise, posture del
corpo, gesti obbligati. Insomma: diventano vere perché si sentono vere.
Nel celebre caso balinese di Rangda e
Barong, i partecipanti non “interpretano” un ruolo come a teatro. Sono
il personaggio sacro. Non recitano, partecipano. E così salta la distinzione
rassicurante tra rito e dramma, tra emozione irrazionale e funzione
sociale. Il rituale è un pacchetto di azioni già pronte che si impone alla
mente, rendendo evidenti le verità della religione senza bisogno di spiegazioni.
Fin qui, tutto sommato, potremmo ancora
sentirci a nostro agio. Ma poi arriva la parte scivolosa: religione e
politica.
Qui l’antropologia moderna ha spesso avuto un riflesso condizionato: se c’è
religione, dev’esserci sotto il potere; se c’è sacro, dev’esserci
qualcuno che manipola. Una tentazione decostruzionista a cui
questa lezione prova a resistere con una certa ostinazione.
Nelle società premoderne – quelle
dell’“universo incantato” – religione e politica non erano due cose diverse che
si incontravano. Erano la stessa cosa. La politica nasce spesso come
tentativo di canalizzare una forza percepita come più che umana, non il
contrario. Il potere non usa il rito: è rito. E lo sfarzo, la messa in
scena, la solennità non sono accessori, ma il cuore stesso dell’autorità.
La città, la polis, è il luogo in
cui tutto questo diventa indispensabile. Quando non siamo più parenti,
quando dobbiamo fidarci di sconosciuti, commerciare, delegare, obbedire
senza conoscerci, serve una condivisione simbolica profondissima. Ed è
qui che la religione fa un lavoro enorme di integrazione.
La regalità sacra lo mostra bene:
il sovrano è potente perché è sacralizzato, ma proprio per questo è anche vincolato,
limitato, circondato da tabù. Il sacro non libera il potere: spesso lo incatena.
La modernità separa le due sfere, certo. Ma non le sterilizza del tutto. Il
sacro residuo continua a riaffiorare, come un vecchio attore che non accetta di
uscire definitivamente di scena.
