Da antropologo, cerco di notare gli
scarti di senso, cioè quei punti in cui “culture come discorso” e
“culture come pratiche” non coincidono e producono un effetto di distorsione
che si nota però più “da fuori”, con lo sguardo straniante dell’antropologia,
che non da dentro, nella vita quotidiana di chi quella cultura vive. Con
la crisi medica e sociale in corso, mi pare evidente che c’è uno scarto tra
quel che la nostra società dice di voler fare, e quel che di fatto
realizza, forse obbedendo a logiche motivazionali di ordine morale
più che economico-funzionale.
Dobbiamo contenere la diffusione
del coronavirus e questo obiettivo primario va perseguito non nel bloccare
il virus (obiettivo di fatto impossibile, quindi da escludere), ma nel rallentarne
la diffusione, in modo da evitare un sovraccarico sul sistema della sanità
che in certe zone si sta già realizzando e che devasta non solo le vite dei
malati e dei loro cari, ma in generale distrugge alle fondamenta l’idea
stessa di vita associata.
Dobbiamo, con tutte le forze, rallentare
la diffusione. La parola d’ordine, allora, è diventata #IoStoAcasa, perché “stando
a casa” quanto più possibile, cioè sempre tranne che nello
stretto tempo necessario al vettovagliamento, si diminuirebbero le possibilità
di diffusione e quindi si realizzerebbe il contenimento sperato.
Sembra una logica razionale, ma mi pare evidente che ci sono sintomi chiari che
non sia così.
1 la crescente insofferenza,
che a volte sfocia in odio aperto, verso i runner;
2 l’indifferenza sociale verso
le aziende che hanno tenuto aperte fabbriche non indispensabili alla fornitura
dei servizi essenziali;
3 la riduzione degli orari di
apertura dei supermercati e
4 la riduzione dei mezzi di trasporto
pubblico
sono quattro “pratiche sociali” (vale
a dire sistemi di azione che dipendo da istituzioni di diversa natura [senso
comune, decisori politici, amministratori locali] ma che hanno l’effetto di sembrare
ovvie e dettate dalla loro intrinseca utilità) che si possono
comprendere solo a patto di rileggere quel #ioStoAcasa non come un’approssimazione
di “cerco di ridurre il più possibile la diffusione del virus”, ma piuttosto di
un principio culturale immotivato e alquanto difficile da spiegare in termini
pratici che mi pare dica “dentro si sta sicuri, fuori si sta in pericolo”.
Che una persona corra da sola come
un ossesso o come un guru o come uno sportivo, a me ha sempre fatto una certa
impressione, ma qual è la natura oggettiva del pericolo di essere un
runner solitario? Non c’è. Punto. Neanche se corre a kilometri da casa.
Che degli imprenditori sconsiderati
possano voler lucrare ulteriormente su commesse da realizzare in un regime di
concorrenza del tutto falsato è certo molto razionale in termini economici,
ma come non si può notare che costringere i lavoratori a contatti
ravvicinati è semplicemente idiota se non criminale? E come si
può anche solo pensare di tenere aperte le fabbriche come si è fatto nel bergamasco,
se non illudendosi mentendo a sé stessi che “la fabbrica” in quando “dentro”
sia equiparabile alla “casa” come spazio sicuro?
E come si può pensare che ridurre
i tempi di accesso ai supermercati possa aumentare la sicurezza quando è geometricamente
inevitabile che una riduzione dei tempi aumenti il numero di persone che
occupano lo spazio nel medesimo tempo residuo, riducendo così quella rarefazione
sociale che dovrebbe essere lo scopo da raggiungere? Non si tratta di elucubrazioni,
ma di un minimo di spirito di osservazione: da quando nel Lazio i supermercati
sono aperti solo dalle 8.30 alle 19.00, si sono formate delle code
assurde (ho contato 120 persone lungo una coda di oltre 300 metri fuori
dalla mia Coop, a Roma) che hanno aumentato di molto la pericolosità dell’andare
a fare la spesa. In alcuni supermercati si sta di fatto instituendo un laissez
faire negli accessi, per cui se non stai in coda per un’ora e mezzo, ma
solo per venti minuti, poi dentro ti trovi gomito a gomito nelle
corsie come mai prima, e cassieri e tutto il personale sono
sottoposti a condizioni lavorative molto più pericolose.
Che poi si siano ridotti i treni
e gli autobus negli spazi urbani e interurbani è parimenti incomprensibile,
se la logica pratica fosse davvero quella del raggiungimento dell’obiettivo
razionale, vale a dire il calo dei contagi riducendo le potenzialità
di diffusione del contagio. Meno autobus ma fabbriche aperte, meno autobus ma
supermercati aperti in tempi ridotti, meno autobus e quindi mobilità pubblica ridotta
non può che significare far aumentare il numero delle persone compresenti
negli autobus residui. Fare di una risorsa necessaria una risorsa competitiva
diminuendo l’offerta non riduce il consumo, aumenta la competizione, che
negli spostamenti significa affollamento e vicinanza di corpi, l’opposto
di quel che si diceva di voler fare. E allora andiamo in macchina! E allora,
notizia di ieri, fermiamo tutte le macchine con le pattuglie, così
avremo una nuova occasione di assembramenti, e una bella ondata di carabinieri
e poliziotti infetti che faranno da untori per i prossimi automobilisti fermati
e controllati, cioè tutti, visto che tutti verranno fermati e
controllati.
Pratiche così contraddittorie
(dagli al runner, a prescindere; fabbriche aperte; negozi con l’orario
contingentato, mezzi di trasporti ridotti, controlli polizieschi che servono
solo a incrementare il rischio di contagio) si possono spiegare solo se
sono motivate da qualcosa di diverso dalla razionalità e dall’utilità.
Qui, credo, noi antropologi
qualcosa da dire ce l’abbiamo. Studiosi come Mary Douglas (Purezza
e pericolo) e Marshall Sahlins (Cultura
e utilità) ci hanno dimostrato or è circa mezzo secolo che la logica
simbolica (cioè un sistema di associazioni che stabilisce le
priorità indipendentemente dall’utilità, e che anzi determina cosa
quella cultura considera utile e indispensabile) è al fondamento
dell’agire sociale. Su questo gli economisti neoclassici e la loro concezione
della razionalità hanno completamente mancato il bersaglio (come ci ha
dimostrato l’economia comportamentista e i lavori di Daniel Kahneman
e dei tanti che da lui hanno tratto
ispirazione) ed è arrivato il momento di tirare un po’ le fila anche per il grande
pubblico, su questi temi, che non possono restare nei circoli esoterici
dei seminari specialistici.
Quando il Governo pone come
obiettivo lo “stare a casa” e non “stare a distanza gli uni dagli altri” sta
agendo secondo una logica simbolica che di razionale ha veramente poco.
I casi della casa per anziani e del convento infettati stanno lì
a dimostrare che non ci sono spazi “privati” sicuri contrapposti
a spazi “pubblici” infetti. Nel mio condominio i ragazzini continuano beatamente
a riunirsi a frotte (siamo novanta famiglie) e a giocare a rimpiattino
nel cortile, e la risposta al dubbio di alcuni è “ma tanto stanno a casa!”.
C’è insomma un immaginario
simbolico che enfatizza la frattura assoluta tra spazio privato e
spazio pubblico. Ho scritto in diverse occasioni come quella frattura (che ha ristretto
fino a cancellarlo lo spazio del vicinato, su cui potete leggere il libro
bellissimo di Luigi Zoja) sia il frutto del parallelo sviluppo urbanistico ed
economico, e non posso parlarne qui (semmai qui
chi vuole può leggere le mie cose a riguardo) ma basterà dire che la logica
sottostante è: il pericolo è comunque sempre “fuori”, trovati uno spazio “dentro”
e starai al sicuro.
Questa logica funziona al di là
degli obiettivi razionali che la società si è data (ridurre le occasioni di
contagio) e, anzi, può addirittura funzionare in contraddizione con quegli
obiettivi, dato che ridurre la mobilità (invece di aumentare la distanza),
costringendo più persone negli stessi spazi per tempi contingentati, può solo aumentare
il rischio di contagio, non diminuirlo.
Se mi posso permettere un consiglio
ai decisori politici, dobbiamo cambiare slogan, e non dire più “io resto
a casa” come se fosse un obiettivo pratico o utile in sé. Se resto a casa,
ma quando esco per forza (perché mi costringono ad andare a lavorare
o perché devo andare a fare la spesa) vado a infettarmi in spazi
tutt’altro che rarefatti, e se mi illudo che “la colpa” sia dei runner o delle
vecchine che non ne possono più di stare segregate e vanno due volte al giorno
al supermercato a fare la spesa, non sto raggiungendo l’obiettivo, anzi.
Aumentiamo le possibilità di
uscire di casa in sicurezza, lasciamo i runner liberi di girare da
soli e a debita distanza se lo vogliono fare, lasciamo che gli anziani,
i padroni di cani, chi vive in spazi angusti, chi non ha una casa degna di
questo nome, chi soffre per tensioni in famiglia, tutti noi insomma per
un motivo o per l’altro, possano uscire stando attenti a due cose, che
sono molto più fondamentali di tutto il resto:
1. Manteniamo la distanza,
sempre, con tutti: una distanza di almeno due metri, meglio tre, altro che
metro.
2. Portiamo ad ogni uscita la mascherina
e i guanti monouso, e cambiamoli ad ogni occasione di passaggio di
spazio, vale a dire fuori e dentro casa, ma io penso che si dovrebbero cambiare
i guanti anche all’uscita dei supermercati e dei pochi altri posti
aperti, se ne sono rimasti. Stiamo veramente lontani dai medici, dai
cassieri dei supermercati, dai clienti, dagli amici, insegniamolo ai bambini
e anche con loro per quanto possibile evitiamo smancerie in questo
periodo. Prendiamoci cura dei nostri cari, soprattutto degli anziani, con le
dovute cautele, per il timore di infettarli se non abbiamo paura di
essere infettati.
Chiediamo la riapertura con orario
prolungato dei supermercati, dalle 6 di mattino a mezzanotte, con l’obbligo
di nuove assunzioni per tutto il periodo di orario prolungato, visto che i
supermercati stanno facendo affari d’oro, di questi tempi. Chiediamo ai comuni
di aumentare la circolazione dei mezzi di trasporto consentendo
così agli autobus e ai treni e alla metro di essere sempre poco affollati, così che i pochi
passeggeri per ogni corsa potranno mantenere la distanza di sicurezza (e
chissà che questo non possa attivare pratiche migliori per la mobilità nelle nostre
città, in futuro).
#IlStoAllaLarga, allora, non
più #IoRestoAcasa. Non è la strada il posto pericoloso, è la vicinanza
tra le persone, il posto assolutamente da evitare. Così, forse, ce la
potremo fare.