Ho conosciuto Bjørn Thomassen nel febbraio 1994, il che fa davvero un bel po’ di tempo fa ormai. Non vi tedio con i miei ricordi greci (chi mi conosce mi ha sentito spesso narrare delle peripezie di Lesbo di un gruppetto di danesi, francesi, olandesi, tedeschi, ungheresi e italiani) ma vi dico qualcosa su di lui: era uno studente del Master di antropologia dell’università di Copenaghen, veniva da un anno di campo in Catalogna, e prima ancora da un anno a girovagare in Sudamerica in quel sabbatico che molti studenti nordici si prendono tra le superiori e l’ingresso in università.
Poi vinse una borsa di dottorato all’European
Institute di Fiesole, lavorando
sui profughi istriani a Trieste e in generale sulla Venezia Giulia.
Scelse di concentrarsi sui profughi “di sinistra”, mentre io in Macedonia
mi buttavo sulla minoranza slavofona con orientamenti “di destra”. Ci si incrociava
in questa vocazione a non dare per scontate le inclinazioni morali dei little
guys. Io discutevo, sempre più perplesso quanto più conoscevo il mio campo
di ricerca, con il nuovo vocabolario etnicista delle minoranze che stava
prendendo piede in Europa dopo la dissoluzione jugoslava, Bjorn si spostava
sempre più nitidamente verso la filosofia politica, che però nutriva
ancora di aneddoti dal campo.
La prima decade e mezzo del Duemila è stata un lungo passaggio
italiano per Bjørn, tra Trieste, Firenze e Roma,
dove avrebbe insegnato per anni all’AUR.
E’ tornato in Danimarca perché lì si può
lavorare meglio (ma guarda un po’) e forse anche perché si può vivere meglio
(ma guarda un po’). Ma questo lo dico io, lui ha sempre dichiarato un grande
amore per il nostro paese. Qui in Italia, del resto, si è convertito al Cattolicesimo,
diventando poi in Danimarca uno degli intellettuali più rappresentativi della
sua confessione.
Passa in Italia in questi giorni per completare alcuni lavori
con il suo sodale di molti anni, Rosario Forlenza,
e come LaPE lo abbiamo invitato al PEF a raccontarci il suo percorso di
formazione, le sue scelte di ricerca, e forse anche le sue riflessioni sullo
stato attuale del mondo (da dire ce n’è, che ne dite?).
Durante la chiacchierata mangeremo un po’ di pizza
al taglio, berremo qualche birra, proveremo come sempre a raccontare una
visione dell’antropologia fatta di persone, più che di epistemologie; di
storie minute, più che di grandi quadri
.